DALL’INDIVIDUALISMO ECONOMICO “ALL’INDIVIDUALISMO SOCIALE” DELL’IMPRESA MANAGERIALE
di G. Duchini
Con Marx, l’analisi economica diventò “una non scienza”, così come veniva intesa nelle “scienze esatte” della fisica e matematica, da relegare ad un agglomerato di campi di ricerca mal circoscritti e scoordinati tra di loro, in un alternarsi di teorie economiche speculative, dove l’uso della parola “causa” assunse una suggestione metafisica. Inoltre, Marx svelò il nascondimento dei rapporti sociali posti al servizio di una classe dominante rivolta a pianificare scientemente ogni forma di dominio; oltre a manifestare ideologie tese a glorificare le azioni e gli interessi delle classi borghesi al potere: un principio da imporre ad ogni realtà istituzionale (mutevole), le cui leggi vanno (ri)scritte in continuum secondo una filigrana storica di un dominio variegato.
L’Occidente ha inaugurato delle tipologie di capitalismi irripetibili per il resto del mondo, lasciando dietro di se i detriti di civiltà superate, nell’espressione più compiuta di un grande dominio di ininterrotto “Occidentalismo” e che, tra vecchi e nuovi capitalismi, è stato in grado di imporre una propria civilizzazione con forti radici economiche, trasferite su una “dialogante ideologia economica”.
L’ideologia “dell’economica” prese piede con i caratteri del liberismo economico grazie, non solo da un imprimatur della sua formazione, quanto ai modi più diversi di (im)porsi,in associazione alle più importanti correnti di pensiero politico del secolo scorso. L’importante testo di Carl Schmitt, “Le Categorie del Politico” (raccolta degli scritti, dal 1922 al 1953), può dirimere, con una indubbia incidenza, le caratterizzazioni liberiste, in una sorta di polimorfismo politico, storicamente pervenutaci, attraverso alcune idee cardine dell’autore, che possono essere riassunte in: “Tutte le concezioni politiche sono state mutate e snaturate dal liberismo dell’ultimo secolo (Ottocento) in modo peculiare e sistematico”; e da questa proposizione principale si dipana un’insieme di riflessioni che si allungano, attraverso ed a cavallo dei due secoli (Otto-Novecento), non senza aleggiare, con suggestione evocativa, questo primo scorcio di secolo Ventunesimo.
“Come realtà storica il liberalismo si è sottratto al ‘politico’ …ed anche le sue neutralizzazioni e spoliticizzazioni (dell’educazione, dell’economia e così via) hanno un significato politico: i liberali di tutti i paesi hanno fatto politica come gli altri uomini e si sono coalizzati nei modi più diversi con elementi ed idee non liberali, come nazional liberali, social-liberali, liberali conservatori, cattolici liberal e così via.” In questo riscontro storico, Schmitt rileva una negazione del politico dietro il concetto puro e conseguente del “liberalismo individualistico”: base essenziale di ogni politica liberale. Questa idiosincrasia del pensiero smittiano nei confronti del liberalismo individualistico è l’idra mitologica delle “nove teste” ‘pensanti’, da cui nascono e si irradiano le tante politiche ridotte a forme di inestricabili di esasperate ideologie economiche, dove il liberismo diventa il comune denominatore di ogni forma politica; è sotteso, in Schmitt che una politica, in quanto tale, può essere realizzata soltanto tagliando, metaforicamente, “le nove teste ”; e poter realizzare con ciò una più incisiva decostruzione di tutto il pensiero politico contaminato da ogni forma di individualismo. “La teoria sistematica del liberalismo riguarda quasi soltanto la lotta politica interna contro il potere dello Stato e produce una serie di metodi, per ostacolare e controllare questo potere dello Stato in difesa della libertà individuale e della proprietà privata, per ridurre lo Stato ad un <compromesso> e le istituzioni statali ad una <valvola di sicurezza>..”
Sempre secondo Schmitt, il pensiero liberale sorvola lo Stato e la politica che devono muoversi entro una “polarità tipica, autorinnovantesi, tra due sfere, eterogenee tra di loro, tra etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà. E dove il singolo deve rimane il termine centrale per ogni interesse iniziale e finale di ogni discorso politico. Insomma tutto lo spirito liberale si ribella alla violenza ed alla mancanza di libertà, arrivando ad un sistema politico di “concetti smilitarizzati e spoliticizzati”.
