DEMOCRAZIA: MA QUALE?
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Non intendo entrare in disquisizioni storico-filosofiche o tecnico-istituzionali o altre su che cosa significa democrazia. Secondo la mia abitudine di “sostanzialità”, mi atterrò a qualche considerazione non molto dotta (e non dottrinale). M’interessa già più l’affermazione leniniana secondo cui la democrazia è quel regime dei dominanti, nel quale il popolo (la stragrande maggioranza dei dominati) viene chiamato ogni tot anni ad eleggere i rappresentanti (nella sfera politica) di coloro che lo opprimono e sfruttano. Lo stesso Lenin considerava la Repubblica democratica “borghese” (poiché a quell’epoca esisteva ancora, per quanto fosse ormai arrivato al suo “ultimo stadio”, il capitalismo borghese) il migliore involucro formale della reale “dittatura” della borghesia: dittatura di classe con un significato diverso da quello in uso presso tutti quelli che sono soltanto studiosi, formalisti, di politologia e diritto, autentici ideologi dei dominanti, trattati quali specialisti, anzi “scienziati” (figuriamoci!). Leggete, solo come esempio preclaro, gli editoriali di alcuni di questi sul Corriere, e vi farete un’idea della loro scienza, da dott. Dulcamara.
Molto chiare anche le sanguigne considerazioni dei nostri “classici” marxisti sul concetto di democrazia vigente nei paesi a capitalismo sviluppato; notazioni dimenticate da quei disonesti, che oggi si spacciano per eredi di quel movimento comunista e sono alla disperata ricerca di raggruppare piccole schegge di sbandati, onde superare il limite previsto (ad esempio il 4% alle prossime europee), poiché sono terrorizzati dalla prospettiva di non poter più mettere il culo su un posticino da qualche decina di migliaia di euro al mese (con tutti gli altri privilegi per loro e i loro giannizzeri), dato che si tratta di politicanti senza la benché minima capacità di fare un qualsiasi lavoro utile al fine di guadagnarsi onestamente da vivere, invece di turlupinare quattro fessi che ancora sognano la rivoluzione, il riscatto degli “umiliati e offesi”.
Le campagne elettorali costano un fracco di soldi, e chi li tira fuori per finanziare i politicanti li vuole ben obbedienti, capaci di svicolare, magari con abili discorsi, dalle promesse fatte agli elettori così da poter difendere i loro interessi di ricchi finanziatori, in modo che i soldi spesi fruttino (magari, nel breve periodo, in termini di potere più che di immediato guadagno). E non solo occorrono soldi per le campagne elettorali, è pure necessario accedere ai media: TV, mensili, settimanali, quotidiani, associazioni culturali, sportive, ecc. Insomma, tutti i mezzi che sono in pugno dei vari gruppi di pressione, ampiamente indagati dai politologi più seri e meno imbroglioni; o perfino dagli stessi imbroglioni quando scrivono libri “di studio”, letti da pochi, in cui si consentono di dire delle “verità”, che mai riporterebbero sui media dove vengono strapagati dalle varie accolite in cui sono suddivisi i dominanti.
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Mi sembra ancor più interessante un altro problema. Quella che chiamiamo democrazia – fondata sulle elezioni (costosissime, ecc., non mi ripeto) – non è altro che un complesso sistema di mediazioni tra i vari gruppi di pressione o lobbies o massonerie, ecc. Finita l’illusione della formazione della Classe (operaia o proletariato, dizione ancora più ridicola oggi), quale soggetto della rivoluzione preparata dalla stessa dinamica del capitale, appare in piena luce, salvo che ai malati della vecchia ideologia proletaria e operaista, come tra le lobbies e gruppi di pressione vadano annoverate anche le cosche di vertice delle organizzazioni create per assumere il controllo e la direzione delle cosiddette masse lavoratrici, cioè delle varie categorie del lavoro salariato a medio-basso livello, quelle che ricoprono sostanzialmente ruoli prevalentemente esecutivi. I cosiddetti sindacati sono ormai guidati da gruppi di professionisti della politica, così come questa è intesa nei paesi a capitalismo avanzato; una politica che, quando definita democratica, è appunto un estenuante complesso di mediazioni, implicanti grande dispersione di tempo, per la messa in opera di pesi e contrappesi nel campo del potere e dei reciproci rapporti di forza tra lobbies. Una politica di contrattazione che certamente ogni gruppo di pressione, per non perdere la propria base elettorale o comunque di con-
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senso e unione degli aderenti, conduce in modo tale da conseguire anche determinati vantaggi per questi ultimi con riguardo alla distribuzione del reddito prodotto; più in generale, relativamente alle condizioni di vita e di lavoro.
