DESTRA E SINISTRA NELLA STORIA DEL CAPITALE FINANZIARIO ITALIANO; SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE
L’esplosione della “crisi finanziaria” riporta a galla vecchi ricordi mai sopiti dalla memoria collettiva che, come incubi ritornano per far rivivere il lontano ’29; quel passaggio d’epoca fu segnato fin dall’inizio, da travagliati cambiamenti di regimi (dittature), che non potevano non finire se non con una sanguinosa grande guerra mondiale, suggellata a sua volta da un lungo periodo di pace (forse il più lungo) durato circa 50 anni, fino alla caduta del muro di Berlino; un cambiamento che ha rappresentato il paradigma di un nuovo mondo che avanzava, e che metteva in discussione un equilibrio raggiunto (’89) dalle due superpotenze (Usa-Urss) e le cui forze in campo si confrontavano già dall’accordo di Yalta, nell’immediato dopoguerra, insieme agli altri stati vittoriosi nel conflitto. La rottura di tale equilibrio rappresentò il “vaso di Pandora” nella liberazione improvvisa di eventi destinati a rimettere in discussione tutta la geografia politica del mondo fino allora conosciuto; l’avanzarsi anzitutto, in modo minaccioso di un più accentuato monocentrismo Usa che allargava le sue sfere d’influenza nei paesi appartenenti alla parte avversa, tra rovesciamenti di governi parlamentari, o in improvvide guerre neocoloniali (vedi Irak, Afganistan..). Del resto, non si può non osservare come questa lunga storia del capitalismo (di circa due secoli) sia ormai costellata da guerre (troppe), in parallelo talvolta, a grandi dissesti finanziari accompagnati da profonde anarchie di mercato, i cui interventi di contenimento messi in opera dai vari organismi internazionali (Fed, Bce, Fmi..) hanno rappresentato palliativi similari a risibili ‘pannicelli’, al solo scopo di ridurre o alleviare, gli effetti dei febbroni finanziari esplosi tutti insieme e con virulenza.
Facendo un minimo di riflessione sulle lunghe sedimentazioni ideologiche, ormai prodottasi nelle tante varianti, che vanno dal (neo)marxismo, al (neo)liberismo, all’ecologismo, tutti con accenti diversi, hanno affrontato il tema delle crisi del capitalismo, dal lato dello Stato come regolatore o salvatore dell’economia. Si può suggerire, sommessamente, che il “disordine” del capitalismo è una regola che dovrebbe essere studiata (in modo scientifico) come qualsiasi oggetto sociale, di cui non si conosce minimamente la causa, oltre che ovviamente, i suoi effetti. Intanto modestamente, non essendo scienziati (del sociale), anche se nel nostro bagaglio culturale sopravvive qualche ambizione simile allo spirito scientifico di Marx, possiamo constatare con un certo sconforto, che le “crisi o recessioni economiche,” così chiamate nella loro accezione, si (ri)presentano frequentemente, in determinati periodi ( si dice “ alla fine di un ciclo” ), senza che si sia in grado di fiutarne minimamente la presenza, ne tantomeno essere in grado di suggerire alcun intervento “risanatore” che non sia aria fritta.
Senza riandare alla storia dei “Capitalismi,” nei loro cambiamenti succedutisi negli ultimi due secoli, dal Capitalismo Borghese (Ottocentesco) al Capitalismo Manageriale (Novecentesco),” vorrei intanto fissare l’attenzione sul Capitalismo italiano, dall’Unità d’Italia agli anni ‘29-32, del secolo scorso, nel suo aspetto più vistoso delle “Crisi.” Con una necessaria premessa però, di poterne cogliere soltanto gli elementi più generali, che possono approssimarsi ad un suo più pregnante significato se: il passato può servire il presente, come chiave interpretativa di un futuro prossimo a venire; parafrasando, si può riassumere in “tutto torna ma diverso,” in una sorta di immagine speculare al tempo di oggi. Così come può risultare altrettanto corrispondente, la ricostruzione storica del capitalismo italiano a ridosso della grande “Crisi del ’29” di Pietro Grifone nel suo libro “Il Capitale Finanziario in Italia” del 1940;” una ricostruzione fatta da un “osservatore privilegiato” di quegli avvenimenti, presso “L’Ufficio Studi dell’Associazione fra le Società per Azioni,” quale embrione in costruzione del primo “IRI,” prima di essere arrestato per la sua militanza antifascista degli anni ’30.
