DIFENDERE LE IMPRESE STRATEGICHE
Oliviero Beha “brontola” sui raitre e ne ha ben donde. L’argomento della puntata di alcuni giorni fa del suo talk “Brontolo” era l’Italia in saldo, ovvero lo smembramento del tessuto industriale nazionale a vantaggio di competitors esteri che vengono a fare shopping nella Repubblica trovando scarse resistenze.
Tuttavia, i suoi ospiti non hanno toccato il fulcro del tema, tra chi rivendicava una italianità puramente preconcetta, più di pancia che di testa, e chi riproponeva interpretazioni del problema secondarie o inessenziali, buone per la scena televisiva ma non per lo scenario economico e politico generale. Come quell’ex ministro in studio che di fronte alla perdita di asset strategici del Paese si è cimentato in una serie di distinzioni epidermiche, vedi la differenziazione tra processi d’internazionalizzazione e delocalizzazione, quasi che si potesse avere un fenomeno senza l’altro, soprattutto in quei settori a bassa intensità tecnologica dove operano società costrette dal mercato a posizionarsi nelle località ove i fattori produttivi (la forza lavoro in primis) costano meno. Questi meccanismi, in alcuni casi, sono inaggirabili quindi è inutile tentare di abbassare il livello del mare muniti di secchiello. Del resto, si otterrebbero risultati minimi se non scarsi per lo sviluppo collettivo.
Non si tratta, dunque, d’impedire ai marchi del made in Italy, nei compartimenti calzaturieri o divanieri, di spostare alcune fasi del ciclo lavorativo in Romania o in India e nemmeno di evocare il protezionismo d’antan per non farsi sottrarre l’industria dolciaria o quella dell’automotive (appartenente ad una passata ondata tecnologica) quanto, invece, di rintuzzare l’aggressività internazionale contro aziende ad elevato impatto d’innovazione, di input ed output, le cosiddette imprese di punta, sui palcoscenici in costante espansione ed elevata profittabilità, laddove si conquista, allo stesso tempo, preminenza finanziaria e proiezione geopolitica. Pensiamo, per l’appunto, alle piazze di competenza di gruppi quali Eni, Finmeccanica, Enel ed altre consimili, anche private.
Sì, perché come ben sapeva Enrico Mattei, ci sono imprese che operano in ambiti dove il confine tra affari di stato e business industriali è sovrapponibile in virtù della peculiarità delle azioni politiche richieste – perché la politica, intesa lagrassianamente è un complesso di strategie per la preminenza che coinvolge trasversalmente le varie sfere sociali e i soggetti in esse operanti, infatti, “quando un imprenditore acquisisce mentalità effettivamente strategica e non semplicemente manageriale, egli assume grande rilievo nella politica (quella vera, non semplicemente riferita agli apparati di Stato); e questa politica non riguarda soltanto quella data branca produttiva (ad es. il petrolio, il gas, ecc.) ma anche l’apertura di nuove sfere di influenza, che possono avvantaggiare il paese nel suo complesso” (Un pot-pourri, che spero interessi, www.conflittiestrategie.it) – pensare alla sua già citata Eni, con la quale ci imponevamo sui concorrenti, in virtù di un elevato know how tecnico, ma con l’intento di veicolare alleanze diplomatiche con i governi intenzionati ad affievolire la dipendenza economica e politica da alcune (pre)potenze mondiali. Ci facevamo spazio offrendo condizioni migliori e garanzie di reciprocità del tipo win-win, rispetto alle operazioni di puro sfruttamento e saccheggio dei nostri competitori. Per aver tracciato questa strada di coraggiosa corrispettività (che non discende da ragioni di generosità essendo il portato di acute strategie finalizzate al raggiungimento di speciali obiettivi) con i suoi interlocutori del Medio oriente, dell’Eurasia o dell’Africa, sbaragliando la concorrenza di colossi planetari più attrezzati, Mattei fu eliminato.
Sono, pertanto, queste le best companies che oggi rischiamo di perdere con grave nocumento per lo slancio della nostra comunità. I reiterati attacchi, interni ed esterni, a queste blue chips, a partecipazione pubblica e non, sono il vero nocciolo della questione.
