DOMANDE DI FILOMENO VISCIDO DELLA LISTA SOCIALISMO E DEMOCRAZIA


1) I sostenitori del Capitalismo, spesso, chiedono perché mai si dovrebbe abbandonare un sistema socioeconomico che ha portato tanto sviluppo economico e fanno presente che, nel lungo termine, anche le zone più arretrate come l’Africa aumentano la propria ricchezza. Perchè si dovrebbe combattere il Capitalismo? e cosa ci fa pensare che in fondo, esso non sia il sistema più adatto all’umanità?
Il sostegno a movimenti antistatunitensi porta con se l’implicita accettazione che sia tollerabile vedere uccisi giovani militari statunitensi ed europei. L’opposizione agli USA colpisce i soldati e non i generali ed i politici. C’è un punto in cui il macello di “pezzenti occidentali” non è più tollerabile?
In tutta questa faccenda, quella striscia di terra che è Israele/Palestina che significato ha? non sarebbe più utile concentrare le energie rivoluzionarie verso territori più ricchi di fonti energetiche, più vasti e più popolati e, soprattutto, più sfruttati? In Africa si aprirà presto il contrasto tra “Occidente” e Cina… perchè non concentrarsi in quella zona? E, riprendendo in termini “nazionali”, la prima domanda: è giusto, ad esempio, sacrificare il Tibet alla Cina per non sabotarne la crescita?
Cina, India ed altri Paesi vengono sostenuti in antagonismo agli USA per creare una situazione policentrica, affinchè il contrasto possa generare la crisi. Ma si crearanno davvero le zone di crisi? il capitalismo di inizio 900 era un capitalismo in cui singoli capitalismi nazionali si espandevano in aree di influenza. Il moderno capitalismo vede non solo il ricercare e l’espandersi in aree di influenza ma anche l’intrecciarsi di rapporti e di reciproca dipendenza. Gli investimenti cinesi in USA fanno pensare che difficilmente Cina ed USA andranno a scontri frontali ma piuttosto si accorderanno (chi succube di chi, si deciderà poi).
Chi assicura che dalle crisi si svilupperanno processi positivi? Nell’Europa post Grande Guerra e Depressione si generarono anche fascismi e nazismo.
Sull’URSS, alcuni rilevano che: lo sviluppo avvenne in un’area non capitalisticamente avanzata mentre non avvenne in zone capitalisticamente avanzate; che agli USA capitalistici fece comodo avere un avversario contro cui concentrare l’attenzione e potrebbe convenire averne di nuovi; che l’URSS fu un capitalismo di Stato; che la sua sconfitta non ebbe cause nel sistema di produzione ma nell’arretratezza tecnica ed economica da cui partiva il blocco sovietico rispetto a quello “occidentale”. Commenti ai singoli punti?
Cosa pensa delle ipotesi anarco-capitaliste ?
Alla fine la domanda è molto simile a quella che il Merlino faceva al Malatesta e parafrasata : ma volendo costruire una società diversa, come si fa a non ricadere nella PRATICA negli stessi errori? Come ci organizziamo? Come facciamo a non ricreare coop e statalismo capitalistici?
Cosa distingue, se vi sono distinzioni, le sue posizioni da quelle del CampoAntiimperialista e dagli eurasiatisti?
Se il marxismo deve essere rivisto, perchè la rivisitazione socialdemocratica e liberal-socialista non va bene?
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RISPOSTE DI G. LA GRASSA
I
Sono dieci domande, gran parte delle quali richiederebbe, per risposta, quasi un libro o, come minimo, un consistente pamphlet. Forse, è meglio che prima di rispondere alle singole domande, in un certo senso mi presenti, almeno con sommari cenni, di modo che riesca poi più semplice capire il senso di certe mie risposte.
Esco dalla media, ma potrei anche dire medio-alta, borghesia industriale; ho lavorato per un numero sufficiente d’anni nell’impresa di mio padre (e, prima ancora, in quelle dei suoi “amici”- concorrenti; questa, un tempo, era la normale “gavetta” per i figli degli imprenditori-proprietari). Poi – non principalmente a motivo delle mie scelte politiche (comuniste) – ho avuto, grazie all’incontro con un uomo straordinario, il mio maestro italiano Antonio Pesenti, l’occasione di seguire la strada dell’Università. Non vi ho incontrato molte persone interessanti, tendenzialmente preferivo quelle incontrate nel mondo produttivo; di conseguenza, non stimo eccessivamente gli intellettuali (in particolare gli “accademici”, e soprattutto quelli di formazione “umanistica”; più sopportabili quelli dediti alle scienze), anche se l’Università mi ha permesso di dedicarmi allo studio, attività da me preferita, nonché di fare nel contempo, a modo mio (molto mio), un po’ di politica.
