Destra, sinistra, comunismo, comunitarismo, questione nazionale di Gennaro Scala

Prendo spunto da una discussione di qualche mese fa fra Costanzo Preve e Domenico Losurdo per alcune riflessioni sulle categorie in oggetto, pubblicata sui rispettivi siti. Partendo dalla distinzione destra/sinistra, per quanto Preve sia molto più fecondo e critico, perché più problematico e privo delle “granitiche” certezze di Losurdo (assolutamente ingiustificate dopo la deriva ignominiosa della sinistra) è singolare che entrambi i due, noti studiosi del pensiero di Marx, non utilizzino gli strumenti teorici messi a punto da quest'ultimo.
Quali gruppi sociali e quali interessi economico-politici rappresentano rispettivamente la destra e la sinistra? Tale approccio non è sufficiente se non integrato con l'analisi dei rapporti geopolitici, ma sicuramente è molto più utile rispetto allo stabilire la permanenza e l'effettualità di tale distinzione sulla base della vicinanza o meno a determinati valori. Non esistono tavole categoriali, si direbbero eterne, quali quelle che ci vorrebbe ammannire Losurdo, che ci consentano con facilità di venire a capo di tali questioni, ma sempre soltanto “l'analisi concreta della situazione concreta”. Ma bisogna prendere Losurdo e altri marxisti accademici per quello che sono, “professori” da cui si possono imparare delle cose riguardo a Hegel, Kant, Marx ecc. che possono tornare utili. Purtroppo Losurdo non si limita a “fare il professore”, ma vorrebbe essere un teorico degli odierni “comunisti”, ma è in realtà il cultore un'ideologia morta che funziona da strumento di conservazione. La “citatologia” (ottima definizione di Preve) è a tal fine proprio lo strumento adatto per uccidere ogni creatività teorica. Secondo la mentalità accademica lo “studioso” ci deve mettere il meno possibile del suo, e far emergere tutto dalle citazioni. Ben si vede come nei media c'è chi sa fare il suo mestiere. Non è strano che Losurdo, il “comunistone” Losurdo, perfino stalinista, fu invitato ad alcune conferenze filosofiche della Rai. Il “comunismo” di Losurdo è stato da supporto ideologico a certe aree di Rifondazione (nonostante sia sempre stato critico e distante), partito che ha giocato da puntello al sistema della cosiddetta “seconda repubblica” e che è servito ad indirizzare su un binario morto energie che avrebbero potuto essere utilizzate più proficuamente. Anche se Losurdo ha preso delle posizioni “controcorrente” riguardo alla Cina, o alla rivoluzione colorata in Iran si è trattato di posizioni puramente ideologiche che intendevano dare una plausibilità alle sue posizioni, ma la loro incosistenza è dimostrata dal suo silenzio quando analoga rivoluzione colorata si è tentata in Italia. Fin quando si tratta di eventi lontani nel tempo e nello spazio (la Cina, l'Iran, l'Unione Sovietica) è possibile fingere di essere comunisti, solo silenzio quando invece si tratta di prendere delle posizioni effettive riguardanti il contesto politico italiano, anzi si possono fare i convegni con i “comunisti italiani” appena dopo questi erano scesi in piazza per la “rivoluzione colorata” di marca italica. Ma non vale la pena di perdere ancora tempo con costoro, il barcone si è completamente sfasciato e stanno tutti colando a picco. Quelli come Losurdo coleranno a picco “tutti di un pezzo”.
Cosa rappresentano in Italia la destra e la sinistra? Abbozzo una risposta molto generica, una risposta più esauriente necessiterebbe di altro spazio e diverso approfondimento, solo per affermare il principio che per un minimo di chiarezza su tale questione è prioritaria l'analisi di carattere strutturale, piuttosto che l'analisi basata su categorie di carattere ideologico o filosofico. La sinistra, in particolare le varie derivazioni del Pci, è diventata dopo il semi colpo di stato di mani pulite uno strumento di quella che La Grassa chiama la Grande Finanza e l'Industria Decotta (GF-ID), perdendo progressivamente ogni rapporto con le classi popolari e conservando più che una base sociale dei bacini elettorali nel pubblico impiego. È questa la causa del suo irreversibile declino. La destra rappresenta invece determinati interessi, seppure mediati con il sistema di potere economico e finanziario italiano e internazionale, cioè quelli della piccola e media industria, che costituisce l'ossatura fondamentale dell'economia italiana. Ecco perché gli Stati Uniti preferiscono la sinistra, non rappresentando nessun settore sociale è molto più docile e malleabile. È stata principalmente la sinistra a svendersi il patrimonio nazionale. Al di là dell'apparenza di un maggiore allineamento ideologico la destra in realtà, proprio perché intendeva difendere degli interessi, ha rappresentato per le manovre statunitensi un ostacolo.
