DALLA “DEMOCRAZIA PROGRESSIVA” AL PROGRESSIVO DEGRADO

(“Indipendenza”, luglio/agosto 2009)
Questo breve scritto rappresenta una rielaborazione redazionale, avallata dall’autore, dell’articolo di Gianfranco La Grassa, “Una società malata”. Secondo l’autore, la classe dirigenziale del PCI, per come si venne a caratterizzare in particolare a partire dagli anni Sessanta, è tra i maggiori responsabili dell’attuale degrado culturale e politico italiano. La Grassa ricorda l’indispensabile sostegno del PCI-PDS-DS all’operazione “Mani Pulite”, determinante nell’instaurazione di un blocco di potere economico ancor più succube alle strategie geopolitiche ed economiche di dominio degli Stati Uniti.
Il PCI è passato alla storia come il miglior partito comunista d’occidente. Errore gravissimo; si è confusa una doppiezza tatticistica e l’adesione al democraticismo ipocrita, che nasconde la “migliore forma” (e la più sfruttatrice) delle varie “dittature borghesi” (come disse Lenin), con la via maestra, e popolare, per accedere pacificamente al “socialismo”. Il partito di massa è invece divenuto il principale canale dell’invasione del partito da parte di una marea di piccolo-borghesi opportunisti e clientelari. In fondo, assai meno laidi sono stati i piccoli partiti comunisti europei (e dei paesi capitalistici avanzati). Non potevano compiere alcuna rivoluzione per non aver preso atto dell’inesistenza nei fatti della Classe, predicata per oltre un secolo, ad onta dei suoi reiterati fallimenti, quale soggetto della rivoluzione con transizione («il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente») verso il socialismo e poi comunismo. Tuttavia tali partitini –pur sclerotizzandosi e riducendosi a chiesuole portatrici di una “religione” che nemmeno può promettere un’altra vita migliore, meno sofferente, di quella che saremo costretti per sempre a sopportare “quaggiù”– hanno a lungo mantenuto un carattere più popolare, più “sano”. Il PCI è invece gradatamente divenuto la fiera degli orrori del ceto medio di cui detto sopra: semi-incolto, semi-intellettuale, banalone, buonista da strapazzo, un indegno miscuglio di cattolicesimo minore e sbriciolato (privo di quella grandissima tensione morale che ebbero, appunto, i Pasolini, i Bresson con dietro Bernanos, ecc.), di radicalismo “di mero costume” altrettanto degenerato e vomitevole. Berlusconi non è stato affatto la causa del decadere del gusto e del costume, è stato l’imprenditore che ne ha approfittato per guadagnarci sopra; ma il clima di incultura e di degenerazione morale, politica e di costume è “merito” della sinistra.
Il profondo degrado subito dalla società italiana, che assomiglia agli altri paesi della “civiltà occidentale” ma ne è anche abbastanza differente, è proprio dovuto a questa particolarità del PCI, che non è solo gradualmente divenuto piciista, ma si è trasformato in “sinistra”. Lo è però divenuto senza mai riuscire nemmeno ad accedere allo statuto realmente socialdemocratico, lo è divenuto trascinandosi dietro il vecchio ceto piccolo-borghese del partito di massa, con tutte le sue malformazioni in grado di fare emergere un quadro dirigente di laidi politicanti abituati solo alle manovre di Palazzo, privi di idee programmatiche (di cui il vecchio quadro piciista era almeno in possesso); e senza la concretezza pratica dell’imprenditore, che ha qualche inventività pur se non sempre esaltante (e il vecchio quadro piciista, amendoliano, di imprenditori ne ha prodotti; gli “ingraiani” sono stati il vero veicolo delle degenerazioni di cui sto parlando). Un gruppo di omuncoli politici dirigenti di una degenerazione difficilmente constatabile in altri paesi.
Qui si arriva ad un vero nodo essenziale. Bisogna ricostruire veramente pezzi di storia nostra in questo dopoguerra; con una particolare attenzione a ciò che avvenne dopo il “crollo del muro” e quella sporca operazione denominata Mani Pulite, tutta di potere e di smantellamento di un vecchio blocco sociale per metterne in piedi uno molto più parassitario e succube degli Stati Uniti, al di là delle diverse accentuazioni di pura forma: più sincera e netta la subordinazione della destra, più ipocrita ma assai più
pericolosa quella della sinistra, in tutte le sue varianti e mascherature; anche pacifiste, non violente, filoarabe e antiisraeliane, eccetera.