Conosco quindi, abbastanza dall’interno, il mondo capitalistico (cioè imprenditoriale), i suoi molti difetti, in particolare l’ipocrisia (che per me è il peggiore dei “peccati”), ma anche i pregi. Non sono di quei faziosi che pensano il capitalista come un ignobile sfruttatore, interessato solo ai “danè”, insensibile ad ogni altra manifestazione dell’essere umano. So bene l’orgoglio di aver dato vita a qualcosa di rilevante, spesso di nuovo (o con metodi nuovi), e di averlo fatto crescere e prosperare; nonché la radicata convinzione di aver fornito il contributo maggiore alla produzione di ricchezza e alla “creazione” di posti di lavoro. E tutto per merito proprio, per la particolare “religione” del fare, dell’impegno senza soste; mica come quelli che “staccano” appena finito l’orario di lavoro. Questa è la mentalità tipica del vero capitalista; indubbiamente pregna di ideologia, ma come lo è pure quella dei lavoratori salariati (almeno quelli comunisti) che pensano di aver prodotto l’intera ricchezza, di esserne stati in gran parte espropriati, di poter fare a meno del capitalista e di saper dirigere da soli una qualsiasi impresa o addirittura l’intero apparato produttivo (con i “bei” risultati sempre conseguiti, nel particolare come nel generale).
In mancanza di meglio, non sputo sopra il capitalismo; né sputo sopra quell’ansia di fare sempre di più, di ampliarsi, di conquistare “nuove frontiere”, che anima il migliore (non “buono”, ma solo migliore) capitalismo. Per cui non stimo coloro che vorrebbero costringerci a “coltivare l’orto dietro casa”, a ridurre le nostre pretese; coloro che gridano contro questo spirito prometeico che ci porterà alla rovina tramite la distruzione dell’ambiente (e la perdita della nostra “anima”), e altre c….zate immani tipiche di gente non solo improduttiva ma proprio inutile (anzi dannosa). Li lascio sbraitare come un tempo “i preti”, che minacciavano la dannazione eterna a coloro che avevano la pretesa di volare. L’uomo non può volare, è contro natura, si diceva; ed oggi si ripete la stessa solfa con le biotecnologie, ecc. Per fortuna, il capitalismo andrà avanti, salvo che in questo nostro disgraziatissimo paese, di una arretratezza politica e culturale da far paura; e i più ignoranti e pericolosi si trovano a sinistra; e più a sinistra si va, più cretini e ignoranti si trovano; e più anticapitalisti sono, più sono pericolosi e da isolare.
La penso esattamente come Marx che ammirava il capitalismo e i capitalisti. Tuttavia, non si può negare, almeno secondo me, che questa società attuale è in forte decadenza, è nel caos e nel pieno dell’arrivismo sfrenato, dell’arraffa-arraffa, della lotta per bande “come nella Chicago anni ‘20” (Guido Rossi). Questa degenerazione riguarda in modo particolare proprio l’Italia, ma senza dubbio in quanto punta avanzata (o ventre molle) d’Europa e, in genere, della civiltà cosiddetta “occidentale”.