La democrazia diventa una sorta di clearing house, una stanza di compensazione, dove oltre a versare soldi, i vari gruppi di pressione – dirigenti dei diversi raggruppamenti e ceti sociali e professionali – “ammassano” il loro potere e poi se lo redistribuiscono a seconda di varie contingenze più o meno favorevoli, con un continuo braccio di ferro, in cui però – poiché la forma deve essere quella “democratica” – il “guanto di velluto” va tolto in rare occasioni (si pensi, ad es., allo scontro Thatcher/sindacati) onde non mostrare in piena luce il “pugno di ferro”. Ripeto che la mediazione, salvo eccezioni di emergenza, prevale e porta ad estenuanti contrattazioni e ad accordi spesso deleteri per tutti o quasi. L’ideologia – quella del Lavoro (sottinteso salariato ed esecutivo) o quella del Capitale (di cui si cerca, fin che si può, di celare il lato finanziario-“parassitario” e di mostrare quello efficientistico-produttivo) – serve a fingere che i contendenti siano gli aderenti e iscritti alle varie organizzazioni di cui costituiscono la “base”, mentre gli effettivi decisori sono invece le massonerie e lobbies che solo formalmente consultano detta base, manovrandola e tenendo marginalmente conto dei suoi interessi. Tali massonerie e lobbies in genere raggiungono, tramite mediazione e contrattazione, un “equilibrio” (instabile) di potere (e spesso anche di “denaro”) da esse ritenuto il più soddisfacente (o meno insoddisfacente) in quella data contingenza; per le “masse” vi sono briciole che tuttavia, in situazioni economico-politiche favorevoli (di sviluppo), sono da queste ultime ritenute sufficientemente vantaggiose.
Tutto questo sistema di pesi e contrappesi, di mediazioni sfibranti e caratterizzate da lungaggini estenuanti, funziona nei periodi di relativo benessere, cioè quando, per periodi sufficientemente lunghi, il trend del tenore di vita è crescente – pur con ritmi e livelli assai differenti per i diversi strati sociali – riguardo alla stragrande maggioranza della popolazione; i periodi di congiuntura negativa sono brevi e non comportano veri abbassamenti di tale tenore (semmai s’intaccano i risparmi precedentemente accumulati, per poi ripristinarli senza troppo gravi difficoltà data la rapida inversione del ciclo). Una situazione del genere richiede però che vi sia, sul piano generale (cioè mondiale), un centro regolatore che funzioni perseguendo certo principalmente i suoi interessi, ma garantendo pure un qualche ordine globale, non soltanto economico. Nel mondo detto bipolare, durato per poco meno di mezzo secolo, un polo, in stagnazione e poi avvitamento, servì da contrappeso all’altro polo (capitalistico) in rapido sviluppo, caratterizzato da brevi recessioni, che non intaccavano il suo ordine complessivo garantito dalla netta supremazia (monocentrica) statunitense.