Mi limito succintamente, a ricostruire quegli avvenimenti, sul filo della storia di quella lunga esperienza politica italiana. Alcune riflessioni e considerazioni possono essere poste, in un raffronto schematico con la realtà di oggi; intanto, nel modo di gestire l’economia che sottintendeva una prassi consolidata, nel cosiddetto intervento dello Stato nell’economia, attraverso una tipologia, che risaliva già dall’Unità d’Italia del secolo precedente. Un Capitalismo quello italiano caratterizzato fin dall’inizio della sua costituzione unitaria (1871), da una mancata “Accumulazione Originaria” di capitali e da una debolezza organica, in assenza di grande mercato, che impediva un adeguamento economico concorrenziale alle altre potenze capitalistiche europee. Per far partire una giovane nazione, quella italiana, priva di forti nuclei di capitalisti in grado di fare i primi investimenti e di costituire i grandi nuclei industriali, occorreva una solida finanza: lo Stato si assunse fin dall’inizio “l’onere delle prime attrezzature.” E questo intervento fu segnato dalla prima accoppiata ideologica della storia d’Italia del “Privato-Pubblico”, espresso nel dualismo politico della Destra-Sinistra: un modo riservato alle frazioni dei gruppi dominanti, di “mutar spalla al fucile” (Gramsci) attraverso l’uso (politico) dello Stato; Destra e Sinistra, ponevano le maggiori garanzie all’efficacia delle strategie dei gruppi dominanti in una fluidità politica a vasi comunicanti, in intercambiabilità e permeabilità dello Stato nell’economia.
Non è un caso che il primo grande intervento statalista si è compiuto sotto la gestione di governo della Destra, “nel controllo di Bilancio dello Stato al suo pareggio,” quasi a contemperare, in garanzia di una sponda politica di rigore, gli sforzi statalistici che si andavano realizzando e nel far si che nulla andasse disperso. Insieme alla nascente moderna borghesia vennero create le prime grandi banche e infrastrutture (Banca Nazionale, Credito Mobiliare, Ferrovie Meridionali) con i primi scontenti, tra una parte dei grandi capitalisti borghesi (Sella, Lanza) in ascesa, che volevano non solo partecipare al lauto banchetto del finanziamento pubblico, ma allargarsi oltre confine, in concorrenza al capitalismo europeo. Questo fu uno dei motivi per cui dopo aver raggiunto il pareggio di Bilancio dello Stato, i panni della Destra risultavano troppo stretti per la parte di frazione capitalistica che intendeva svolgere un ruolo strategico oltreconfine, per le proprie imprese competitive: occorreva un governo più duttile più prono e più rispondente alle nuove esigenze politiche. L’avvento della Sinistra (con il trasformismo di Depretis) segnò l’era della grande Spesa Pubblica gestita fin dall’inizio dai maggiori gruppi finanziari italiani, coadiuvati dal capitale straniero, dalla Banca Francese, (Pereire, Rotschild) <1887-94>, alla Banca Tedesca <1894-1914.> La Sinistra si caratterizzò “ da una spensierata imprevidenza che è tipica dei famelici … e ingenera nel periodo 1876-87, un’ondata di ottimismo e di fittizio rigoglio. Euforia gravida di prossime disastrose conseguenze.” L’abolizione del “corso forzoso” dell’oro (1883) alimentò la “finanza allegra;” consistenti emissioni di carta crearono inflazione monetaria-creditizia, accentuando una euforia generale, con una corsa di investimenti speculativi, denaro facile. “le banche si riempiono di titoli, si immobilizzano, investendo i depositi a breve in impieghi a lunga scadenza (costruzioni edilizie, credito fondiario, titoli industriali..)…la corsa agli investimenti accentua la competizione per l’accaparramento dei risparmi e ciò logora la capacità di resistenza delle banche.”