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A parte la particolare decadenza, che a mio avviso caratterizza quest’epoca, tutta la storia del capitalismo – ma vogliamo essere seri? Tutta la storia dell’umanità, da che la si conosca – è punteggiata di massacri, sopraffazioni, persecuzioni, sfruttamento, malattie e morte soprattutto (non solo) per i dominati, loro ribellioni periodiche e loro repressione nel sangue. Per non parlare delle lotte tra i dominanti, che si sono sempre azzuffati per conquistare la preminenza. Marx pensava che proprio il capitalismo avrebbe condotto all’ultimo termine tale processo di violenze (più o meno aperte o sorde e mascherate, talvolta magari anche con l’uso della vaselina), che la particolare dinamicità produttiva di tale forma di società avrebbe favorito la formazione delle due imprescindibili (oggettive) condizioni del comunismo: formazione del lavoratore collettivo produttivo (possessori delle potenze mentali della produzione ed esecutori in stretta cooperazione fra loro); sviluppo impetuoso delle forze produttive con copioso fluire dei beni per realizzare il famoso “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Nulla di tutto ciò si è verificato, e personalmente credo di aver dato un contributo – negli ultimi 10, o anche 15, anni – a capire che non è questo il movimento interno del capitalismo; e che inoltre esso non cessa di svilupparsi, sia pure ad onde, non prevalgono affatto definitivamente come pensava il marxismo – ma ciò accade solo in date epoche ricorrenti e in date formazioni particolari – i finanzieri (visti come meri rentier); prevalenza che avrebbe dovuto comportare il blocco e la putrescenza delle forze produttive con l’inevitabile scoppio della rivoluzione proletaria. Niente di tutto ciò. Oggi come oggi, la mia credenza (non posso portarne le prove come non ci sono prove della inesistenza di Dio; ma nemmeno del suo contrario) è che il comunismo appartenga all’ordine del desiderio; un desiderio umanissimo, come quello di aver bisogno di credere che la nostra vita non finisce nel nulla. Per di più tale desiderio “comunistico”, qui ed ora (in questa Italia arretratissima e incolta, ancora troppo intrisa di “socialismo reale”), è sfruttato elettoralmente da alcuni farabutti che approfittano dell’esistenza (sempre persistente) di “quattro sfigati” in ogni paese sia pure ad alto sviluppo (l’Italia è poi particolarmente esposta a tale “infezione” perché è ormai in affanno e stagnazione dopo mezzo secolo di crescita quasi continua).
3. Essendo questa la mia credenza di fondo, penso che, a periodi ricorrenti (molto erratici e di differente lunghezza), si creino una serie di discrepanze e solchi e differenziazioni sociali, ecc. per cui cresce la tensione conflittuale: non solo in verticale, ma ancor più quella orizzontale (al vertice) tra gruppi tesi ad assumere la supremazia. Cresce così anche la tendenza alla sopraffazione, all’ingiustizia; aumentano le differenze quanto a tenore di vita, a possibilità di successo, a soddisfazione dei propri bisogni, e via dicendo. Si creano quindi degli schieramenti; e alcuni individui, anche di quelli che non stanno particolarmente male, sentono l’esigenza di schierarsi dalla parte di “chi sta sotto” (la sentono, perché se qualcuno effettua tale scelta soltanto perché ha letto i “classici” del marxismo, è meglio allontanarsi da lui al gran galoppo!). Solo che costoro, normalmente, hanno anche bisogno di illudersi che il prossimo rivolgimento creerà infine la società giusta, degli “eguali”, del “volemose tutti bene”, della cooperazione universale, ecc. Certuni poi, di mentalità libresca (e chiesastica), sono convinti che sia “razionalmente” dimostrabile – educando inoltre i più a tale idea – l’utilità per tutti di questa collaborazione, di questa giustizia, di questa eguaglianza. Alcuni si ficcano in testa tale idea in buona fede, altri, più scaltri, ne approfittano per sollevare “le masse” coltivando, dentro di loro, la giusta comprensione delle cose: e cioè che, se arrivassero per caso al potere, regolerebbero tra loro tanti conti e poi …. “chi più tela ha da tessere, la tesserà”.
Alla fine, ci si accorge sempre che tutto ricomincia a muoversi nel senso della disparità, della creazione di nuovi squilibri, di nuove disuguaglianze, di una nuova divisione tra dominanti e dominati, di nuovi conflitti tra gruppi di vertice per la supremazia, di nuove tensioni anche in verticale, ecc. ; e la sarabanda della “Storia” riprende il suo corso. Allora i delusi, coloro che vedono mortificate le loro speranze di palingenesi totale dell’umanità (anzi, scusate, dell’Umanità), cominciano a frignare; alcuni si buttano sul “tradimento” degli ideali (che esiste, sia chiaro, ma non è il fulcro del problema), altri sulla “natura cattiva” o “aggressiva” dell’essere umano; già in questa parolina, “es-
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sere”, che uso anch’io per lunga abitudine linguistica, si annidano mille “sottigliezze”, che fan parte del mestiere del “filosofo” (quello appunto dell’essere, perché ce ne sono anche di altra specie).
