DARE A CESARE QUEL CHE E’ DI CESARE (di G. Gabellini)
Passata la pluridecennale stagione trascorsa sotto il segno della pura sconfessione, previa demolizione integrale, di Marx e di tutto il suo lavoro, ora molti profeti postumi si trovano costretti ad ammettere che "forse" non tutte le teorie del "daimon" (l'accento “socratico” non è assolutamente casuale) di Treviri e del suo interprete novecentesco Lenin sono da buttare nel cesso, poiché "talvolta" possono risultare indispensabili al fine di comprendere le complesse dinamiche economiche e imperialistiche attuali.
A cosa é dovuta questa "riscoperta" improvvisa? Per rispondere esaurientemente alla fondamentale domanda occorre fare una sintetica (e schematica, cosa che offre cospicui vantaggi) indagine descrittiva delle varie trasformazioni che ha subito la società capitalista dalla sua nascita fino ad oggi. La prima tipologia di capitalismo si è indubbiamente sviluppata nell'Ottocento, secolo dominato dalla borghesia familistica detentrice del potere, direttamente legato al possesso dei mezzi di produzione, che intrattiene con la classe proletaria un rapporto solo apparentemente analogo e speculare a quelli che vigevano nelle epoche in cui il capitalismo non esisteva ancora. A questo proposito, Marx scrisse che: "Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione il lavoratore, libero o schiavo che sia, deve giungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento un tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione", puntualizzando però che "E' evidente, tuttavia, che quando in una formazione sociale ed economica è preponderante non il valore di scambio, ma il valore d'uso del prodotto, allora il pluslavoro è limitato ad una cerchia di bisogni più o meno ampia, ma non sorge dal carattere stesso della produzione nessun bisogno illimitato di plusvalore". In questo rilievo Marx mette in luce il rapporto regolatore della società capitalista, che intercorre tra la forza – pluslavoro di cui i dominanti si avvalgono e la specifica variabile in cui, di volta in volta, si concretizza la nozione di plusvalore, che si trae dallo sfruttamento di una forza – lavoro non coartata a svolgere questo ruolo. Tuttavia, Marx coglie l'elemento (fortissimo) di discontinuità tra i modi di produzione del passato e quello propriamente capitalistico, che sta proprio nel fatto che i primi maturavano entro una società legata principalmente al valore d'uso (finito, nel senso di "limitato", per definizione), mentre il secondo tende alla logica di accumulazione illimitata del valore di scambio. Ne consegue che i rapporti che regolano modi di produzione si sviluppano a seconda della preponderanza del valore d'uso o del valore di scambio. L'evento cruciale del capitalismo è stato quello di aver fatto pendere per primo l'ago della bilancia sulla nozione di valore di scambio. La prima variazione strutturale fondamentale (ed epocale) del capitalismo avvenne negli USA con l'avvento delle teorie dei grandi industriali automobilistici Henry Ford e Alfred Sloan, che innescarono un irreversibile processo di "sproletarizzazione" del proletariato, reso più incline a dimettere le vesti “rivoluzionarie” per accedere massicciamente in una gigantesca e genericissima "Middle Class" ("upper" o "lower" che sia, fa ben poca differenza). I due capisaldi del fordismo sono la produzione in serie di un unico modello standard e, soprattutto, la ripartizione, che sarebbe forse più corretto definire "rivoluzione", dei rapporti di forza produzione/profitto. In sostanza, Ford ebbe l'intuizione di avvalersi dei grandi vantaggi che l'economia di scala era in grado di garantire per abbassare i prezzi di vendita, colmando in questo modo il vuoto creato dal mancato guadagno dalla vendita di ogni singola automobile con la somma esorbitante di macchine vendute. In altre parole, l'abbattimento dei costi di produzione portò alla massificazione del prodotto. Dal canto loro, i nuovi operai "sproletarizzati", vedendosi assegnare una busta paga molto consistente, ebbero buon gioco ad integrarsi nel sistema e ad assumere il nuovo status symbol di "consumatori". La genialità di Ford fu in larga parte ripresa dal direttore della General Motors Alfred Sloan, che ritenne però opportuno introdurre una novità fondamentale, quella delle "gamme". Anziché produrre in scala un unico modello di automobile standardizzato, Sloan decise di diversificare l'offerta, mettendo sul mercato un vasto assortimento di vetture in grado di soddisfare ogni desiderio (sociale o "di classe") e ad ogni bisogno (anch'esso sociale o "di classe"), pur rimanendo nel seminato della produzione in scala. Questi due grandi industriali riuscirono a massificare una merce, la vettura, alla quale il popolo americano ben presto conferì un significato determinante in chiave di consacrazione e riscatto sociale. L'importazione in Europa del fordismo "Made in USA" giocò poi un ruolo fondamentale ai fini di adeguamento del capitalismo europeo (nel quale, a differenza che negli USA, esistevano ancora certa borghesia e certo proletariato), di chiaro