La comparsa inoltre nell’agone della concorrenza internazionale della Germania industriale, sconvolse i mercati internazionali, mettendo fortemente in crisi la nascente industria italiana che corse al riparo con forti misure protezionistiche nei confronti dei partner più competitivi, i francesi (1887); ciò aggravò ulteriormente la crisi dell’industria italiana, nella rottura commerciale con la Francia, che si trovò privata improvvisamente dei finanziamenti concessi dalle banche francesi. La crisi post-unitaria (1893-94) toccò il punto più basso del disastro finanziario delle due più grandi banche italiane, il Credito Mobiliare, e la chiusura della Banca Generale. Iniziò un lungo periodo di assestamento (Crispi) e di riorganizzazione bancaria, dapprima con la nascita della Banca d’Italia (1899) ed a seguire la Banca Commerciale (con capitale di costituzione, al 90%, austro-tedesco) e il Credito italiano. Una crescita del Capitale finanziario italiano a forte dipendenza da quello tedesco che infeudò, la siderurgia, il tessile, l’elettrico, e nonostante le avventure coloniali (Adua) ed i conflitti sociali operai-contadini, si avviò una ripresa dell’economia nel risanamento di bilancio con il governo della Destra fino al 1901.
La frazione capitalistica dei sub-dominanti italiani (a quelli tedeschi), guidò la ripresa dell’economia che si andava profilando nell’intera area Occidentale, garantendo nel contempo concessioni salariali alle rivendicazioni sociali (operaie e contadine), e vari altri diritti. In questo nuovo clima politico creato dal governo della Spesa Pubblica della Sinistra si rinnovò un rigoglio di vecchi mali in un carattere artificioso, che non tarderà a ripresentarsi qualora la congiuntura mondiale subisse una inversione di tendenza. La Banca Commerciale-Comit (in dipendenza del Capitale Finanziario tedesco) assurse al ruolo di protagonista dello sviluppo economico italiano di quel periodo, insieme alla nascita della prima grande struttura industriale italiana (Comit-Terni), non sempre all’altezza della situazione, con i primi grandi scandali (scarsa qualità dei prodotti) estesi alle grandi società di Navigazioni che prosperarono molto sulla grande emigrazione italiana oltre atlantico; tutto questo non impedì un clima di euforia generato da denaro facile derivato dai grandi finanziamenti pubblici, che ridettero vigore alla speculazione dei titoli (un dejà vù) con gli inevitabili crolli generali della borsa (1905). Alla fine del 1907, scoppiò una grave crisi, con epicentro in Usa, che si abbatté pesantemente sull’economia italiana in ascesa, e trasformandola in forte depressione economica, che durerà fino alla prima guerra mondiale (1914-18).
Le basi del compromesso del riformismo giolittiano (1900) realizzato con i socialisti e i radicali, a favore dei ceti sociali più deboli (operai-contadini), cominciarono a scricchiolare, ed alla borghesia industriale insieme all’alta finanza non rimase che cambiare il sistema di alleanze di governo (scaricare i socialisti ed imbarcare i cattolici-nazionalisti) per affrontare un nuovo corso storico, di imprese coloniali (Libia-1911) e di nuovi e più forti contrasti sociali (“settimana rossa” del 1914). Al momento dello scoppio della prima grande guerra, l’economia italiana era ancora in una fase di grande depressione; i nuclei finanziari e l’industria pesante vedevano nella guerra, l’opportunità di fare ottimi affari e per liberarsi definitivamente dalla tutela straniera (italianizzazione della Comit), in modo da proporsi a guerra finita, come potenza egemone nell’Europa danubiano-balcanica ( pietosa illusione). I settori della grande finanza guidarono quelli industriali ad entrare in guerra, aiutati dai settori popolari dei nazionalisti, socialisti-radicali che vennero uniti sotto l’insegna di “una guerra popolare antiplutocratica. ” Una “strana accozzaglia” (alta finanza-industria con ceti popolari), costretta a collaborare entro un’economia di guerra, che fu in grado comunque di realizzare nuove grandi concentrazioni industriali (esclusivamente nel Nord, con accordi capestro sindacal-operai per una maggiore estensione dell’orario di lavoro). Lo Stato divenne così la cornice, entro cui garantire un grande sistema industriale poco competitivo e succube di più forti intereressi finanziari. “La guerra, (e la frazione capitalistica dominante; nota mia) attribuì funzioni economiche nuove allo Stato, in quanto lo indusse ad operare, alla stregua di una pompa che, aspirando coi redditi individuali, sotto le più diverse forme, ricchezze ingenti, le riversava nel mondo anonimo dell’alta banca e della grande industria” (Rodolfo Morandi, “Storia della grande industria in Italia”).