Non c’è “natura umana” che tenga (sempre secondo le mie credenze); sono convinto che si tratti di un carattere eminentemente culturale, acquisito per lunghissima sedimentazione di esperienze sociali. Si è constatato, in millenni di storia, che senza conflitto, senza voglia di emergere, senza – purtroppo, non è che ne sia felicissimo – qualche dose di cattiveria (e anche di meschinità; se conosciamo le biografie dei “grandi uomini”, nella letteratura e arte, nella filosofia, nella scienza e non solo in economia e politica, è tutto un campionario di “mostruosità”, di egocentrismo e narcisismo, di invidie e coltellate reciproche), la società sta ferma, è “fredda”, inerte. Più serena forse? Più tranquilla e “a misura d’uomo” come suol dirsi? Ho conosciuto bene le “quasi comunità” di montagna o di poveri “villaggi” quando ancora Veneto (e ancor più a lungo il Friuli) erano zone di emigrazione, economicamente pressoché immobili (una vera “decrescita”). Ho conosciuto le persone che si aiutavano nei lavori reciproci; che, quando uno aveva l’automobile (anzi solo la moto), ci faceva girare tutti gli amici; quando uno riusciva ad avere un frigo, ci metteva carne, uova e ortaggi anche dei vicini, ecc. Come sembravano buoni, a prima vista; ma da vicino, era come sollevare una pietra e trovarci sotto un groviglio di schifo, un nido di vipere. Un “controllo” (conformistico) sociale che impediva alcunché di nuovo, di inventivo. Nessuna serenità, solo sospetto, guardarsi in cagnesco, parlare male l’uno dell’altro; e stare però fermi, in “decrescita”, “chiacchierando sull’uscio di casa”. E’ arrivato il terremoto; oggi il Friuli è irriconoscibile: un fare, un agitarsi febbrile, uno sviluppo continuo (anche se adesso in difficoltà come tutto il resto, con questa politica italiana d’accatto; e con questi “poteri forti” soltanto banditeschi, gangsteristici, senza idee, senza innovazione, senza spinta insomma).
Non è la “natura aggressiva”: è il desiderio di novità, di infrangere abitudini repressive e paralizzanti, è l’aspetto rutilante della vita; questo ti educa a quel carattere che, oltre a tale lato positivo, ha quello negativo, della disuguaglianza, della prevaricazione, del “farsi le scarpe”, ecc. Cosa vogliamo, una cosa senza l’altra? Allora crediamo che ci sia soltanto il bene senza il male, la voglia di fare (e di fare nella novità e non nella sola tradizione conservatrice e mortificante) senza qualche bel “calcio negli stinchi”? Crediamo solo al positivo, mentre il negativo sarebbe espungibile dalla nostra esistenza? Andando avanti di questo passo, perfino la Chiesa sarà magari costretta ad adeguarsi al “politicamente corretto”, eliminando Inferno e Purgatorio. Perché la “mentalità progressista” non può ammettere queste discrepanze; tutti eguali, per carità! Naturalmente salvo i furboni, che ne approfittano per arraffare ai gonzi tutto l’arraffabile. Non c’è nessuno che più di questi individui aguzzi la mia antipatia; e purtroppo si tratta, il più delle volte, di “quelli di sinistra”.
4. Allora, qualcuno dirà, se le cose stanno così è inutile battersi; non vale la pena scegliere – in quella data epoca X della storia – di stare dalla parte dei dominati; o, in certi casi (e secondariamente, tatticamente), da quella di alcuni gruppi dominanti a preferenza di altri. Chi dice così non mi ha capito. Si deve prendere posizione da una parte; e quando l’oppressione, la prevaricazione, l’ingiustizia sono in aumento esponenziale (come nel mondo attuale), la scelta di chi odia queste prerogative dei dominanti non può che essere una (pur se oggi, certo, si è veramente in difficoltà a scegliere; ci si deve turare il naso in ogni caso). Fatta la scelta, tutto il possibile va esperito affinché la parte (oppressa) per cui ci battiamo, alla fine prevalga. Essa creerà infine la società giusta, degli eguali, del comunismo? Per carità, alla larga! La sua lotta, se vittoriosa, produrrà un nuova formazione sociale, con nuovi rapporti. Ma saranno migliori? Ci sarà maggiore solidarietà e cooperazione e amorevolezza tra gli individui (tra gli “esseri” umani)? Per un certo (breve) periodo di tempo forse si. Ma se non dura, se poi si ricreano le diseguaglianze e tutto il resto, valeva forse la pena di battersi e di correre tanti rischi (fra cui, in certe contingenze storiche, il rischio di morire)? Si, ne valeva la pena (alla fine, al proposito, troverete un’altra bella poesia di Brecht). ***
Altrimenti, chi non lo crede, “si sieda sull’uscio di casa” e conversi con i vicini, facendo pettegolezzi, sparlando degli assenti, esprimendo la propria saggezza nel predire che tempo farà domani,
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e altri discorsi esaltanti del genere. L’importante è che non rompa i coglioni a chi invece vuol cambiare le cose, la sua posizione e anche quella degli altri; perché il cambiamento significa non voler morire nella stessa situazione in cui si è nati (ciò vale anche per i popoli, non solo per gli individui). Ovviamente, quando pian piano si ricreeranno le condizioni di disparità, di ingiustizia, di supremazia, ecc. – con tutti i fenomeni, negativi per i dominati, che queste porteranno seco – ci saranno altri personaggi, di altre generazioni, in una data epoca storica X+Y, che riprenderanno la via della critica e della battaglia. E così for ever, finché durerà l’umanità (sull’Umanità e i suoi destini finali di emancipazione o di realizzazione dell’essere … o di altre cose che non conosco, parlino altri, più avvezzi di me a riflessioni profonde). Io sono un po’ terra terra, alla buona, sono tipo da “pasta e fagioli”; e se c’è un po’ di “lardo”, meglio ancora.
