DA SUEZ AL CAIRO (di G. Gabellini)

L'onda d'urto innescata dai moti nordafricani sta evidentemente spingendo le principali potenze egemoni nella regione a interrogarsi sul futuro a venire, e ad escogitare contromisure adeguate a contenere pericolosi stravolgimenti dei rapporti di forza all'interno della complessa scacchiera mediterranea.

Per la precisione, alcuni degli stravolgimenti temuti da queste ultime si sono già materializzati in Libano, dove Hezbollah è uscita decisamente rafforzata dopo l'avvenuta rottura del sodalizio con l'ambiguo doppiogiochista Saad Hariri (una mossa politica che mette in luce la genialità strategica del movimento capeggiato da Nasrallah) e in Giordania, dove il re Abdallah Secondo ha giocato d'anticipo, esigendo un cambio di governo che potrebbe risultare assai indigesto agli inquilini allocati nei palazzi di Washington e Tel Aviv. Ma se gli USA stanno con ogni evidenza celando dietro un mormorio sibillino fatto di continue fughe in avanti e simmetriche ritirate (dove le esternazioni dirette e spregiudicate di Barack Obama fanno il paio con le timide posizioni standard assunte da Hillary Clinton) il tentativo di rivoltare machiavellicamente a proprio favore le rivolte, Israele sembra invece talmente disorientata e stordita da non riuscire nemmeno ad individuare un atteggiamento decente da tenere dinnanzi a una situazione tanto pericolosa. In effetti la caduta di Hosni Mubarak, sommandosi all'inversione a u (e il pubblico schiaffeggiamento dei vertici israeliani da parte del primo ministro Recep Erdogan sia all'indomani dell'operazione "Piombo Fuso" sia in occasione dell'attacco alla Freedom Flotilla) in chiave filoiraniana compiuta anni fa dallo storico alleato turco, ha relegato Israele nel più completo isolamento regionale, e messo a nudo la pochezza strategica di un'intera classe politica educata a pane e sionismo, capace solo di evidenziare agli occhi degli alleati "l'urgenza" di sostenere l'ormai impresentabile faraone Mubarak e di riavviare i lavori per la costruzione di una "barriera di sicurezza" lungo il confine egiziano. Un altro muro, dopo quello di Gerusalemme, con il quale Netanyahu e compagnia contano di mettere Israele al riparo dalle responsabilità che prima o poi dovrà decidersi ad assumere. Stesso discorso vale per i paesi europei, che nell'affrontare la questione non sono andati oltre l'emettere flebili pigolii d'auspicio di una conclusione pacifica degli scontri in Egitto e di condanna degli "eccessi" dei rivoltosi. Tutti, tranne gli USA, se ne stanno ben asserragliati dietro i propri "muri" – fisici o meno – stando ben attenti a non mettere i bastoni tra le ruote al "trasferimento democratico" (che non si sa bene come dovrebbe svolgersi) dei poteri – auspicato da Barack Obama e Hillary Clinton – in Egitto. L'ultima volta che l'Egitto si trovò al centro di una vera e propria controversia internazionale fu in occasione della crisi di Suez del 1956, una parentesi storica non certo priva di insegnamenti. All'epoca l'Egitto era guidato da un abile e astuto colonnello d'esercito prestato alla politica di nome Giamal Nasser, che dopo aver cacciato il pingue re Faruk si era immediatamente impegnato a stringere rapporti diplomatici con l'Unione Sovietica sperando nel contempo di riuscire a mantenere rapporti cordiali con gli Stati Uniti. Il nodo gordiano delle sue contraddizioni politiche fu reciso con un colpo secco dal presidente Eisenhower, che punì il suo doppiogiochismo rifiutandogli i finanziamenti necessari per la costruzione della diga di Assuan. L'ampio sostegno popolare di cui godeva ,connesso alla sua lungimiranza strategica di chiara vocazione panarabica, persuase tuttavia Nasser a giocare il tutto per tutto, ovvero a decretare la nazionalizzazione unilaterale del canale di Suez. Si trattò di un enorme azzardo politico con il quale il presidente egiziano contava da un lato di raccogliere i proventi necessari per la costruzione della diga di Assuan e dall'altro di dimostrare al resto del mondo il proprio spessore politico, affermando con un unico colpo di spugna la