L’artificiosa concentrazione industriale insieme all’euforia inflazionistica, durante tutto il periodo della guerra, continuò dopo di essa. I grandi trust industriali, pilotati dal Capitale Finanziario bancario, annacquarono il loro patrimonio moltiplicando le società e le partecipazioni azionarie, per far fronte al rialzo dei prezzi internazionali delle materie prime (1920); tutte le riserve liquide dei colossi industriali vennero impegnate in manovre speculative di borsa, anziché nel’investimento del processo produttivo. Al centro di tutto questo, campeggiarono gli interessi delle due più grandi banche Comit e Sconto; la Comit (Commerciale), sullo sfondo di interessi della finanza tedesca, aveva il controllo sulla Fiat, Ilva (siderurgia), Cantieri Navali..; lo Sconto, banca con interessi prevalentemente nazionali ( con l’aiuto finanziario dello Stato italiano), controllava l’Ansaldo (siderurgia) della famiglia Perrone. La grande prima crisi mondiale del 1921-22 con il crollo dei prezzi dei beni e dei titoli, produsse una situazione di illiquidità con il fallimento improvviso dell’Ilva, senza trascinare con sé alcuna banca (la Comit aveva opportunamente diversificato il proprio patrimonio con altri titoli esteri); al contrario, la caduta dell’Ansaldo trascinò lo Sconto (e altre banche ad essa collegata) avendo nel proprio patrimonio una prevalenza di azioni industriali della propria controllata (Ansaldo). Questi primi grandi fallimenti rappresentarono il culmine della crisi del ’21, nei tentativi delle altre banche di venire in soccorso, poi risolto con l’intervento dello Stato che creò un “Consorzio Sovvenzioni” per concedere anticipazioni alle banche in crisi e con una conseguente crescita esponenziale del suo deficit.
I governi dell’economista Nitti (1919) e poi di Giolitti assolsero questo compito storico del risanamento, non prima di aver compresso i salari, abolito il prezzo politico sul pane, l’abolizione di tutte le imposte straordinarie sui sovraprofitti di guerra,.., in pratica l’ammontare delle entrate fiscali che potevano garantire l’assistenza sociale. Ma il superamento della crisi del dopoguerra non poté realizzarsi entro gli schemi tradizionali, occorreva un mutamento profondo istituzionale, un cambiamento di regime politico. La grande borghesia intravide nel cambiamento di una congiuntura internazionale (superamento della crisi’ 21), un avvio di relativa stabilizzazione, da realizzarsi solo con la maniera forte, il fascismo.
La crisi che maturò nel ’29 si abbatté con forza sull’ economia italiana ( meno comunque degli altri paesi europei più industrializzati) che si trasformò di lì a breve in una difesa estrema nei settori industriali con l’IRI, uno scudo posto a difesa del mercato interno. Lo Stato divenne a quel punto, il supremo regolatore dell’attività produttiva nazionale, con una differenza sostanziale, rispetto ai periodi storici precedenti: accentrò un nuovo indirizzo di Spesa pubblica, di concerto con gli agenti strategici della frazione capitalistica dominante, nella loro maggiore espressione politica del Fascismo; la Spesa pubblica assunse una funzione di selezione primaria, nella formazione di un sistema industriale in grado di reggere la competizione internazionale, oltre alla possibilità, non tanto remota di una guerra. Tutto questo contribuì ad un rovesciamento delle funzioni del Capitale Finanziario, da posizioni accentratrici e coordinatrici a sistema gregario e di supporto al Capitalismo Industriale. Un siffatto ribaltamento di ruolo e funzioni del finanziario nei confronti dell’industriale, non scalfì minimamente l’interpretazione più ricorrente nel campo marxista, l’idea cioè del Fascismo come “Dittatura del Capitalismo Finanziario;” quest’ultima espressione diventò una vera scuola di pensiero nelle pratiche politiche di tutti i movimenti comunisti di quel periodo, e in osservanza al marxista Hilferding, nel suo “Capitalismo Finanziario” che, poteva grossolanamente così essere riassunto: nella fase massima “di espansione del monopolio (finanziario), si poteva profilare una occasione storica di Socialismo, tramite una “Socializzazione Finanziaria” (vedi repubblica di Weimar).