II
Vediamo allora un po’ quali sono queste domande di “Socialismo e democrazia”. Alla prima, penso di aver già risposto. Siamo nella “mia” epoca X – sono nato nel capitalismo, in questa fase del capitalismo (“occidentale”) – e ho fatto la scelta che ho fatto perché sentivo di doverla fare. Poi, ho anche studiato il capitalismo, ma certamente dotandomi di una certa teoria, di un certo punto di vista critico. Non mi pongo la domanda, che a me pare persino strana, se c’è qualcosa di migliore del capitalismo. Per fare un esempio, era meglio volare o stare con i piedi ben saldi sulla terra? Non si è potuta dare risposta – ammesso che questa sia stata data in via definitiva – prima ancora di sapere come si poteva volare; i primi a tentare, credevano si dovesse sbattere le ali alla guisa di un uccello. E’ stato anche un bell’insegnamento “collaterale”: guai a voler imitare la Natura, a volersi adattare ai suoi ritmi e movimenti; si finisce morti.
Noi poi chiamiamo tutto capitalismo. Certamente, sembrano esserci finora, in tutte le società in sviluppo, alcuni elementi comuni tipici: diciamo impresa e mercato. Tuttavia, ho avanzato l’idea – al momento generica, buttata là – che il capitalismo dell’epoca del monocentrismo inglese fosse differente da quello dell’odierna supremazia americana (sul primo si basò Marx per la sua teoria del capitalismo e, più in generale, dello sviluppo storico delle varie formazioni sociali; e ciò potrebbe aver determinato particolari debolezze e caducità della sua visione). Il capitalismo “occidentale” – di cui fa parte, tutto sommato, il Giappone, e che è dominato nettamente dagli USA – sembra qualcosa di diverso da quello che avanza nelle formazioni russa o cinese o indiana, ecc. In mancanza di idee al momento più chiare, chiamiamo capitalismo anche quello “orientale”, ma dubito assai che l’attuale struttura dei rapporti sociali sia semplicemente quella di un periodo transitorio, dopo il quale Russia o Cina o India saranno del tutto simili alle nostre società; secondo me, ci saranno differenze nette, e non solo quelle culturali, legate a diverse tradizioni millenarie. Si tratterà proprio di un “capitalismo” (denominiamolo pure ancora così) che sarà diverso perché venuto dopo, non semplicemente perché si innesta su una forma sociale preesistente già da tempo.
Comunque, al momento – poiché formulo l’ipotesi che ci si avvii, immagino entro 20-30 anni, ad una nuova fase policentrica (imperialistica? Preferirei il primo termine) – studierei attentamente la conflittualità secondo due livelli: a) quello appunto geopolitico, con la progressiva entrata nel policentrismo, e distinguendo le varie aree a capitalismo avanzato (tra le quali si svilupperà l’effettiva lotta fra più “potenze” per la supremazia mondiale) e quelle delle semiperiferie e periferie (uso provvisoriamente tali termini mutuati da altri); b) quello interno alle varie formazioni particolari (e, per quanto mi riguarda, con specifico riferimento ai paesi “occidentali”), anche qui distinguendo lo scontro tra gruppi dominanti per la preminenza e quello tra questi e i dominati. Se il sistema capitalistico sia il più adatto all’umanità (quale forma di capitalismo e per quale porzione di umanità?) è una domanda troppo ampia e perciò generica; penso proprio che resterà a lungo senza risposta.