piena sovranità egiziana. Il canale era però gestito da un consorzio di cui l'impero britannico costituiva la maggior parte dell'azionariato, ed era di per sé considerato una strada maestra, un promontorio dal quale il governo di Londra dominava la "Via delle Indie", vero e proprio crocevia del commercio mondiale dall’alto del quale la Gran Bretagna poteva monitorare le comunicazioni europee con Asia e Africa. All'epoca il primo ministro britannico era il conservatore Anthony Eden, che considerava Nasser una sorta di Mussolini rivisitato e corretto cui occorreva impartire una dura lezione. Non appena apprese la notizia relativa alla nazionalizzazione del canale di Suez, egli incaricò immediatamente le forze armate di escogitare un piano d'invasione dell'Egitto che riportasse il canale sotto l'egida britannica e che scalzasse definitivamente il pericoloso Giamal Nasser. Trovò nel primo ministro francese, il socialista Guy Mollet, la spalla che cercava. Il movente di quest'ultimo era però principalmente legato al timore che tollerando l'audacia di Nasser l'Europa sarebbe incappata nel medesimo errore compiuto con Hitler in occasione della Conferenza di Monaco. In sostanza, Mollet temeva che limitandosi ad abbozzare di fronte alla spregiudicatezza di Nasser, non avrebbe fatto altro che fornire a quest’ultimo ragioni valide per incrementare la propria megalomania, e puntare, di conseguenza, su rilanci continui. Una tattica suicida che avrebbe in breve tempo minato alle fondamenta il predominio coloniale francese sulla vicina Algeria. Trasferendo al presente le ossessioni del passato, Eden e Mollet trovarono terreno fertile per stringere una solida alleanza anglo – francese in chiave antinasseriana. Rimaneva da trovare un terzo alleato e un pretesto per intervenire. Trovarono l'uno e l'altro in Israele, la cui classe dirigente ambiva a sbarazzarsi definitivamente di un feroce e potente antisionista come Nasser. Le parti si incontrarono a Sevres dal 22 al 24 ottobre 1956, e misero a punto i piani operativi. Una volta che l'esercito Israeliano avrebbe sferrato un rapido e possente attacco preventivo alle forze armate egiziane stanziate lungo la penisola del Sinai, Francia e Gran Bretagna avrebbero intimato un cessate il fuoco bipartisan cui sarebbero seguiti – nel caso in cui Nasser non si fosse fermato, come era presumibile – continui raid aerei su porti e aeroporti egiziani oltre all'occupazione militare del canale. Tutto andò per filo e per segno secondo i piani. L'esercito d'Israele travolse le forze armate egiziane e penetrò nel Sinai come un coltello nel burro, Nasser si rifiutò di interrompere i combattimenti e l'Egitto fu in breve messo in ginocchio dall'aviazione anglo – francese, mentre l'URSS, impegnata a fronteggiare gli insorti di Budapest, si limitò a sbraitare sterili e poco credibili minacce di ritorsione contro gli invasori. E proprio mentre l'operazione sembrava volgere per il meglio, accadde ciò che le potenze europee non avevano messo in conto. Irritato per non esser stato consultato dagli alleati, il presidente statunitense Eisenhower decise di assestare un colpo durissimo all'Inghilterra, incaricando il dipartimento del Tesoro di vendere sterline sulla Borsa di New York, ridimensionando conciò brutalmente gli aneliti imperiali britannici e intimando al contempo alla Francia dal guardarsi bene dall'assecondare progetti simili in futur
o. Eden cadde in una crisi profonda e rassegnò le proprie dimissioni a una manciata di mesi dall'accaduto, sobbarcando sul suo successore Harold MacMillan l'onere di rimettere in piedi il paese, mentre Nasser rimaneva saldo al suo posto con la definitiva nazionalizzazione del canale di Suez e un enorme prestigio internazionale acquisito in tasca. Nell'arco di pochi mesi la Gran Bretagna si vide costretta ad abbandonare i propri sogni di gloria per assecondare in toto quelli degli Stati Uniti, ai francesi toccò fare i conti con il nazionalismo algerino e richiamare un "padre della patria" della lungimiranza e del calibro di Charles De Gaulle per traghettare il paese definitivamente