Venuto meno questo bipolarismo, messosi in moto prima un iniziale dominio “imperiale” degli Usa e poi l’attuale preminente tendenza al multipolarismo, nessun centro regolatore esiste più; e credo si possa scommettere che non esisterà più – e ci si avvierà invece verso il vero e proprio policentrismo (“imperialistico”) – fino a quando non si arriverà, in forme oggi imprevedibili, ad una nuova resa dei conti, da cui emergerà l’almeno relativa supremazia mondiale di uno dei poli in lotta (monocentrismo). Possiamo allora anche scommettere circa l’inizio di un lungo periodo di accentuato disordine, di cui l’attuale crisi economica – che sarà senza dubbio la più grave del dopoguerra e non durerà solo fino al 2010 come si sostiene – è il sintomo premonitore, l’introduzione. Si può essere sicuri che, in molti “luoghi” (ancora paesi, nazioni), la “democrazia” delle lobbies, delle estenuanti mediazioni, delle sfibranti contrattazioni, entrerà in crisi anch’essa, mostrando la sua incapacità di attenuare i disagi e sofferenze, che investiranno larghi strati della popolazione (non tutta, ovviamente) in seguito sia alla presente crisi economico-finanziaria sia, soprattutto, allo scontro multipolare in fase di acutizzazione malgrado le tante giravolte, “sorrisi” e riunioni dei “grandi” per cooperare e mettersi d’accordo. Detto scontro verrà progressivamente, in tempi medi o lunghi, allo scoperto, risalendo dalle “profondità” del sistema complessivo mondiale, quelle profondità ancora nascoste dai “sorrisi”, ecc.
Alcune “democrazie” – forse anche un certo numero – dovranno saltare, perfino qui in Europa. Del resto, se non saltassero, prepariamoci a vedere la nostra area costellata di “nazioni-cadavere”.
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Mi sembra impossibile che i popoli, per quanto attualmente intorpiditi da decenni di sostanziali “vacche grasse”, non dimostrino infine piena insofferenza di fronte all’inettitudine che adesso colpisce le “élites”, cioè le – paralizzantesi a vicenda – lobbies e massonerie (i “gruppi di pressione”), nelle loro contrattazioni sempre più ineffettuali e con perdite di tempo ormai esiziali. L’eventuale intelligenza di uno dei gruppi di pressione consisterà nel capire l’impossibilità di continuare nel tran-tran, nella mediazione che esaurisce ogni energia vitale, invece indispensabile per “sopravvivere” in condizioni di rapido peggioramento. Questa sedicente democrazia entrerà in crisi e si spappolerà: non dappertutto, in alcuni “luoghi”.
Non mi sento di fare il profeta indicando quali saranno questi “luoghi”, anche perché lo sprofondamento politico-istituzionale non è imminente, probabilmente trascende i tempi, ormai brevi, della mia vita individuale. Essendo “altruista”, spero comunque, per i più giovani, che una di queste crisi della “democrazia” avvenga in quel “luogo” chiamato Italia. Altrimenti, la nostra decadenza sarà veramente dura; e, pur quando si fosse usciti dalle sue spire più avvolgenti, essa continuerà e si trascinerà nell’incessante e insensata diatriba tra destra e sinistra, in scontri mai risolutivi tra alcuni ambienti governativi e l’apparato finanziario controllato da vertici subordinati agli Stati Uniti, in defatiganti equilibrismi tra i nostri più arretrati apparati industriali e quelli strategici d’avanguardia, ecc.
E’ soprattutto qui da noi che vanno recisi molti “nodi gordiani”. Non si può farlo con questa “democrazia” delle mediazioni estenuanti tra molte lobbies e massonerie. Diciamo che occorre un forte decisionismo. In ogni caso, per finirla con le contrattazioni “perditempo”, un “gruppo di pressione” dovrebbe rompere l’instabile equilibrio, facendo precipitare la situazione.
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L’Italia, tra tutti i paesi a capitalismo avanzato, è quello che ha relativamente più mentecatti ancora blateranti di rivoluzione proletaria o di idiozie del genere. Tuttavia, questi “infantili estremisti” non rappresentano, in sé, un grosso pericolo. Il fatto è che la rivoluzione cui pensano non è quella dei bolscevichi di un secolo fa, nella situazione della Russia di quei tempi e in piena epoca conflittuale policentrica. Il “comunismo” di questi ritardati è quello dei “piedi scalzi”, della frugalità, dell’anticonsumismo, ecc.; si tratta di frange marginali – ma non in miseria nera, se non mentale – che non sono quindi il vecchio sottoproletariato ottocentesco, ma ne possiedono lo sbriciolamento sragionante, la vocazione al caos e disordine, la protesta per la protesta, da essi confusa con la rivoluzione.