Nessuno ha “sete di sangue” e desidera la morte di centinaia o migliaia di individui per puro sadismo. Se però un paese ne invade un altro, se questo resiste, se “tu” sei dalla parte di questa resi-
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stenza – sia per ragioni di giustizia, sia per motivazioni geopolitiche, di accelerazione del declino USA e di entrata nel policentrismo – devi accettare che ci siano queste morti. Ovviamente, si sarebbe molto felici se potessero essere uccisi solo generali e colonnelli, ma non accade così perché le truppe sono mille volte più numerose e sono costituite sempre dai “poveracci” (che comunque, spesso, quanto a sadismo e ferocia assassina battono i loro “capi”). I vandeani non erano tutti nobili, bensì contadini. Egualmente per quanto riguarda le “armate bianche” in Russia, la cui composizione (a livello appunto della truppa) non era molto differente da quella dell’“armata rossa”.
Personalmente, durante il ’68, capivo molto bene Pasolini quando disprezzava gli studenti “piccolo-borghesi” (o addirittura figli di papà dell’alta borghesia, pieni di sé, sprezzanti verso il popolo, convinti di poter sostituire i loro padri ormai troppo demodés o “matusa”) mentre sentiva maggior afflato verso i “cafoni meridionali” che costituivano la bassa forza delle “forze dell’ordine”. Lo potevo però capire da un punto di vista “etico-estetico”, ma non da quello politico, perché qui il ragionamento da fare era proprio completamente diverso. Quindi non facciamo gli umanitari “a bischero sciolto”. Il problema non è uccidere, in sé e per sé; è semplicemente di stare dalla parte che si ritiene sia nel giusto, di cui si desidera dunque la vittoria; se i metodi di lotta assumono forme violente, l’uccisione va messa in conto. Tutti cercheranno di “beccare” chi sta in alto (se non altro perché così si riesce a meglio scombinare le strategie del nemico), ma – come nel gioco degli scacchi – i pedoni sono assai più numerosi, e bisogna farne fuori molti prima di riuscire a dare “scacco matto”. Non fate domande così “ingenue” poiché l’unica cosa di cui non dubito è che siate intelligenti e “scafati”.
3. Non vedo che cosa ci sia altro da rispondere. Sono per i palestinesi per ragioni di giustizia, poiché ritengo gli israeliani dei tipici massacratori, come tanti altri esistenti nella storia; e inoltre, non c’è nulla di strano che i massacrati di ieri (dai nazisti) diventino oggi dei massacratori (non li equiparo ai nazisti, non temete, ma quando si massacra, si massacra). Magari, chissà, tra 50 anni i palestinesi, messo in piedi uno Stato proprio, diventeranno a loro volta massacratori di qualche altro popolo; e allora un “La Grassa”, esistente fra 50 anni, si schiererà contro i palestinesi. A parte, però, la questione “giustizia”, “indipendenza”, ecc., esiste pure la motivazione del particolare ruolo di Israele in quanto sicario statunitense in Medio Oriente. Questo sicario va combattuto e indebolito, perché questo sposterebbe più rapidamente i rapporti di forza a sfavore degli USA e verso il policentrismo, configurazione dei rapporti mondiali per cui ho già dichiarato e motivato le mie preferenze.
Si tratta sempre degli stessi motivi per cui sono per gli Hezbollah o per l’Iran o per i talebani in Afghanistan e i fondamentalisti pure in Pakistan (a mio avviso, uno dei perni decisivi per il mutamento degli equilibri mondiali). Non ho alcuna speciale predisposizione per l’islamismo; lo rispetto, ma lo avverto piuttosto lontano dalla mia mentalità. Culturalmente mi sento diverso, e sono stufo di dover mostrare “amore” per i diversi. Criticherei ogni intenzione di “fare crociate” (quel che pensavo di personaggi come la Fallaci lo tralascio), ma la mia cultura è altra, ci tengo e non mi interessa nemmeno il “multiculturalismo”; gli “innamorati” dei “diversi” (razzisti della più bell’acqua, perché il loro “amore” fissa il diverso in quanto diverso, in quanto “specie protetta” da una sorta di WWF degli sciocchi “buonisti”) li spernacchierei volentieri. Tutto ciò non incide minimamente sul mio appoggio a queste lotte contro l’ “occidente” (in realtà contro gli USA) per i già considerati motivi concernenti gli equilibri mondiali. Aggiungo, per evitare equivoci, che non ho alcuna particolare predisposizione all’antiamericanismo di principio, per motivi culturali magari; io mi sono formato con la cultura americana (letteratura, cinema, jazz e via dicendo). Non vi è alcun dubbio che se mi obbligassero ad andare a vivere negli USA o invece in Russia (o, peggio, in Cina), la mia scelta, pur a malincuore, cadrebbe sul primo paese. Sono contro gli USA nello stesso senso – sia pure mutatis mutandis – in cui List fu contrario al capitalismo inglese nella prima metà dell’ottocento (pur ammirando tale capitalismo e sperando addirittura in accordi con esso).