Per quanto sinistra e movimento operaio si siano intrecciate fino a confondersi è un errore identificarli. Sinistra e movimento operaio e comunista sono sempre state due cose diverse. Il movimento comunista, per quanto abbia naturalmente spesso avuto rapporti con la sinistra, è stato sempre radicalmente diverso sia dalla sinistra che dalla destra in quanto entrambi schieramenti borghesi. Per questo non condivido Preve, quando afferma che una volta tale distinzione era valida ma ora non lo è più. La distinzione c'è, ma destra e sinistra sono quello che sono sempre state, dalla loro nascita, diversi raggruppamenti delle classi dominanti, i quali possono dar vita a loro volta a sottoraggruppamenti trasversali ecc. I comunisti del secolo scorso nel corso della loro storia, giunta ormai a definitiva conclusione, hanno sempre avuto degli atteggiamenti differenziati, generalmente hanno appoggiato la sinistra, ma, fin quando hanno voluto il “superamento della società borghese”, non si sono mai identificati con essa. Il movimento operaio cercava di attirare la “coscienza infelice” borghese insoddisfatta delle ipocrisie della società borghese. Le forze politiche della borghesia hanno cercato di subordinare, corrompere, inglobare partiti ed esponenti politici del movimenti operaio nelle loro manovre. Quando i partiti del movimento operaio e sinistra sono giunti a confondersi è stata la catastrofe per i primi. Dalla rottura con le socialdemocrazie che avevano votato “i crediti di guerra” nacquero i partiti comunisti leninisti del Novecento. Comunque, se con la sinistra c'è stato sempre un rapporto più stretto, i comunisti non sempre hanno appoggiato la sinistra, è lo stesso Losurdo a ricordare, senza rilevare la contraddizione con la sua argomentazione, come Marx appoggiò il movimento indipendentista irlandese nonostante fosse guidato dalla Chiesa, la quale non è mai stata di sinistra, che io sappia. Per Lenin, “l'emiro afghano”, nella misura in cui si batteva contro il dominio inglese, svolgeva, nel contesto dei rapporti internazionali, una funzione progressiva, nonostante fosse l'espressione di forze retrograde. Quindi in passato i comunisti non sono sempre stati a favore della sinistra, ma talvolta hanno appoggiato la destra.
Destra e sinistra vanno giudicate dal punto di vista dei movimenti storici reali e non dei “valori” che dicono di professare (e che poi costantemente sconfessano nella pratica). La sconfitta del comunismo ha portato all'abbandono anche di quelle vere e proprie conquiste del metodo marxiano di analisi della realtà sociale. La conseguenza è stata una regressione ad un moralismo, che niente a c
he fare con la moralità personale, qualità indubbiamente positiva, ma vuol dire confondere etica e politica, e non concepire la “scienza politica come scienza autonoma” (Gramsci a proposito di Machiavelli), significa voler anteporre delle finalità che si ritengono desiderabili dal punto di vista etico alla durezza e oggettività dei rapporti sociali. Il che si traduce o in atteggiamenti da “anima bella”, oppure nell'ipocrisia tout court. Marx non intendeva “mettere le braghe al mondo”, ma realizzare la finalità etica di una società migliore all'interno del movimento storico concreto. Bisogna ribadire questo metodo, perché a mio parere è l'unica via d'uscita da dall'impasse odierna. Ripartire dalla realtà concreta per ricostruire un progetto politico. Non esistendo più un movimento operaio e forze politiche vi fanno riferimento, il punto di vista della “emancipazione della classe operaia” non può essere il nostro punto di vista. Se un domani rinascerà un movimento del genere ne riparleremo, ma al momento non esiste un movimento operaio lontanamente simile a quello del secolo scorso, e sfido chiunque a dimostrarmi il contrario (non mi si venga a dire che in Italia il Pd e Rifondazione comunista sono espressione del movimento operaio).
L'unico movimento storico reale positivo che si intravvede in questo momento è il passaggio dal mondo unipolare a guida statunitense ad un mondo multipolare. Questo passaggio è positivo perché riteniamo giusto che i paesi “non occidentali” conquistino benessere, indipendenza e sviluppo sociale, e non credo comunque che qualcuno possa loro impedirlo. Riteniamo che l'attuazione di tale passaggio metterà maggiormente “in movimento” anche i paesi occidentali, i quali stanno attraversando una lunga fase di stagnazione in tutti gli ambiti. Da questo bisogna ripartire per ricostruire un progetto politico. Per questo ritengo La Grassa il più vicino al metodo marxiano.
La mie critiche nei confronti di Preve, una delle poche persone di vera cultura (di molto superiore a quella, per vari motivi, un po' raffazzonata del sottoscritto) rimaste in ambiente culturale così degradato come quello italiano, non intendono minimamente sminuire i suoi meriti quale uno dei critici più profondi e radicali dell'ideologia comunista sclerotizzata. Per gli ultimi sparuti sopravvissuti del comunismo novecentesco la lettura dei suoi testi è altamente consigliata, generalmente quelli precedenti la folgorazione comunitarista, segnalarei in particolare Il comunismo storico novecentesco,un testo che credo avrà un suo posto nella storia del pensiero.