L’unico gruppo politico italiano di quel periodo con la visione politica di una sostanziale autonomia nazionale del sistema industriale italiano (di dimensioni ancora non competitive rispetto al resto dell’Europa, soltanto 3,5 milioni di operai, circa un terzo della restante popolazione attiva prevalentemente agricola) fu il Partito Comunista Italiano (nato nel 1921, a seguito della scissione del Partito Socialista). Così, come si evince nelle tesi del “III Congresso di Lione (21-26 gennaio, 1926), redatte da Gramsci-Togliatti, in posizioni nettamente alternative alle classi dirigenti alternatesi (destra-sinistra) nella storia d’Italia, del prima e del dopo l’avvento del fascismo. Una conferma di ciò la troviamo nel ruolo svolto dalle frazioni capitalistiche dominanti sopravvissute al fascismo insieme ad una burocrazia statale efficiente; una combinazione storica ottimale in grado di cogliere il boom economico (primi anni Sessanta), con i governi democristiani e con il tacito assenso del Pci (soltanto una ricerca storica indipendente potrebbe risolvere questi interrogativi); l’unica certezza fu comunque il delinearsi di un forte sviluppo economico ( unico in tutta la Storia d’Italia con tassi al 6-8%) con il concorso di una imprenditoria privata e concorrenziale e di una struttura industriale pubblica sotto il controllo delle società Finanziarie dell’ Iri: una autonomia industriale-finanziaria che si allungò temporalmente fino alle morti di Togliatti e Mattei(1963-4) .
L’idea che il finanziario possa controllare tutta l’economia è dura a morire ed ha riguardato non solo la storia d’Italia fino ai giorni nostri, ma anche e più in generale, le pratiche politiche (neoliberismo-neokeynesismo) di tutti i governi (occidentali) dell’ultimo secolo. Il capitalismo Manageriale Usa ha accelerato ed ingrandito enormemente l’aspetto finanziario, già presente nel Capitalismo Borghese, con le società per azioni, vere scatole cinesi, con traslazione dei rischi (da società madre a società figlia) su costruzioni patrimoniali fasulle, veri e propri castelli di carta. Da quest’ultimi sono andate viepiù crescendo, le “autocrazie” dei managers, con le scandalose provvigioni autoelargite insieme alle liquidazioni, pur in presenza dei fallimenti societari, hanno rappresentato la corrosione dell’intero sistema d’impresa, a tutto scapito degli azionisti-risparmiatori e del proprietario-azionista, configurato e protetto giuridicamente nel suo assetto patrimoniale di riferimento. Così come, le” public company ”(azionariato popolare) dirette dai managers, in sostituzione di una proprietà azionaria estremamente frazionata, hanno determinato vantaggi per l’insieme dell’impresa, senza l’assillo del raggiungimento di un profitto nel breve periodo e realizzando con ciò, e con maggior efficacia, il raggiungimento degli obbiettivi da perseguire; altre volte, al contrario, il management offre solo svantaggi per la parte dei proprietari azionisti nei cui confronti non ci si preoccupa di distribuirne i dividendi. Questa è una delle ragioni per cui si ritorna, talvolta, alla funzione primaria del proprietario-azionista, come processo elitario di selezione del management; oltre a “rappresentare retrospettivamente il materiale empirico: il fatto grezzo del comprendere, ove si possa collocare sistematicamente il management con la totalità dell’oggetto del contendere. Inoltre, la proprietà (societaria) travalica il suo aspetto puramente ideologico, e diventa un veicolo di collegamento con l’altro, altrettanto ideologico dello Stato; una accoppiata del pubblico-privato, come la recente proposta di intervento dello Stato nelle banche di Bini Sinaghi sul “Corriere della Sera del 3/10/08 (membro esecutivo della Bce): far diventare lo Stato azionista delle banche, e rimuovere in tal modo i managers ed il consiglio di amministrazione; similmente a quanto avvenuto nelle banche Usa.