Una simile mentalità s’incontra, oggettivamente, con il cattolicesimo profuso dalla Chiesa che, in sé, è un’organizzazione anche politica di tutto rispetto e “raffinata”, ma insiste troppo spesso su un’ideologia miserabilista e caritatevole per ragioni di propaganda di massa. Si creano così frange di società, alcune perfino abbastanza agiate (comunque non miserabili), che coltivano il più bieco antimodernismo, si rifugiano nello spirituale, nella fuga (solo pensata mai praticata) dal “mondo”. All’interno di queste frange, ventre molle di una società in grave crisi, si formano facilmente squadre di violenti che possono essere conquistate, tramite ingannevoli promesse di riscatto, da lobbies o gruppi di pressione tra i più arretrati e che, dunque, si sentono in procinto di essere sbaraccati e messi fuori dell’orbita del potere. Spero non ci sia bisogno di molte parole per capirci a volo su quali prospettive potrebbero aprirsi, se precipitassero processi del genere in un paese così fragile, e con una classe dirigente politica così squalificata, come l’Italia.
Mi sembra esserci ancora un po’ di tempo per correre ai ripari. Ecco perché, malgrado non sia affatto un fondamentalista del progresso, preferisco propagandare questo piuttosto che la cupa e reazionaria ideologia dell’antimodernismo e del ritorno ad un mondo tradizionale, che oggi si presenta egemonizzato in senso religioso, ma con quelle già ricordate frange di scervellati e truci personaggi, semplicemente vogliosi di menare le mani, fingendo di rivivere la rivoluzione proletaria, la lotta antifascista, e altre “recitate” drammaturgie di un passato ormai tramontato da moltissimi de-
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cenni. Bisogna tornare a diffondere il gusto della ragione, dell’analisi delle congiunture e fasi, della configurazione che va assumendo sia la formazione mondiale, sia ognuna delle formazioni particolari al suo interno (con speciale riferimento a quella in cui viviamo e operiamo), nel periodo della crisi come “prima onda” di un’assai probabile epoca di “grande trasformazione”.
Pensiamoci attentamente, smettendola con stupide adorazioni di ordinamenti puramente formali come la nostra Costituzione, atteggiamento che diffonde l’inganno della “democrazia” e della sua difesa: magari tramite le “lotte del lavoro”. Non ci si salva con queste ideologie d’accatto. Si deve prendere atto della sostanza della “democrazia” elettorale, del suo essere uno strumento in accordo con i tempi soltanto in periodi di sostanziale sviluppo e in presenza di un centro regolatore dello stesso a livello mondiale (o comunque in una parte decisiva del mondo). Tale strumento esige la mediazione continua tra le lobbies, ecc. che è spesso un vero e proprio “lavoro di Sisifo” (o, se piace di più, una “tela di Penelope”). Queste lobbies non sono soltanto quelle capitalistiche, se per queste s’intendono semplicemente i “proprietari dei mezzi di produzione”. Basta con simili semplificate minchionerie. I gruppi politico-sindacali, che dirigono mediante propaganda e votazioni le “masse lavoratrici”, sono parte integrante delle massonerie e gruppi di pressione in questione. Anzi, oggi, essi sono proprio tra le forze più reazionarie, quelle che, sotterraneamente movendo anche i fili cui si collegano i gruppi di violenti sopra accennati, potrebbero determinare svolte disastrose e letali per il nostro paese.
C’è tutto un mondo da ripensare, ci sono nuove prospettive mai prima presentatesi. Tuttavia, spesso è la forma di manifestazione ad essere “sorprendente”; sotto sotto, si muovono alcune “costanti” storiche che, se colte nel loro aspetto sostanziale, possono essere d’aiuto per un migliore orientamento nella congiuntura attuale. Non dimentichiamo le differenze; ma non pensiamo sempre di essere in presenza di una “struttura” di eventi completamente nuova. S’inizi infine ad approfondire tali problematiche, abbandonando il vuoto formalismo, il culto delle “istituzioni democratiche”. Altrimenti, certi pericoli si ripresenteranno.
C.V.D. Tre “piccoli” fatti a dimostrazione di quanto sopra esposto e mostrato.