Tuttavia, come si è soliti dire, e in questo caso è la definizione giusta, la pars destruens è stata davvero efficace, ma la pars costruens ha difettato molto. Gli spunti geniali sono tanti, ma non arrivano mai a costituire un'analisi sufficientemente definita della realtà sociale e politica, per la quale è richiesta un'analisi di carattere un po' più “scientifica” (fra virgolette perché la scientificità richiesta per l'analisi sociale è diversa da quella richiesta per la fisica o la biologia). E in questo ha avuto un forte peso l'attaccamento di Preve non alla filosofia in quanto tale, ma a un certo modo di fare filosofia. Preve difende l'autonomia della filosofia, ma non esiste un sapere “filosofico” separato dal sapere “scientifico” (nell'antichità questa separazione non esisteva, Aristotele non si pensava filosofo e non scienziato, ma entrambi). Vi è un unico sapere umano che si articola secondo diverse modalità e si applica a diversi oggetti. Genericamente, possiamo dire, per intenderci, che la “filosofia” si occupa del suo oggetto nei suoi aspetti più generali, avendo come orizzonte la totalità, pur sapendo che questa è irraggiungibile, essendo il sapere umano un sapere determinato, mentre invece la conoscenza scientifica è più orientata verso il particolare. Naturalmente non esistono un'impostazione “filosofica” o “scientifica” pure, ma diverse combinazioni delle stesse. In Preve, vi è una sorta di tensione verso la totalità che gli impedisce di soffermarsi nel “particolare” come sarebbe necessario. Ad es., nei suoi scritti ritorna più volta la questione nazionale, cruciale per molti aspetti a causa della fase multipolare che si avvicina e anche perché è stata uno dei maggiori punti deboli del movimento comunista. Ma al di là dei tanti spunti geniali non vi è mai una riflessione approfondita su tale questione. Anche in suo libro recente su “marxismo e tradizione culturale europea”, la questione è impostata in modo molto interessante affiancando alla “Questione nazionale” la “Questione sociale”, ma ancora non vi è un approfondimento soddisfacente.
Preve è giunto ad abbracciare il comunitarismo a partire da alcuni questioni cruciali. La chiave per la loro comprensione la si può trovare, a mio parere, in un scritto su “Marx e Nietzsche” pubblicato solo in forma elettronica nel sito web dalla casa editrice “Petite Plaisance”. La parola a Preve: “La formazione del niccianesimo novecentesco fa parte di un conflitto storico reale, la guerra civile sociale e culturale fra la piccola borghesia (pseudo-nicciana) e le classi popolari subalterne (pseudo-marxiste). Questo conflitto fu tragicomico, o più esattamente tragico visto da vicino e comico visto da lontano, in quanto si legittimava su di un doppio equivoco, ed era accuratamente 'sorvegliato' dall’alto da una grande oligarchia capitalistica che favoriva questi giochi gladiatori in quanto circenses passavano sempre a lato dei veri conflitti.”
Questo è uno dei tanti spunti geniali di Preve che aprono nuove prospettive. Si tenga conto dei recenti avvenimenti in Italia e in Iran. Gli Stati Uniti nelle loro manovre fanno sempre leva su divisioni sociali reali. In Iran sono riusciti in una certa misura ad aizzare la classe media, desiderosa di maggiori libertà e che si sente compressa dal potere, contro Ahmedi-Nejad, sostenuto dalle classi popolari. In Italia si è invece cercato di mobilitare le classi popolari contro Berlusconi, ma senza successo perché la sinistra ha perso con esse quasi ogni rapporto. Mentre in Iran il governo ha avuto delle serie difficoltà, invece in Italia mesi e mesi di bombardamento mediatico attraverso campagna scandalistica internazionale hanno appena scalfito il governo berlusconiano.