Le crisi finanziarie, che si ripresentano da circa 150 anni nello stesso identico modo, nei suoi aspetti più appariscenti come “crisi di liquidità,” vengono sempre affrontate con una terapia simile, a quello che in medicina, viene denominato ‘effetto placebo.’ La crisi di liquidità viene curata con altrettanta liquidità immessa nei mercati dalle banche centrali, europee (Bce) e Usa (Fed): i 1300 miliardi di dollari da immettere nei mercati monetari dal governo Bush (e della Bce), rappresentano soltanto piccole gocce in un mare finanziario circolante nel mondo per quantità pari a centinaia di ‘trilioni’ di dollari (un numero con diciotto zeri). I numerosi interventi ‘istituzionali’, nelle variazioni dei tassi di interessi della Banca Centrale, nel controllo delle banche (Nazionalizzazione),.. rappresentano un insieme di politiche statalistiche, sempre in coazione a ripetere, di irrogazione di Spesa Pubblica corrispondente ad un maggior sostegno di “Domanda Effettiva” composta da beni di consumo e da investimenti (interventi neokeneysiani), ormai ridotta a fumesterie ideologiche, praticate in qualche circolo intellettuale del dopolavoro-universitario. La realtà ha superato ogni fantasia: la crisi finanziaria creatasi è peggio del ’29, si tratterà solo di vedere se la sua incidenza sull’economia reale avrà un impatto maggiore. Un sistema siffatto, raffazzonato, messo in piedi alla buona dai governi europei con accordi basati soltanto su aspetti monetari, non può garantire alcunché; potrebbe al contrario avere una maggiore incidenza sull’economia, una abolizione immediata dei trattati di “Maastricht,” come viene suggerito da più parti, per un conseguente ritorno alla difesa degli interessi nazionali: un valore aggiunto nazionale, per uscire dalla crisi e creare quelle condizioni per cui “i gruppi di agenti dominanti della sfera politica fanno rientrare la finanza nel suo alveo normale,” altrimenti è guerra aperta con tutti i mezzi, e non soltanto con quelli finanziari; a questo proposito, si ricorda che nel New Deal, del dopo ‘29, le crisi si avvicendarono a ripetizione e che soltanto un guerra (mondiale) poté interrompere e far ripartire subito dopo, l’economia sotto il tallone Usa. Un modo quest’ultimo, ben lontano dalla sviluppo (economico) che può nascere come impulso dalla “distruzione creatrice” di schumpeteriana memoria.
Lo Stato può intervenire in modo incisivo soltanto se aiuta le imprese competitive, altrimenti il grande spreco di Spesa pubblica ha un’unica grande finalità: continuare a gestire l’esistente, composto cioè di ceti produttivi parassitari industriali-finanziari e riassunto dal nostro blog in Grande-Finanza-Industria-Decotta-Assistita; ciò a dimostrazione, nel “tutto torna ma diverso,” di una lunga linea storica come caratteristica peculiare del capitalismo italiano, interrotta soltanto dal fascismo. Un ulteriore riflessione potrebbe venire avanti da questa esperienza tutta italiana; per interrompere questi processi, considerati come fenomeni naturali quasi inevitabili, occorrerebbe una politica forte, con ben altri governi degli attuali destra-sinistra, a difesa di una nuova realtà economica-sociale, rivolta in particolare, alla prevalenza dell’industriale rispetto al finanziario; in caso contrario, una dolorosa storia di popolo ci attende, tutta ancora da percorrere.
G.D. OTTOBRE ‘08