Oggi è passata nella coscienza delle persone, minimamente ragionanti, l’idea che il ceto politico odierno è nettamente peggiore di quello (democristo-socialista) di prima della svolta anni ’90. È tutta da rianalizzare questa nostra storia. Qui mi limito a poche battute. Al di là del blocco sociale, costruito dalla DC negli anni precedenti il boom e di natura, quindi, ancora prevalentemente agraria e contadina (ivi compresi i contadini poveri in specie nelle regioni bianche), è esistito un collante molto importante per la formazione di un reale blocco di potere: l’industria detta di Stato, quella già creata con l’IRI dal fascismo e che la DC, per opera di alcuni geni imprenditoriali come Mattei, estese con la creazione dell’ENI e poi con la nazionalizzazione che condusse all’ENEL. Questa mossa richiederebbe accurata indagine, visto che coincise con l’avvento del Governo di centrosinistra e il definitivo “recupero” quindi dei socialisti, per sempre staccati dai comunisti, che da questo momento all’incirca accentueranno la loro trasformazione in piciisti, in quanto fase di transizione alla degenerazione di “sinistra”, iniziata con Berlinguer e acceleratasi dopo Mani Pulite.
Al di là dell’obbligatorietà dell’operazione, legata alla crisi del ’29 e ai fallimenti industrial-bancari dei primi anni trenta, l’operazione IRI fu, almeno oggettivamente, lungimirante; ma non perché ci fosse la “mano pubblica”, come pensano i “radicali” di sinistra ancora adesso. Politica ed economia si diedero la mano, ma quest’ultima mantenne una sua autonomia (Beneduce alla Banca d’Italia o Mattioli alla Commerciale non furono semplici esecutori del fascismo; un Mattei, ma anche altri dell’IRI, non seguirono pedissequamente le direttive dei Governi democristiani). L’importante è capire che comunque l’intreccio tra le due sfere rende solo più stretta la connessione tra due elementi chiave di ogni attività economica (nelle sue partizioni di finanziaria e produttiva): a) esiste una sorta di “fanteria” che avanza stabilendo postazioni e teste di ponte; fuor di metafora stabilisce aree di relazioni varie, magari mediante corruzione, creazione di clientele, favorendo (anche con assunzione di personale vario) correnti politiche e dunque di potere che possono essere utili in molti contesti, aggancia settori esteri dello stesso tipo che siano indispensabili alle strategie esterne, eccetera; b) poi arrivano le “batterie pesanti” e le “truppe corazzate”, cioè la vera e propria attività economica, più o meno efficace e ben condotta, quindi con effetti vari di maggiore o minor rafforzamento di questo o quel gruppo dominante attuante giuste o meno giuste strategie.
Non semplicemente in epoca capitalistica, ma in ogni epoca –soprattutto se una comunità non è chiusa nel suo particolare, se non è di mera sussistenza e autoconsumo– non vi è alcuno sviluppo, sociale non meno che economico, senza crescita di potenza, e non vi è crescita di potenza senza l’arrivo della “fanteria” e dei primi “commandos”. Il moralismo è o una iattura che provoca lo sprofondamento di una società che non sia di completa chiusura in se stessa e di semplice sussistenza; oppure un diverso mezzo, fondato sull’ipocrisia e la finzione, mediante il quale dati blocchi di gruppi dominanti ne fanno fuori altri. Esattamente come accadde con Mani Pulite, operazione particolarmente vergognosa per il semplice motivo che ha consentito l’accesso al potere dei peggiori gruppi dominanti italiani, parassiti della più bell’acqua, come la ben nota Grande Finanza e Industria Decotta.
Diciamo che, durante il fascismo, e con modalità diverse durante il governo diccì (poi allargato ai socialisti), il settore statale dell’economia –in quanto commistione di quest’ultima e della politica, con intreccio e relativa autonomia reciproca– ha funzionato sia con la “fanteria” che con le “batterie pesanti” e i “reparti corazzati”. Tuttavia, si può ammettere che in troppi casi soprattutto nel dopoguerra con la DC –non tanto però con ENI, ENEL, Ansaldo e altre imprese, mentre la situazione fu diversa e peggiore nel settore bancario– c’è stata una certa prevalenza del regime di corruttele e clientele, di assunzioni dovute a pressioni indebite, di finanziamenti a pioggia per varie attività anche criminali, eccetera. Tuttavia, senza uno studio adeguato, indipendente dai giornali ed editoria finanziati da coloro che hanno buttato giù quel regime per erigerne un altro ancora peggiore, non sarà facile sceverare il grano dal loglio.