Preve quindi vorrebbe una filosofia che permetta di superare tali divisioni ed ha individuato nel comunitarismo un concetto che consentirebbe di “andare oltre tradizione e rivoluzione”. Ed è qui l'errore principale, quello di ricercare nuove sintesi fra correnti di pensiero diverse e opposte. Partendo dalla questione nazionale quale questione cruciale, diciamo invece che è necessaria da parte di chi proviene dal marxismo una seria riflessione sulla “questione nazionale” che permetta di ricomporre, quando è necessario queste diversità, in difesa del legittimo interesse nazionale, senza per questo volerle annullare. Per fare un esempio concreto, quando Berlusconi è caduto sotto attacco internazionale per gli accordi con Putin riguardanti la costruzione del gasdotto South Stream, un'opposizione degna di questo nome, pur ribadendo l'opposizione a Berlusconi, l'avrebbe difeso dagli attacchi perché questi riguardavano non Berlusconi e la destra, ma il legittimo interesse di un'impresa italiana a costruire un gasdotto sottratto al controllo statunitense.Preve ha ragione nel sostenere che la demonizzazione del fascismo, comprensibile durante la “guerra civile” che si protrasse fino alla fine della guerra e alla sconfitta definitiva del fascismo, non ha più ragione d'essere. La demonizzazione dell'avversario può essere comprensibile quando si giunge al conflitto armato, ma deve cessare quando si arriva ad una risoluzione del conflitto. Invece, fu prolungata da un partito comunista che aveva difatti abbandonato la prospettiva del superamento del capitalismo, quale strumento di identità fittizia per la “militanza”. Ma l'antifascismo in assenza di fascismo è anche uno strumento del potere statunitense attraverso cui viene demonizzato il nemico di turno ( milosevic-hitler, saddam-hitler, ahmeni-nejad-hitler ecc.) In Italia gli Usa hanno usato sia l'anticomunismo che l'antifascismo per perseguire i loro obiettivi. Quando vi era il rischio di un partito comunista non gradito, per quanto moderato, hanno usato come manovalanza il neofascismo, quando non è stato gradito Berlusconi hanno usato l'antifascismo.
A mio parere, è legittimo allearsi, quando si tratta di difesa del legittimo interesse nazionale, anche con chi condivide un nazionalismo di derivazione fascista, senza per questo rinnegare la propria storia, di cui fa parte l'antifascismo (ma fa parte appunto della storia perché il fascismo come movimento storico rilevante non esiste più). Questa non è una contraddizione, ma tenere conto del contesto politico completamente diverso rispetto a quando nacque l'antifascismo. Chi vuole rapportarsi soltanto con chi la pensa al suo stesso modo, non abbandoni il suo studiolo. Ma se non è legittimo rapportarsi con chi proviene dal fascismo (in quanto creazione satanica) è invece legittimo rapportarsi con i partiti filoamericani? Non ha commesso il potere statunitense nel corso della sua storia crimini paragonabili a quelli nazisti?
L'errore di Preve consiste che da tali giuste premesse vorrebbe giungere a “sintesi” che invece si traducono in pasticci ideologici che finiscono per essere dannosi alla causa comune della difesa del legittimo interesse nazionale, perché generano confusione, mancata chiarezza negli obiettivi, dovuti al tentativo di sintetizzare tradizioni di pensiero opposte e divergenti. Gramsci nel carcere fascista scrisse che i comunisti devono saper essere “profondamente nazionali”, ma in realtà nel movimento comunista, a parte Lenin e Stalin, successivamente non vi è mai stata una seria discussione sulla questione nazionale, mentre la questione sociale è stata sempre prevalente. È necessario avviare una discussione seria, approfondita, scientifica, su tale questione.
Preve ha scritto che tiene in modo particolare al libretto scritto in “Elogio del comunitarismo”, attaccamento spiegabile solo con il detto napoletano secondo cui “ogni scarrafone è bello a mamma sua”. Ai miei occhi invece è un vero pasticcio. Non si può scrivere un “elogio del comunitarismo” senza mai arrivare a definire cosa si intende con tale termine, e allo stesso tempo dandone un'interpretazione tutta personale, senza una vera discussione del comunitarismo del passato, né in particolare del comunitarismo odierno, il quale è un'ideologia di derivazione principalmente statunitense complementare più che opposta al liberalismo. Ideologia propagandata dai media e dalla classe politica (ad es. Hillary Clinton ha scritto un libro “comunitarista” dal titolo It takes a village to raise a children). Tale comunitarismo dovrebbe temperare gli eccessi del liberismo senza spese per lo stato americano, che ha modi ben migliori di impiegare i soldi in giro per il mondo. Un po' nello stesso senso in cui D'Alema disse che in Italia è sufficiente uno Stato sociale ridotto in quanto ci sono le famiglie che fanno da fattore di compensazione.
Alasdair MacIntyre con il suo innocuo rifiuto della modernità finisce per incontrare l'ideologia dominante quando ci invita a ritararci nelle comunità rurali in attesa che si consumi la catastrofe della civiltà odierna. Non esistono soltanto gli Stati Uniti delle grandi metropoli, ma anche gli Usa della provincia rurale, delle cittadine di provincia. La migliore rappresentazione di tale ideologia l'ha data, a mio parere, il regista danese Lars von Trier, il quale ha inteso di proposito dare nel film una rappresentazione di uno dei volti dell'“America”. La protagonista in fuga dalla città e dalla violenza del padre gangster incorre in un incubo ancora peggiore diventando ostaggio dalla piccola comunità di Dogville, dalla quale sarà umiliata, violentata, oppressa, e finirà per rivolgersi al potere capitalistico paterno per vendicarsi sterminando la “comunità” di Dogville. Il film è davvero inquietante perché il regista attraverso un'astrattizzazione della scena, ottenuta con mezzi vari, riesce a mettere a nudo il problema del rapporto dell'essere umano con l'altro essere umano e con la società. La comunità di Dogville è una comunità di persone sole, spinte dalla loro stessa solitudine ad approffittare della solitudine della protagonista, bisognosa di essere accettata, per sottometterla al “volere della comunità”, cioè al loro volere, in un crescendo di rapporti sadomasochistici fino alla ribellione finale della protagonista. In conclusione, il comunitarismo non è una soluzione alla solitudine, poiché inserisce la persona in rapporti umani non autentici ma forzati, aggravando la sua condizione.