E così “ il concetto politico di lotta diventa nel pensiero liberale, sul piano economico, concorrenza e sul piano <spirituale> discussione…..lo Stato diventa società, e precisamente sul piano etico-spirituale, si trasforma in una concezione ideologico-umanitaria dell’umanità, e, sull’altro piano, nell’unità tecnico-economica di un sistema unitario di produzione e di scambio…Il popolo politicamente unito si trasforma, sul piano spirituale, in un pubblico culturalmente interessato e sul piano economico in parte in un personale di fabbrica e di lavoro ed in parte in una massa di consumatori. Dominio e potere diventano nel polo spirituale programma e suggestione di massa, nel polo economico controlli..”
Ben si comprende che Stato e politica, secondo il liberalismo, vengono ridotti ad “una morale individualistica e perciò giusprivatistica, in parte a categorie economiche, privandoli così del loro significato specifico.. la morale diviene autonoma nei confronti della metafisica e della religione, la scienza nei confronti della religione.. una realtà in autonomia delle norme e delle leggi dell’economia …Poiché nella realtà concreta dell’esistenza politica non governano ordinamenti e insiemi di norme astratti, ma vi sono sempre e soltanto uomini o gruppi concreti, così anche qui naturalmente dal punto di vista politico, il <dominio> della morale, del diritto, dell’economia e della <norma> ha sempre e soltanto un significato politico concreto.”
Del resto, il liberalismo, secondo Schmitt, ricalca i principi del liberalismo individualistico borghese, di matrice inglese; un modello sociale sulla base del quale si andò configurando, un diverso sviluppo capitalistico di tipo Usa; e con esso la conferma di un processo immanente che presiede allo sviluppo capitalistico e contribuisce alla formazione dei vari capitalismi nazionali; la forma impresa con le sue caratterizzazioni aziendali (la superficie, soltanto, di più profondi processi capitalistici “particolari”), ebbe il suo inizio nell’espressione concreta dell’impresa borghese
: unaindividualità imprenditoriale fisicamente proprietaria, e trasmissibile perciò, secondo i canoni di un diritto ereditario, così da configurarsi come un portato essenziale di un lungo processo storico, che attraversò l’intero secolo ottocentesco; e da cui si rese possibile, la trasformazione imprenditoriale, da un ‘individualismo economico (borghese)’, ad un ‘individualismo sociale’ dell’agente capitalistico: un cambio di funzione dell’impresa, realizzato in uno (s)nodo interazionale, entro cui condensare isaperi manageriali; e nel contempo, un travalicamento storico dell’azione imprenditoriale verso un più ampio spazio sociale, con un nuovo “(s)oggetto sociale”, del tipo “Impresa Manageriale”: una determinazione di una stretta connessione tra le visioni strategiche dell’agente capitalistico e le basi materiali dell’ organizzazione imprenditoriale.
Il Capitalismo Manageriale Usa, con i suoi “ agenti e/o funzionari del capitale”, rappresentò il terminale di un lungo processo storico iniziato in Usa con la Seconda Rivoluzione Industriale (1870); e che venne a ramificarsi ed estendersi in Europa, fin dall’inizio della Prima Guerra Mondiale(1914), con una inedita forma imprenditoriale di ‘azienda politica’, non dissimile ad una comune organizzazione partitica; una sintesi aziendale-politica ‘perfetta’, del complesso strategico delle corporations (società per azioni) statunitensi, che ebbe modo di espandere tutto il suo potenziale pervasivo durante l’epoca policentrica, dei primi del Novecento; un “passaggio del testimone”, (da un individualismo economico, all’individualismosociale dell’agente capitalistico) dellanuova formazione economica-sociale, conun’inedita democrazia economica di massa, i cui caratteri di democraticità sono iscritti nelle libertà individuali del libero accesso, in compartecipazione, ai rischi dell’impresa; e con un altrettanto inedito supporto fondamentale, a più estesi investimenti di capitali, grazie alle libere sottoscrizioni effettuate da una miriade infinita di soci azionisti (della corporate Usa), controllati e guidati dalle grandi quote, in possesso, di pochi azionisti, cui demandare il controllo formale e reale dell’impresa: “agenti” mandanti nonché componenti politici fondamentali dell’insieme strategico imprenditoriale, sempre attento a far ricadere l’incertezza degli investimenti sull’azionariato popolare, beota e inconsapevole, da immolare sull’altare della perdita conflittuale (competizione) dell’impresa.
GIANNI DUCHINI SETTEMBRE ‘10