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Quanto alla controversia tra Cina e “nazionalisti” (religiosi) del Tibet, non ne so molto. Non ho antipatia preconcetta verso i monaci buddisti di quella zona, ma ne faccio una semplice questione ancora una volta “geopolitica”; e lo stesso dicasi per le rivolte dei monaci in Birmania. Non mi è piaciuto l’atteggiamento del regime militare birmano, ma non sono così ingenuo da non capire chi soffia sul fuoco in quelle zone, così come lo fa in Ucraina e Georgia, nelle Repubbliche centroasiatiche russe, in Pakistan prima con Musharraff e adesso con la Bhutto (cacciata dieci anni fa perché all’origine di una corruzione mai vista); e così via. Sto sempre da una parte, per ben precisi motivi politici. So bene che, su tutti i fronti, ci sono emeriti figli di p…..(da un punto di vista morale ecc.), ma io sono comunque favorevole a spostamenti dei rapporti di forza mondiali in una certa direzione, e seguo questa bussola.
Alla quarta domanda veramente ho già risposto ampiamente con quanto detto sin qui. Aggiungo solo che è ingenuo pensare che gli investimenti cinesi negli USA, o le joint ventures tra americani (ma anche europei) e cinesi in Cina, significhino integrazione tra i vari paesi e non una loro accanita competizione nelle più svariate aree mondiali (basta vedere quanto la penetrazione cinese in Africa abbia fatto incazzare gli Stati Uniti). Quando scoppiò la guerra tra USA e Germania, per il regolamento finale dei conti, esistevano non so quante “multinazionali” (come si sarebbe detto poi) americo-tedesche. Non a caso, quando Lenin volle elencare le caratteristiche dell’imperialismo, con la sua acuta “intuizione” delle situazioni distinse nettamente tra lotta per la divisione del mercato mondiale tra grandi imprese dei diversi paesi capitalistici e conflitto (alla fine bellico) per la divisione delle sfere di influenza tra le poche grandi potenze capitalistiche (i cui colossi industriali e finanziari erano variamente intrecciati tra loro, in forme di alleanza e lotta reciproca che non ricoprivano affatto le stesse linee di demarcazione e guerra esistenti tra le varie potenze). Strano che certi critici del marxismo “comunistico” cadano bellamente nel più rozzo economicismo quando fa loro comodo.
Non ho mai pensato che dalle crisi, e nemmeno dalle guerre in sé e per sé, debbano derivare “processi positivi”; immagino (ma temo di sbagliare) che ci si voglia riferire ad autentiche rivoluzioni anticapitalistiche o che tali credono di essere, almeno nelle intenzioni più manifeste. Non a caso ho parlato, certo un po’ asetticamente (ma per iniziare a distinguere le varie situazioni), di rivoluzioni dentro o invece contro il capitale. Alla prima tipologia appartiene sia il New Deal (all’acqua di rose, che forse corrisponde meglio di altri processi al concetto gramsciano di “rivoluzione passiva”) che il nazifascismo, a mio avviso una vera rivoluzione, estremamente radicale, ma dentro il capitale e quindi anche dentro la sua ottica di espansione imperialistica e di forte aggressività per riconquistare le posizioni perdute in tema di sfere di influenza (vedi la corrispondente caratteristica individuata da Lenin).
Le socialdemocrazie sono sempre state portatrici di fenomeni eminentemente negativi e reazionari. Hanno contribuito a quel regolamento di conti che fu la prima guerra mondiale, hanno creato quel disordine e indebolimento della struttura sociale che ha aperto la strada alla vittoria del nazifascismo. Nel secondo dopoguerra, acciambellandosi ai piedi degli USA, hanno posto in atto una “rivoluzione passiva” onde resistere all’esempio che, in un primo tempo, sembrava venire dalla grande potenza presunta “socialista”. Poi, man mano che quest’ultima andò declinando, e soprattutto successivamente al crollo del “socialismo reale” e alla completa dissoluzione della sua ormai sbiadita mitologia, hanno ricominciato a creare – con particolare virulenza in Italia subito dopo il 1989-91 mediante quella “mala azione” denominata “mani pulite” – una situazione di totale putrefazione delle società capitalistiche più deboli (appunto con speciale riguardo al nostro paese), da cui sta originandosi sia stagnazione che impoverimento relativo, i quali potrebbero comportare infine nuove soluzioni violente e radicali; e che tuttavia non saranno, ancora una volta, contro bensì dentro il capitale.