Contro allo sfilacciamento dei rapporti umani, alla grave disgregazione sociale attuale non serve riscoprire comunità varie, che indurrebbero soltanto nostalgia della sana alienazione cittadina e delle belle giornate passate da soli davanti allo schermo del computer, collegati con “il mondo” a sperimentare direttamente “l'onnipotenza astratta e l'impotenza reale” dell'individuo nella società attuale. Serve invece la ricostruzione paziente di un progetto politico, perché appunto l'uomo è un animale politico e il legame fra gli esseri umani è politico. La lettura “comunitarista” di Aristotele intende invece l'essere umano come essenzialmente politico e comunitario, cioè l'essere umano in quanto essere sociale è sempre appartenente ad una determinata comunità, che costituisce il suo orizzonte ultimo. Per questo il comunitarismo è incompatibile con l'universalismo, non può essere declinato in senso universalistico, come vorrebbe Preve, a meno di non averne una concezione “tutta personale”. Ma allora perché chiamarlo “comunitarismo” e non con un termine qualsiasi di fantasia? Applicando il comunitarismo alla questione nazionale ne verrebbe fuori una prospettiva ineliminabilmente nazionalista, la “comunità nazionale” sarebbe l'orizzonte ultimo insuperabile, mentre la questione nazionale andrebbe collocata nel contesto più ampio dei rapporti internazionali, in vista di un ordinamento che eviti i devastanti conflitti a catena fra gli stati di cui si è fatta sufficiente esperienza nel secolo scorso.
 Nonostante l'interpretazione molto personale, il comunitarismo ha però lasciato il segno. Preve ha scritto una vera e propria eresia per quanti hanno a cuore la libertà di pensiero. È necessaria una citazione da L'elogio del comunitarismo: “Con tutto il rispetto per l'opinione del grande Hegel , ma dissentendo radicalmente da lui, ogni interpretazione individualistica e anti-comunitaria di Socrate mi sembra del tutto priva di fondamento. Non mi meraviglia per&ogra
ve; affatto che essa venga coltivata. L'irresistibile tendenza dell'individualismo contemporaneo è quello di eternizzare la propria sovranità simbolica retrodatandola nel passato, in modo da potersi impadronire meglio del presente squalificando i propri avversari”. Secondo Preve, Socrate non era contro la “comunità” ateniese ma intendeva avvertire i suoi concittadini dei pericoli a cui andava incontro la città. Ma che senso ha tale discorso! È ovvio che Socrate non era contro la città di Atene, ma fu oggettivamente un elemento di dissoluzione per quel determinato tipo di comunità basato sulle norme tramandate dalla tradizione, motivo per cui fu condannato “a ragione” (secondo Hegel). Socrate, dal canto suo era nel giusto a distaccarsi (è nota l'affermazione di Hegel secondo cui sia Socrate che i suoi accusatori avevano ragione) da quel tipo di moralità tradizionale non più adatta ad una società che si stava trasformando e diventando più complessa. Non era più possibile affidarsi alle norme tradizionali, ormai inadeguate e spesso in contraddizione tra loro, era necessario che ognuno imparasse ad interrogarsi e vagliare criticamente tali norme.
Nel nostro mondo non vi è troppo individualismo, ma troppo poco. L'evoluzione delle società occidentali attuale non distrugge solo la socialità, ma anche l'individualità. Sono due fenomeni interconnessi perché l'individualità si può sviluppare soltanto all'interno di una ricchezza di relazioni sociali. Una delle tematiche principali della sociologia del dopoguerra, generalmente definita “teoria della società di massa (Adorno , Riesman, Wright Mills, Bettelheim e altri), è il declino dell'individualità (in senso generale, ma avevano principalmente in mente l'individualità borghese), ed era relazionata alla crescente disgregazione sociale (vedi il mio lavoro Bruno Bettelheim e il sofffocamento della personalità nel nostro tempo). Credere che vi sia troppo individualismo, vuol dire scambiarlo con il particolarismo, ovvero l'avere come unico orizzonte il proprio naso. Individualismo è capacità di pensare con la propria testa, anche a costo di resistere alla pressione sociale. È un elemento indispensabile per l'evoluzione sociale, altrimenti la società resterebbe bloccata in un conformismo che riproduce sempre se stesso. Individualismo è lo sviluppo di una personalità ricca di capacità e di relazioni, cosciente dei problemi del proprio tempo. Esattamente il contrario di chi pensa esclusivamente ai “cazzi suoi”. Individuo e società sono inseparabili, ma irriducibili e inconciliabili. Da una parte la società sprona l'individuo alla crescita, dall'altra l'individuo volendo trasformare la società in base alle sue esigenze è fattore di evoluzione sociale. È un conflitto eterno che non si concluderà mai.