Sembra che nessuno abbia notato una contraddizione. L’ondata “moralizzatrice” (immorale) dei primi anni Novanta, condotta da una magistratura come punta di diamante di un nuovo blocco di potere che ricevette ampi aiuti d’oltreoceano, condusse al vertice della politica (cioè un subvertice al servizio della formatasi GFeID o piccolo establishment raggruppato in buona parte nella RCS) la maggioranza dei piciisti, quelli ormai degenerati in sinistra (non socialdemocratica in senso proprio) di bassissimo livello etico e di scarsissime capacità politico-governative; rinnegati pronti ai voleri di chi li aveva portati al posto di DC-PSI, salvandoli dal disastro generale del piciismo dopo il “crollo del muro”. Incredibilmente (solo all’apparenza), furono proprio questi personaggi con poche qualità ad accettare la “grande” stagione delle privatizzazioni degli Amato, Ciampi, Draghi, Prodi. Pensate: gli statalisti del PCI, quelli della superiorità del “pubblico” rispetto al “privato”, divennero garanti delle massicce privatizzazioni di quegli anni (e successivi). E i sinistri “radicali” fecero sempre la pantomima pur di sostenere lo schieramento di centrosinistra, nel mentre si svendevano sempre più a questo nuovo blocco di potere. Insomma: una sinistra serva, squallida come mai è stata.
Con le privatizzazioni, con lo smantellamento dell’industria e banche pubbliche –del tutto indispensabile al fine di disgregare il vecchio blocco di potere DC-PSI– il concetto di “pubblico” ha subito un totale cambiamento. Prima, almeno in parte, significava intreccio tra politica ed economia per corruzione e clientelismo, ma anche come “fanteria” per le successive avanzate in direzione della produzione e dello sviluppo capitalistico. Dopo Mani Pulite e l’arrivo del nuovo personale politico servo della Grande Finanza e Industria Decotta, il “pubblico” ha significato solo corruzione e clientelismo per ceti improduttivi e inutili, saccheggiatori della ricchezza italiana, sostenitori del nuovo blocco di potere, che si è dimostrato tuttavia incapace di creare un autentico blocco sociale come, finalmente!, si comincia a notare perfino con lo scollamento dei ceti operai –per non parlare del lavoro autonomo– rispetto alla sinistra, a questi divoratori e dilapidatori di ricchezza nazionale. Abbiamo avuto ancor più “nani e ballerine” (artistucoli, scrittorucoli e giornalistucoli, eccetera) che con Craxi; una raccolta di lavoratori (si fa per dire!) che vivono di finanziamento pubblico a pioggia. A difesa di questi personaggi sta una cintura protettiva costituita da apparati sindacali che vivono anch’essi di finanziamento pubblico, non certo dei versamenti dei loro associati, costituiti per il 50% di pensionati (da perdonare in toto) e da schiere sempre meno folte di rigurgiti di un passato che, come sempre accade, ha ancora i suoi nostalgici fan in coloro che non hanno capito nulla dello sprofondamento del vecchio, e realmente glorioso, comunismo.
Purtroppo, questa sinistra incapace, questi ceti che pesano sulla nostra ricchezza, questi sindacati puramente burocratici e grevi, questi similkeynesiani fautori della domanda da parte di ceti divoratori e dilapidatori, sono molto utili alla nostra destra, che non brilla certo per idee e prospera per l’insofferenza crescente di quote non indifferenti di popolazione in preda a qualche difficoltà. Essa si può permettere infatti di raccontare panzane sulla bontà della incosciente e irresponsabile “mano invisibile” del mercato, da lasciare perfettamente libero di devastare quanto non lo è ancora, in modo da permettere ad altri maneggioni (di una specie diversa ma non troppo) di arricchirsi senza eccessivamente affaticarsi. Non saranno certo i loro provvedimenti a risolvere qualcosa o impedire la crisi o almeno la stagnazione. Occorrono ben altre mosse realmente strategiche; economiche e politiche, e di politica anche internazionale, dimostrandosi meno succubi di fronte agli attuali predominanti.
Gianfranco La Grassa