DECRESCITA E ROMANTICISMO IDEOLOGICO di M. Tozzato

Gli ultimi interventi nel blog e il saggio di La Grassa nel sito mi pare abbiano fatto abbastanza chiarezza riguardo alle nostre posizioni sulle tematiche ambientali, sul modo in cui ne teniamo conto e sulla necessità che – proprio per le divergenze che gli specialisti dimostrano nelle loro affermazioni teoriche, scientifiche (concernenti sia  la  scienza pura che  quella applicata) e politiche – le problematiche vengano dibattute in una maniera seria e aperta e soprattutto razionale e rigorosa. D’altra parte La Grassa ha riaffermato per l’ennesima volta che tutto quello che può riguardare l’iniziativa nel campo dell’economia ecologica, dei provvedimenti fondati su rilevazioni tecniche a proposito dell’ambiente (protocolli,accordi, ecc.), delle politiche più generali di tipo innovativo nel campo delle scelte energetiche e nell’applicazione di soluzioni a basso impatto ambientale possono essere compresi solo all’interno di un certo tipo di analisi della struttura sociale (nazionale e globale) nella fase attuale. E’ necessario che la dinamica conflittuale tra i gruppi dominanti e tra le classi pre e sub dominanti in ambito geopolitico –  variamente articolate e segmentate funzionalmente per ambiti diversi: economico/finanziario-produttivo, politico-istituzionale e ideologico-culturale – nella sua correlazione con le “mosse”, nel migliore dei casi di puro carattere reattivo, che coloro che dirigono attualmente  gli strati dominati non decisori operano in questo ambito strategico complessivo, vengano compresi come il livello primario che non può non sussumere anche tutto quello, che di fattibile, può essere tentato per migliorare le condizioni ecologiche, ambientali, la pianificazione della produzione dell’ energia e la qualità dei valori d’uso che consumiamo. Al di là dell’utopismo di un ritorno a condizioni di vita impossibili da riproporre nelle attuali e irreversibili (come ripetono tutti gli ecologisti più prestigiosi a partire da Georgescu-Roegen) condizioni sociali, culturali, ma anche e forse soprattutto economico-produttive e naturali si tratta di prendere posizione rispetto alle autentiche forze sociali che determinano il presente e il futuro prossimo della formazione sociale globale. Solo all’interno di questo scontro si potranno creare le condizioni perché – come per tante altre prospettive di trasformazione sociale  dei vari sistemi capitalistici (differenziati geograficamente) – anche i temi della difesa dell’ambiente divengano realmente gestibili in una maniera alternativa rispetto a quella che, in modo sempre più ampio, caratterizza il nuovo business della “riconversione ecologica” gestita dalle classi dominanti.  Comunque avevamo iniziato una serie di interventi su questi temi e, se non altro per completezza, cercherò di presentare anche in questo caso, in maniera critica, alcune formulazioni in parte interessanti in parte curiose. L’economista ecologico Herman Daly, già citato negli interventi precedenti, viene ripreso molto spesso dagli scienziati ecologisti italiani e in particolare dal noto prof. Tiezzi. In un libro del 1999 (autori Enzo Tiezzi e Nadia Marchettini) si trova scritto:<<Daly sottolinea che “in sintonia con i marxisti devono essere posti dei limiti alla disuguaglianza; la giustizia sociale è una precondizione per l’equilibrio ecologico in tutte le società non totalitarie” e che “in sintonia con i maltusiani si deve riconoscere che, senza controllo demografico degli organismi umani e delle loro estensioni nei manufatti fisici, tutte le altre riforme sociali saranno cancellate dal peso crescente della scarsità, assoluta o maltusiana”>> Ci risiamo, direbbe il buon La Grassa, con autori, magari molto dotti, che però parlano spesso di cose che non hanno mai voluto apprendere leggendo i testi di prima mano:  le critiche di Marx a Malthus e al maltusianesimo sono state tradotte in tutte le lingue; il buon gusto di informarsi prima di scrivere è andato perso ! Quella sorta di democraticismo che Daly chiama marxismo crolla così sotto le determinazioni fisiche e biologiche – del tutto astoriche e considerate indipendenti dalle relazioni degli uomini in società e dalla loro capacità di trasformare le condizioni della produzione – per cui la crescita demografica come aumento “naturale” del numero degli esseri umani viventi insieme a una produzione che divora sempre più il “capitale naturale” per lasciare il posto ai “vili” prodotti del lavoro umano non possono far altro che preparare in maniera deterministica e necessaria la catastrofe del pianeta. Daly si fa quindi sostenitore di un’economia dello stato stazionario che non avrebbe niente a che fare con prospettive <<di immobilismo, povertà, “ritorno alla candela”, negazione dello sviluppo o della ricerca scientifica.>> Lo stato stazionario alluderebbe soltanto a una <<simbiosi tra uomo e natura e sviluppo di un sistema che si basi sui flussi naturali rinnovabili di energia e di risorse della natura, senza accelerare la crescita e la distruzione delle risorse non rinnovabili e dell’ambiente. Viceversa le strade basate sulla crescita economica portano a un fittizio immediato benessere, che sarà inevitabilmente seguito da un rapido e irreversibile declino.>> Daly (e Tiezzi che ne condivide le tesi) in quanto economista ed ecologista allo stesso tempo mostra di trovare un po’ di difficoltà a conciliare le due cose. Da una parte egli auspica una<<equa ripartizione delle ricchezze e delle risorse terrestri tra popoli e tra esseri umani>> dall’altra il <<controllo demografico delle nascite: crescita zero>>. Daly, però, aggiunge anche una considerazione, per così dire, di tipo “sociale”:<<Il controllo delle nascite, senza la riforma del diritto di proprietà, ridurrà, al più, il numero dei poveri senza eliminare la povertà. Una ricchezza sufficiente, mantenuta e allocata efficientemente, distribuita in modo equo, e non per massimizzare la produzione, costituisce il giusto fine economico>>. Il superamento dei limiti “naturali”, la violazione dei vincoli ecologici visti come barriere “astoriche” per le società umane in concreto divenire e sviluppo si manifesta, nel discorso di Daly, come determinismo demografico e come necessità di non o