Preve parte da un problema assolutamente reale e cruciale oggi, quale quello della progressiva distruzione dei legami sociali, fonte della profonda infelicità dei nostri tempi che si cerca di sanare con fiumi di droghe, alcol, psicofarmaci (tra l'altro vi è chi sostiene con argomentazioni non certo campate in aria che tra i motivi della guerra in Afganistan vi sia il controllo del mercato della droga). E sono anche d'accordo che rispetto a chi persegue la “felicità privata” che si traduce in infelicità collettiva vada ricordata la consapevolezza spontanea dei greci che l'essere umano è un essere sociale, il quale non può essere felice quando è separato dalla società. Ma l'alternativa fra individualismo e comunitarismo è una falsa alternativa. Individualismo e comunitarismo non sono ideologie opposte ma complementari. All'“unencumbered self”, cioè alla persona che è stata astratta dai legami sociali dall'individualismo liberista, il comunitarismo risponde con l' “encumbered self”, cioè con la persona che soggiace ai legami sociali. Per entrambi non vi è dialettica fra individuo e società.
L'alternativa al particolarismo individuale liberista è la ricostruzione di un progetto politico di emancipazione  che ricostruisca le basi per la vita associata consapevole, cioè la politica. Starei per dire che l'alternativa è il socialismo. Tuttavia socialismo, comunismo non sono che parole ciò che conta è agganciarsi al “movimento reale”. La vecchia prospettiva di emancipazione del comunismo è giunta al suo completo esaurimento con la completa degenerazione dei suoi ultimo rappresentanti. Non resta che la faticosa ricostruzione di un nuovo progetto politico, il quale presuppone la completa rottura con il vecchio.
Il comunitarismo è in relazione con una tesi che Preve ha voluto presentare in modo volutamente provocatorio: Marx non fu un materialista ma idealista, erede dell'idealismo tedesco, nella misura in cui condivide appunto una “filosofia della storia”. Sì, Marx fu un idealista in questo senso, ma è proprio tale eredità che va superata, sia nella forma liberale secondo cui la storia sarebbe un cammino verso la libertà, sia nella versione marxiana secondo cui l'umanità sarebbe incamminata verso il Comunismo.
La “Storia” non ha nessuna finalità intrinseca, esiste un'evoluzione sociale, ma questa non è retta da un Fine. La speranza del comunismo, della “società senza classi” è stato un potente fattore di mobilitazione, proprio perché raccoglieva secolari correnti religiose mai spente, ma fu anche uno dei principali motivi per cui in Unione Sovietica non si riuscì a dar vita ad un nuovo ordinamento proprio perché ogni ordinamento risultava insoddisfacente rispetto all'“ideale” comunista. Bisogna riprendere il processo di apprendimento che fu interrotto dallo sfascio del gruppo dirigente bolscevico e successivo tentativo staliniano di salvare dittatorialmente gli obiettivi della rivoluzione. Ciò che Bucharin chiamava la “fine dei sogni”, cioè mettere da canto il sogno di palingenesi radicale e provare a creare un ordinamento sociale, magari imperfetto come ogni cosa umana, ma possibilmente migliore di quello borghese. Tuttavia Bucharin non potè evitare di presentare questa tesi in modo estremizzato (il solito passare da un estremo all'altro), a cui era pur giunto da dalla posizione opposta, ultrarivoluzionaria di qualche anno prima, lanciando il famoso “arricchitevi!”, che non risultò molto gradito a coloro che avevano rischiato la pelle, subito il carcere, e l'esilio in Siberia perché alla fine si trattasse soltanto di far arricchire qualcuno, contribuendo in tal modo ad accentuare lo scontro e successivo sfascio del gruppo dirigente bolscevico.
 L'abbandono dell'“ideale comunista” non vuole dire affatto abbandonare l'aspirazione ad una società diversa e migliore, ma tenendo presente che quand'anche si riuscisse a “superare” il capitalismo e a creare un ordinamento diverso, la società futura non sarà mai una società pacificata, e in ogni caso sarà soggetta a corruzione e a degenerazione come tutti i regimi sociali e politici.