Oggi i giornali parlano di pace scoppiata o, più modestamente, di prove d’accordo tra Draghi e Tremonti, dopo la tensione nata dalla proposta del secondo di un controllo prefettizio sulle banche, sostituendo l’autorità dello Stato a quella di un Istituto Centrale fortemente caratterizzato, da lungo tempo, dalla dipendenza rispetto alla strategia politico-finanziaria statunitense. Per siglare la pace – quanto duratura? – nulla di meglio, per i due, che trovarsi d’accordo sugli attuali “saldi” rapporti tra Usa ed Europa, cioè sulla continuazione della sudditanza della seconda alla prima. Così Tremonti tornerà alle sue prediche sull’etica negli affari, caduta d’intelligenza di un uomo che sembrava, in un primo tempo, essere nettamente al di sopra dei suoi immediati predecessori (Governo Prodi: tuttavia il peggio che si sia mai manifestato nella storia del nostro paese).
Franceschini, andato a Cernobbio dove si svolge il forum annuale di Confcommercio, ha di-smesso le sue proposte di assegni ai disoccupati e di nuove imposte (che avrebbero toccato lo 0,45% dei contribuenti italiani) e – fra gli applausi, figuriamoci quanto disinteressati, degli astanti – ha ammesso perfino l’esistenza di un’evasione fiscale accettabile, comprensibile, al limite giustificabile. Da autentico ragazzetto frequentatore di Parrocchie – che so: forse quella di Zagarolo o di Trebaseleghe (o magari di Ramengo) – ha distinto tra colui che evade per comprarsi “la seconda barca” (forse non voleva suscitare l’ira di D’Alema accennando alla “prima”), individuo esecrabile e condannabile, e colui che compie lo stesso atto “per comprare i libri ai figli”, ottimo “padre di famiglia”. Questi sono i nostri politici: esseri di cui è difficile intuire la presenza di un cervello, nonché caratterizzati di una meschinità e banalità che non so dove altro si potrebbero scovare al di fuori
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di quell’ambito. Da rimanere di stucco, quasi ammirati per il record, sia pure negativo, stabilito; ma che, se ne può essere certi, verrà presto battuto dallo stesso o da qualche “abile” sostituto.
Nasce il Pdl ed è difficile capire su quale base venga costituito; rimangono nella sostanza le due “anime” componenti, FI e AN, per di più in lite fra loro, con continuo lancio reciproco di strali, mentre Fini non cessa un minuto di mettersi sistematicamente di traverso a qualunque proposta di Berlusconi. Il quale ha poi l’opposizione della Lega nei confronti di misure, che minimamente abbiano un qualche senso di non mero, e demenziale, malumore “nordista”, ormai vicino a provocare la disintegrazione del paese. Pur di ottenere il federalismo fiscale – del cui costo nessuno sa dare ancora una qualsiasi cifra! – la Lega è disposta ad intrallazzi con il Pd su tutto ciò che può sfasciare lo Stato o almeno i conti pubblici. Quanto ad eliminare finalmente alcuni dei carrozzoni inutili, tipo Province, nemmeno parlarne; semmai, anzi, aspra lite con FI per quella di Brescia, ecc. Si arrivi a capire presto come con questa destra e con questa sinistra – per favore, nulla a che vedere con il pur non invidiabile bipolarismo “all’anglossassone”, trattandosi soltanto del solito “casino all’italiana” – non si possa andare da nessuna parte.
Siamo purtroppo preda, dopo quindici anni, della solita malattia di cui è portatrice (non sana) la sinistra: l’antiberlusconismo. Ad esso si contrappone, in modo speculare, il tifo (perché altro non è) dei fan del premier. Quest’ultimo è stupidamente accusato di fascismo (dopo quindici anni che ancora non riesce a prendere tutto il potere!). Personalmente, sono invece contro quest’uomo perché lo ritengo un nuovo “italo Amleto”: incerto, incapace di decidere e di denunciare la gravità della situazione; che è oggettiva, ma ulteriormente peggiorata dall’incapacità di tranciare con tante mediazioni, veti, liti e ricomposizioni fittizie, allo scopo di decidere e di saper “allineare” le “forze essenziali” a queste decisioni. Le altre forze, programmaticamente solo dedite allo sfascio, a cuccia: con le buone o con le cattive. Non c’è nessuno minimamente attrezzato a questo discorso e a questa iniziativa decisionista, né a destra né a sinistra. E allora, stiamo andando allegramente in malora!
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