ltrepassare i limiti della crescita produttiva. Ma allo stesso tempo egli sembra riconoscere che una diversa organizzazione sociale inserirebbe queste presunte costanti ecologiche assolute all’interno di contesti variabili condizionati anche dall’evoluzione socioculturale. Si può, inoltre, notare  la sua insistenza riguardo all’idea che si possa combattere la povertà globale con la sola redistribuzione  mettendo in secondo piano l’aumento della quantità dei beni prodotti. Ma insomma, in conclusione, attraverso continue affermazioni e altrettante correzioni contraddittorie, finisce per prevalere sempre  l’impostazione che mette al centro la nozione di entropia a partire dalla concezione bioeconomica fondata da Georgescu-Roegen:<<E’ all’interno dei vincoli biofisici che si deve muovere la programmazione economica, in sintonia con i ritmi della natura e con le dinamiche dei cicli biogeochimici globali.>> A questo punto si può capire come la teoria dello sviluppo sostenibile non può fare a meno di prendere una decisione rispetto alle alternative, decisamente divergenti, tra le quali non può fare a meno di scegliere. Da una parte non potrà non trionfare, inevitabilmente, una impostazione maggiormente pragmatica che si può ritrovare ad esempio nell’approccio utilizzato dal rapporto Brundtland del 1987 mentre, in alternativa, la prevalenza della tendenza a dare credito alla versione forte della teoria dello sviluppo sostenibile finirà per sfociare in una sostanziale adesione al pensiero della decrescita che trova in S. Latouche il suo più significativo rappresentante. Nel rapporto Brundtland si può leggere:<<Non esistono precisi limiti alla crescita in termini di popolazione o uso di risorse, superati i quali si abbia il disastro ecologico. Per il consumo di energia, materie prime, acqua e terra valgono limiti differenti; molti di essi si manifestano in forma di costi crescenti e profitti calanti, anziché in forma di un’improvvisa scomparsa di una base di risorse. L’accumulo di conoscenze e lo sviluppo della tecnologia possono incrementare la capacità di conservare tale base; ma esistono pur sempre limiti ultimi, e la sostenibilità esige che, assai prima che li si raggiunga, il mondo assicuri equo accesso alle risorse limitate e riorienti gli sforzi tecnologici allo scopo di alleggerire le pressioni sull’ambiente.>> Un  approccio di questo tipo, pure risultando  certamente diverso dal nostro, ci pare comunque legittimo e sensato e tale da poter essere, eventualmente discusso. La teoria della decrescita ci appare invece del tutto insoddisfacente a causa del suo utopismo e della sua incapacità di collegare l’analisi della società nella congiuntura attuale con le proposte politico-economiche che dovrebbero programmaticamente rappresentare la “critica pratica” alla formazione sociale capitalistica e al tipo di sviluppo a cui essa ha dato luogo. In un intervento all’Università di Padova nel settembre 1998 Latouche affermava:<<Annunciando, intorno al 1880 – sotto l’influenza di Philip Wicksteed, Knut Wicksell e John Bates Clark – che i fattori naturali di produzione (in particolare il suolo) sono riconducibili a due soli fattori, capitale e lavoro, gli economisti neo-classici eliminavano l’ultimo legame con la natura. L’esclusione della natura è un retaggio pesante, cui non è estraneo il dogma metafisico dell’armonia naturale degli interessi. Questo postulato, che nega i conflitti tra gli uomini ma è ottimale dal punto di vista della crescita e dello sviluppo economico, è anch’esso, come la scarsità, al centro dell’economico. La conquista della natura e la sua costituzione in avversario radicale del genere umano fondano il dogma di un interesse comune di tutta l’umanità, che è la base su cui poggia l’ideologia dell’economico. […] La potenziale infinitudine della natura giustifica la cooperazione tra gli uomini per il bene di tutti. Smettiamola di combatterci tra di noi, per dividerci una magra torta, e uniamo invece le forze per strappare alla natura parti sempre più consistenti, affinché tutti e ciascuno ne abbiano a sufficienza. Questo è il grande mito dell’Occidente. L’universalismo dell’economia e della modernità poggia, dunque, sul postulato di una natura nemica radicale del genere umano.>> Dopo avere accennato all’inizio della citazione al fatto che l’approccio neoclassico tende a coprire la forma radicalmente conflittuale dei rapporti sociali nella formazione sociale capitalistica, Latouche si immerge nell’ideologia di un umanesimo fondamentalista in cui la lotta contro la natura diventerebbe il momento dominante e lo scopo finale della struttura sociale vista come un tutto irrelato. Si comprende, allora, come per lo studioso francese il mito diventi la realtà  fino al punto da far passare totalmente in secondo piano il conflitto tra gruppi sociali dominanti per la supremazia e tra questi e i dominati. Così l’universalismo, nato nell’epoca borghese della storia del capitalismo, non sarebbe necessariamente l’ideologia della classe in ascesa tesa a consolidare il suo predominio e la sua egemonia rispetto al resto del sistema sociale, ma la farneticazione di una umanità impazzita desiderosa di tagliare, letteralmente, il ramo su cui si era appoggiata.

 

Mauro Tozzato                                    31.03.2008