Preve ha rinunciato al mito dell'estinzione dello stato, al mito della società senza classi, all'estinzione della famiglia, ma non saputo rinunciare al mito di fondo del ritrovamento della Comunità perduta. Per quanto Preve sia stato uno dei principali critici del movimento comunista, egli non è disposto ad abbandonare questo ideale di ultima istanza,
per così dire. Prima di aver capito ciò, devo confessare di essere rimasto piuttosto sconcertato quando Preve ha accusato la “scuola althusseriana italiana” (La Grassa) di aver abbandonato la prospettiva comunista. Ma non era lo stesso Preve che aveva a più riprese affermato che il comunismo storico novecentesco era giunto alla sua conclusione? Ho pensato che dopo vari anni di lettura intensiva dei testi di Preve (che mi sono stati molto utili per superare l'attaccamento all'ideologia comunista) non avevo capito cosa sostanzialmente intendesse dire. Credo ora di aver capito che la critica del comunismo si presentava come proposito di superamento (e in effetti ne pone la basi), ma era in realtà dovuta al tentativo estremo di conservare l'ideale comunista.
Preve sostiene di condividere la critica di Althusser al teleologismo, ma non si avvede di quanto la stessa si addica al suo “comunitarismo idealistico”. Secondo Althusser: “Si trova in Marx, progressivamente criticata, ma sempre presente, l'idea di una filosofia della storia, di un'Origine edi una Fine, in breve di un Senso della storia, incarnato dalla successione delle 'epoche progressive' dei modi di produzione determinati (si veda la Prefazione a Per la critica del 1859), che conduce alla trasparenza del comunismo (vedi l'Ideologia tedesca, 1845, i Grundrisse, 1857-58 e infine la celebre frase del Capitale, nel 1867, sul preteso passaggio “dalla necessità alla libertà”), incarnato nel mito di una comunità di uomini lavoratori (immersi, al limite, nell'abbondanza, che praticamente non lavorano più, consacrandosi completamente allo 'sviluppo della loro personalità'” (Marx nei suoi limiti, pagg. 62-3).
 Non servirà a salvarlo coniugare il comunismo con il comunitarismo, approdare al comuni(ta)rismo. Il comunitarismo non è un'ideologia compatibile con l'universalismo. Il comunitarismo universalistico è questo sì un vero pesce mammifero. Vorrei esortare Preve, casomai mi legga, ad abbandonare questa strada perché è un gran spreco di intelligenza, e una fonte di confusione, pasticci vari, fraintendimenti.  Secondo Preve Alain de Benoist sarebbe approdato ad un comunitarismo non organicistico. Invece quest'ultimo scrive a proposito dei comunitaristi odierni, principalmente anglosassoni: “Le fond de leur message est que si l'on ne peut redonner vie à des communautés organiques ordonnées à l'idée de bien commun et de valeurs partagées, la société n'aura pas d'autre alternative que l'autoritarisme ou la désintégration”.
Marx fu partecipe di una “filosofia della storia” derivata dall'idealismo tedesco, tuttavia fu anche critico di questo punto di vista (era un tipo contradditorio), disse infatti che “la virtù suprema della filosofia della storia era quella di essere sovrastorica”. Da tale critica nacque il metodo marxiano di analisi strutturale dei fenomeni sociali, che riportava il punto di vista all'interno della storia, nei movimenti reali. Tuttavia la filosofia della storia non venne mai superata del tutto, rimase nella teoria degli stadi che avrebbe portato necessariamente al comunismo.
La lettura previana di Marx quale idealista e “comunitarista” (in senso lato, non nel senso dell'ideologia comunitarista) non è affatto campata in aria, ma è precisamente ciò che va superato di Marx, il quale non fu soltanto questo, la sua parte più vitale e innovativa fu l'analisi strutturale dei fenomeni sociali, cioè il materialismo applicato alla società.
 Marx non fu materialista ma idealista? Non esiste un muro fra idealismo e materialismo. Come abbiamo visto Marx fu influenzato profondamente dalla filosofia della storia idealistica, ed è vero che né l'ateismo, né la “filosofia della praxis” fanno di Marx un materialista, (entrambi sono presenti in Fichte che fu un idealista al cento per cento). Neanché lo strutturalismo di per sé è materialismo. Eppure Marx fu sostanzialmente un materialista, anzi il primo pensatore della storia ad applicare il materialismo alla realtà sociale e storica. Ciò è chiarito egregiamente ed esaustivamente da Lukács nell'Ontologia dell'essere sociale nei capitoli riguardanti la teleologia del lavoro.
Il motivo preciso per cui il passaggio decisivo che consentì di applicare il materialismo alla realtà sociale fu attuato dall'idealismo è chiarito da Marx nelle Tesi su Feuerbach. Il vecchio materialismo, meccanicistico, e anche un po' stolido, proprio perché era “materialistico”, se così vogliamo dire, non riusciva a concepire il momento ideale nella costruzione della realtà da parte dell'essere umano. “Di conseguenza il lato attivo sviluppato astrattamente in opposizione al materialismo, dall'idealismo”. La soluzione di Hegel della fino ad allora irrisolta antinomia fra teleologia e casualità, consentiva di concepire il momento ideale, come processo interno alla materia. “La ragione è tanto astuta quanto potente. L'astuzia consiste in genere nell'attività mediatrice, la quale, facendo agire gli oggetti gli uni sugli altri conformemente alla loro propria natura e facendoli logorare dal lavorio dell'uno sull'altro, mentre non si immischia immediatamente in questo processo, non fa tuttavia che portare a compimento il proprio fine” (Hegel, Enciclopedia, c. in K. Marx, Il capitale, Roma, Editori riuniti, 1980, vol. I, p. ).