In questi anni, approfittando delle debolezza delle nostra classe politica e degli apparati statali (intelligence inclusa), governi stranieri, loro multinazionali in cerca di occasioni a prezzi stracciati e speculatori di professione, di stanza nelle principali capitali mondiali (Washington, Londra, Parigi), hanno agito di concerto per smembrare i nostri gioielli più preziosi ed attrarli nella loro orbita d’influenza. Queste manovre non sempre sono risultate pulite ed hanno coinvolto anche cellule maligne autoctone (oltre ad una magistratura malconsigliata e fuori controllo dai tempi di tangentopoli, in quanto riteniamo inaccettabile che un corpo dello Stato arrivi a processarne un altro senza anteporre l’interesse di tutta la nazione al resto) le quali preferiscono asserragliarsi in campi di subordinazione commerciale e merceologica, sotto l’ala protettiva di Istituzioni corrotte ed impazzite che elargiscono aiuti a go-go a tali imprese decotte, ormai incapaci di reggersi sulle proprie gambe produttive ma variamente collegate al potere politico, oppure accontentandosi di vivacchiare nei segmenti di supporto manifatturiero, a basso progresso e minima ricerca scientifica, lasciati liberi dai Paesi più performanti, finendo così per trasformare l’ intero sistema-paese in un indotto ausiliario per produzioni ultramoderne concentrate all’estero ed in mani forestiere.
Non stiamo dicendo nulla di nuovo, poiché furono gli stessi Stati Uniti a subire questo trattamento dall’Inghilterra prima della rivoluzione civile e durante la prolungata fase coloniale inglese.
Londra voleva impedire l’abolizione della schiavitù e l’affermazione di un sistema capitalistico moderno negli States affinché questi non si lanciassero nella conquista dell’industria e continuassero a rifornire di materie prime e di semilavorati la madrepatria, contando di mantenere il primato della produzione manifatturiera senza subire la concorrenza di altri attori.
Questa volontà di sottomissione incontrò gli appetiti dei cotonieri del Sud che traevano lauti guadagni dagli scambi di tali beni primari con Londra, ottenuti con manodopera schiavizzata, i quali, dunque, non erano minimamente interessati ad emanciparsi da essa interrompendone i rapporti di commercio aperto e scevro da vincoli daziali.
Ma era proprio la diffusione dell’istituto della schiavitù negli stati confederati e l’importazione da oltreoceano dei manufatti britannici in cambio dei prodotti agricoli che comprimeva l’ apparato industriale del Nord, il quale abbisognava, appunto, di far sviluppare il regime salariale della forza-lavoro e di proteggere, con una serie di imposte doganali, la sua industria emergente. Qui stanno le concrete ragioni della guerra di secessione americana, la soppressione della schiavitù fu per il Presidente Lincoln e gli unionisti una necessità politica ed economica, prima che morale, per affermarsi in quanto autonoma potenza regionale di quell’area.
La posizione del Nord trovava anche riscontro teorico nelle analisi dell’economista tedesco F. List il quale, contrapponendosi alla teoria dei costi comparati di Ricardo (che non a caso era inglese) – quella per cui era convenienza dei singoli Paesi, per una maggiore razionalizzazione del mercato complessivo, concentrarsi nella produzione del bene su cui si aveva un vantaggio comparato, tanto artificiale che naturale, rispetto al concorrente, cosicché si potessero attivare i relativi scambi sulla base di dette prerogative “equivalenti” tra le parti; celebre il suo esempio del vino portoghese e della stoffa inglese – riteneva che questo ragionamento fosse un escamotage ideologico per giustificare una supremazia di fatto (altro che generale convenienza!) della nazione che era stata attraversata da una imponente rivoluzione industriale, la quale voleva trattenere il suo primato peculiare trasformando in mere fornitrici agricole e minerarie le economie con le quali si rapportava.
Scrive List: “La storia ci propone esempi di intere nazioni che sono state annientate perché non avevano compreso in tempo che dovevano assicurarsi l’indipendenza, economica e politica, attraverso la fondazione di una propria industria e la formazione di una potente classe di industriali e commercianti”(cfr. Federico List, Il Sistema Nazionale di Economia Politica, edizione Isedi 1972)”.
Si badi bene che List, il quale condivideva le regole e la logica dell’economia del libero scambio, riferisce la sua “eccezione protezionistica” unicamente ai settori strategici dell’industria nascente, quelli che devono garantire sovranità economica e politica, pena l’annientamento sociale e la subordinazione totale ai popoli più forti che seguono i suddetti indirizzi.
Pensiamoci anche in Italia ed invece di scandalizzarci per i cinesi o i rumeni che ci sostituiscono nelle lavorazioni più frugali o per i francesi che scalano gli atelier di moda (i cuginetti vorrebbero appropriarsi di alcune collegate di Finmeccanica, fatto che dovrebbe destare molta più preoccupazione) puntiamo a proteggere i veri tesori dell’industria d’avanguardia che sono ancora in nostra possesso. E lì che si gioca la nostra battaglia epocale per la sopravvivenza nella fase multipolare.