stampo renano, ai canoni imposti dal modello statunitense. Ciò favorì indubbiamente il dilagare di certa retorica "operaista", che assurse immediatamente i vari stabilimenti di Mirafioni (FIAT) e Boulogne – Billancourt (Renault) a "luoghi" del proletariato, e spinse la sedicente "estrema sinistra", a portare avanti certe assurde rivendicazioni di fatto assolutamente simmetriche e conciliabili con gli interessi dei settori dominanti. I propugnatori di tale "operaismo" non si accorsero evidentemente che stavano replicando lo stesso errore degli inetti strateghi militari che, in occasione della Grande Guerra, pretesero di combattere le nuove battaglie seguendo strategie e tattiche del tutto obsolete o comunque segnate dal tempo. Le astrazioni teoriche di Marx partivano infatti dalla valutazione oggettiva di una società, quella in cui viveva, in cui borghesia e proletariato erano due entità ben distinte e portatrici di interessi tra loro contrapposti. La realtà che andava delineandosi non rispondeva a questi requisiti minimi e non poteva, di conseguenza, prestarsi affatto alle smanie operaiste che, alla luce dei fatti, non hanno fatto altro che strumentalizzare e gettar fango sul lavoro Marx. Ad ogni modo, la parabola del fordismo, che combaciò alla perfezione con l'era keynesiana, connotata dalla continua espansione della "Middle Class", si chiuse di fatto quando si era reso evidente che il modo di produzione capitalista stava subendo un'ulteriore muta. La rigidità, non solo contrattuale, dell'industria solida e "costante" che connotava il fordismo stava infatti lasciando il posto alla logica "flessibile" e "liquida" della rete. Per dirla in breve, alcuni eventi cruciali (crisi petrolifera del 1973 e sganciamento del dollaro dall'oro), favorirono il ridisegnamento totale dei rapporti economici. Le porte della Borsa (nata originariamente per agevolare l'afflusso di nuovi capitali) si spalancarono alla facilissima via della speculazione più selvaggia, che pone il rapporto valore d'uso – valore di scambio a livelli incommensurabilmente squilibrati in favore dell'accumulazione potenzialmente illimitata del secondo. I grandi agenti del capitale (in sostanza, tutti battenti la medesima bandiera),
in perenne lotta tra loro, hanno iniziato a chiudere i rubinetti dei fondi da destinare allo sviluppo o alla creazione di nuove infrastrutture in favore di questa risorsa immediata, la speculazione, per assestare colpi micidiali alla concorrenza, e facendo ricadere gran parte dei danni sulla collettività, oramai corrispondente ad un’unica "Pauper Class" generale, connotata da spaventose diseguaglianze interne di ordine non solo culturale e patrimoniale. Tuttavia la lotta tra i vari agenti del capitale organici all'assetto unipolare può talvolta ridisegnare o rivoluzionare i rapporti di forza all'interno della classe dominante, ma mantiene sempre come fine supremo il potenziamento della struttura capitalistica generale. Questa situazione però è cambiata, e di parecchio, in occasione dell'ascesa di nuove e vecchie potenze regionali, che hanno fatto registrare tassi di crescita talvolta vertiginosi (si pensi a Cina e Turchia) in un periodo in cui il cosiddetto "Occidente" è passato dalla stagnazione alla recessione, approdando ad una congiuntura di crisi tra le più disastrose degli ultimi cento anni. Le lotte tra potenze emergenti e paesi capitalistici, per così dire, "all'avanguardia", sta infatti entrando nel vivo con tutte le pesantissime ricadute che comporta inesorabilmente; come è noto a chi ha occhi per vedere, le spese sociali e assistenziali stanno subendo spaventosi tagli di forbice e il livello di vita dei cittadini europei sta abbassandosi vertiginosamente. Alcuni osservatori suggeriscono che la situazione potrebbe essere efficacemente alleviata tessendo alleanze in giro per il mondo ma, dal canto loro, gli USA, da vera potenza marittima, stanno tentando in ogni modo di fomentare zizzania sperando di scongiurare il fantasma di un possibile compattamento strategico internazionale in grado di opporsi efficacemente al loro attuale (ma destinato a finire) predominio mondiale. Si tratta di una situazione che sta rapidamente iniziando ad assumere le tinte fosche dell’imperialismo, e desta effettivamente un certo sbigottimento, alla luce di queste considerazioni, prendere atto del generale ripensamento col classico senno del poi operato dai tanti sciocchi denigratori di Marx e di Lenin, che solo ora si rendono conto del valore e della portata teorica e pratica delle loro intuizioni. In sintesi, secondo Lenin l'imperialismo è caratterizzato da una situazione di conflitto in cui i grandi agenti del capitale si contendono il predominio sulle rispettive aree di influenza e sul monopolio dei mercati a livello mondiale, dimostrando molta più lungimiranza del “rinnegato” Kautzky. Queste considerazioni Lenin le scrisse tra i centoventi e novantacinque anni fa circa, mentre per quanto riguarda Marx occorre risalire ad epoche ancora più remote. A conti fatti, è andata bene; in fondo, Galilei ha aspettato qualche secolo in più.