Tale epocale acquisizione della filosofia hegeliana fu trasformata da Marx nel Capitale in un'antropologia che venne a definire l'elemento fondamentale, la particella elementare suo oggetto di studio: l'essere umano nella sua vita associata volta per necessità, in primo luogo, alla riproduzione della vita sociale. Riporto il famoso passo del Capitale: «Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all'uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà».
L'intelligenza stessa poteva ora essere vista come frutto dell'evoluzione della materia. La definizione del “salto ontologico” fra uomo e natura permetteva di applicare il materialismo, che alcuni identificano con lo spirito scientifico tout court, alla realtà umana e sociale, evitando scientismo e positivismo (a parte qualche affermazione più che altro metaforica Marx non identificò mai le “leggi” naturali con le “leggi” dell'evoluzione sociale).
La lettura di Lukács che abbiamo sopra sintetizzato resta un caposaldo, un chiarimento per certi versi definitivo del pensiero di Marx, ma quanto il pensatore ungherese fosse interno al comunismo novecentesco lo si vede quando afferma che Hegel estese la teleologia dal suo ambito proprio del lavoro alla storia, ma non vede che analogo teleologismo si riscontra in Marx. Questo fatto macroscopico diventa
invece visibile ad Althusser che osserva i fatti a partire dallo stadio iniziale della dissoluzione del comunismo novecentesco. Althusser vede bene anche che il teleologismo di cui Marx fu pienamente partecipe, non fu una creazione di Marx, ma faceva parte della mentalità del tempo. I militanti comunisti avevano bisogno di credere nell'”ideale comunista”, e che l'ideale di una società finalmente pacificata fosse inscritto nelle Leggi della Storia, ciò li compensava delle miserie del presente, li spronava all'azione, ma fu alla fine tale idealismo che impedì il consolidamento di un nuovo ordinamento sociale in Unione Sovietica. Ogni tentativo di dar vita ad un ordinarmento sociale non riusciva a determinarsi, perché sempre insoddisfacente rispetto all'“ideale” (in ciò si distinse particolarmente l'ala trozkista), causando lo sfascio del gruppo dirigente di cui Stalin non fu causa ma conseguenza. Per quanto la rivoluzione sovietica non sia stata il frutto non della lotta di classe, ma momento iniziale di un sommovimento storico colossale che ha visto l'ascesa dei paesi non occidentali, essa però fallito nel costruire una società diversa, alternativa a quella capitalistica. Ne è risultato uno scacco pesantissimo che ha visto lo spegnersi per ora di quel protagonismo di massa che ha caratterizzato i due secoli precedenti.
Successivamente, il teleologismo insito nell'“ideale comunista” degenerò in un piatto evoluzionismo che funzionava da copertura all'opportunismo: la società alternativa al capitalismo veniva rimandata in futuro indefinito e affidata ai “meccanismi della storia”, mentre nella prassi politica si perseguiva il più basso opportunismo. Ebbe quindi ragione Althusser a farla finita con queste storie, tuttavia si comportò come il chirurgo che invece di asportare la parte malata, asporta l'intero organo mettendo in forse la vita del paziente. Eliminando la teleologia del lavoro si eliminano le basi su cui costruire le scienze sociali, almeno secondo il modello elaborato da Marx, come è spiegato esaustivamente nell'Ontologia dell'essere sociale. Questo non vuol dire riscoprire la “centralità della classe operaia”, la quale a dispetto di quanto sosteneva Marx è in via di riduzione, analogamente a quanto è accaduto alla classe contadina, ma piuttosto riguarda il modo in cui deve essere organizzata la società. Ed è sicuramente possibile ameno immaginare organizzazioni migliori di quella attuale che diventa ogni giorno più assurda.
Il modello della prassi dell'essere umano nel lavoro è per Marx un modello per la stessa prassi politica. Non perseguire un astratto ideale a cui conformare la realtà, cioè “mettere le braghe al mondo”, ma stare nel “movimento reale”, attraverso la conoscenza delle dinamiche storiche e sociali effettive al fine di indirizzarle verso un'organizzazione sociale più giusta, più libera. Ribadisco l'importanza e l'attualità di tale metodo, senza dimenticare che Marx e i comunisti del secolo scorso ebbero bisogno di credere che la storia lavorava per loro in direzione di una società finalmente pacificata, in direzione del Comunismo, un sogno che diede loro forza, ma che fu anche la loro rovina. È possibile abbandonare questo sogno senza abbandonare l'aspirazione ad una società diversa.