al di fuori dell'anacronistica ottica coloniale, mentre Israele regolò con maggior precisione i rapporti di forza con il vicinato. Dal canto loro, gli USA si limitarono a raccogliere il testimone imperiale lasciato loro in eredità dai britannici, e a fare grosso modo tutto ciò che avevano vietato all'Inghilterra. Eden e Mollet lessero la realtà con le miopi e retrograde lenti del passato, e non seppero cogliere i segnali dell'avvenuto cambiamento di epoca. Ciò compromise per decenni la presenza anglo – francese nell'area o ne limitò comunque, e di parecchio, la capacità d'influenza. Oggi come allora si avverte l'urgenza di dotarsi degli strumenti migliori per interpretare ciò che sta accadendo in Egitto e in tutti i paesi limitrofi. Tuttavia, ciò che si intravede, è la colossale inadeguatezza israeliana, la sua incapacità di comprendere l'inderogabilità di operare una radicale revisione di tutte le proprie posizioni nell'area che fa da contraltare all'avvilente inconsistenza europea, la sua totale mancanza di un progetto politico di ampio respiro indipendente da Washington. Così come Israele dovrebbe oramai rendersi conto che gli USA non sono più gli onnipotenti padroni del mondo – sempre pronti a correre in loro aiuto – e che i muri non potranno preservarla più di quanto non abbiano fatto con i bianchi del Sud Africa (e a cogliere la palla al balzo per agire di conseguenza), così i paesi europei dovrebbero riflettere sull'attuale fase geopolitica, che vede un lento ma costante declino degli USA, e riconsiderare daccapo la propria scala di priorità. Con la differenza che nell’affrontare la crisi di Suez non seppero fare i conti con il proprio declino, mentre ora non sanno fare i conti con quello statunitense. O (come è più probabile) non vogliono. Da decenni infatti nessun paese europeo è stato in grado di influenzare l'andamento dei maggiori avvenimenti internazionali (più o meno dallo scotto di Suez in poi), se non nell'ambito di azioni collettive rigidamente guidate dagli Stati Uniti. Alcuni di questi paesi, come Francia e Germania, sono riusciti al limite a coltivare i propri angusti orticelli, stanziati là dove si trovavano particolari risorse da valorizzare o vecchi rimasugli, reliquie dei "bei tempi che furono". Esistono ancora gli strumenti della politica estera – eserciti e diplomazie, ad esempio – ma non sono altro che vecchi cimeli ornamentali da sfoggiare con il permesso di Washington. Si tratta dunque di briciole, e nulla più. Perché la verità è che in tutti questi anni sono state tessute lodi sperticate di fronte a una presunta "Europa unita", ma all'atto pratico le potenze del Vecchio Continente non hanno fatto altro che guardarsi in cagnesco, ognuna interessata a concorrere efficacemente con le altre, privilegiando gli interessi nazionali a quelli continentali. E questa divisione, per il cui mantenimento è stata appositamente creata una assemblea di burocrati e affaristi più realisti del re (la "Unione Europea"), è stata assai funzionale alla potenza dominate. Tuttavia molte nazioni europee perseguirebbero in realtà numerosi interessi convergenti, e hanno alle spalle una forte comunità di ambizioni e orientamenti culturali. Il fatto che queste convergenze e comunanze non siano valorizzate e che ancora, nell'affrontare vicende particolari come i moti nordafricani, tutte le segreterie europee aspettino che vi si fiondino per primi gli USA – per i quali, detto en passant, il Mediterraneo è a qualche miglio di kilometri, a differenza che per noi – per poi contendersi gli avanzi gentilmente concessi quali "premi di fedeltà" è indice assai affidabile del grado di corruttela interno alle nomenklature dei singoli stati, che così comportandosi non fanno altro che ribadire i reali e sostanziali motivi del loro successo e indicare chi sono i diretti beneficiari del loro operato. E’ molto probabile che durante la crisi di Suez Eden e Mollet agirono in buona fede, convinti di perseguire gli interessi dei propri paesi, mentre a questa congrega di affaristi è francamente difficile concedere il beneficio del dubbio.