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Quindi non sono ottimista circa la “crisi” che sembra venire avanti, non finirà bene. Proprio per questo – esattamente come l’antifascista Salvemini nel 1925 (lo abbiamo citato nel blog) – ritengo che il primo compito sia quello di combattere a fondo contro la putredine della sinistra falsamente riformista, contro il buonismo veltroniano, contro il “politicamente corretto” (in realtà corrotto e corruttore). Salvemini indicava questa infezione con i nomi di Giolitti-Turati; oggi si scelga pure a caso, va sempre bene. L’inganno di questa sinistra va svelato, senza cadere nel “pirlismo” berlusconiano, né nelle “belinate” del trio Casini-Fini-Bossi. C’è tutto un mondo da spazzare via; altrimenti, certo, da una possibile crisi non nasceranno “processi positivi”; la gente non ne potrà più e acclamerà “i barbari” che verranno a far “saltare le teste” di questi ipocriti che si fingono riformatori e progressisti. Fino ad un paio d’anni fa comprendevo, storicamente e razionalmente, come era nato il fascismo; oggi lo intuisco visceralmente, prima ancora di capirlo. Ed è purtroppo sempre la “socialdemocrazia” la sua “porta d’ingresso”, il detonatore che lo innesca! Sembra ormai una “legge storica” (so che non è così, ma lo sembra tanto).
Onde evitare fraintendimenti, mi sto riferendo alla funzione storico-sociale della socialdemocrazia (del sedicente riformismo che non riforma nulla, ma è al massimo una del tutto negativa “rivoluzione passiva” dentro il capitale); questo non impedisce che ci siano stati, e ci siano, dei personaggi di tutto rispetto all’interno di tale corrente. Dal punto di vista della “funzione”, a mo’ di esempio, non esito ad accettare l’espressione “il rinnegato Kautsky”; ciò non toglie che quest’ultimo sia stato un teorico e politico marxista di grande spessore, così come Hilferding o Bauer, il nostro Graziadei e moltissimi altri. Anche nella mia misera esperienza personale, ho incontrato socialisti o quei comunisti per me del tutto “revisionisti” (da me denominati piciisti), che tuttavia apprezzavo e stimavo molto in quanto persone, a partire dal mio maestro Pesenti e andando, che so, ad Antonio Giolitti e ad altri, anche fuoriusciti dal Pci, di fronte ai quali, come suol dirsi, bisognava levarsi tanto di cappello. Ricordo anche, per fare altri esempi – pur non avendoli conosciuti (e me ne rammarico) – persone di grande intelligenza e spessore etico-politico come Napoleone Colajanni, come l’ancora esistente Macaluso, come il senatore D’Alema, amico di Pesenti e vero esperto di finanza, che a mio avviso era di statura intellettuale (e intellettiva) nettamente superiore a suo figlio. Quando studiavo a Parma, ho conosciuto tanti comunisti (piciisti) emiliani della “destra amendoliana”, quasi tutti scomparsi, con i quali avevo rapporti di stima e affetto. Erano persone di una capacità e concretezza ammirevoli; li preferivo cento volte – anche come frequentazione personale – ai cosiddetti “ingraiani”, pasticcioni, chiacchieroni, arruffoni, una vera “peste bubbonica” (detto scherzosamente).
Ho preferito chiarire questo punto, perché è altrimenti facile non comprendere bene quello che veramente penso e sto dicendo.
6. Un tempo ero convinto – come del resto il mio Maestro francese, Bettelheim (e la scuola althusseriana in genere) – che l’Urss fosse in definitiva un capitalismo di Stato. Mi sembra però oggi una definizione assai poco soddisfacente. Peggio però ancora sostenere che si trattasse di un modo di produzione asiatico (tesi ormai molto invecchiata) o di un socialismo di mercato, o trarre altre conclusioni poco…..conclusive. Lascerei in sospeso la questione, visto anche che ormai quel socialismo è tramontato da un pezzo, assai prima di quando è crollato; anzi penso che non sia mai esistito se non nella speranza e nel mito cui tanti volevano credere.
In ogni caso, nella concezione marxista il socialismo, in quanto primo gradino del comunismo (“a ciascuno secondo il suo lavoro”) – o, come pensava un po’ più realisticamente l’althusserismo, quale lunga fase di transizione dal capitalismo al comunismo, fase in cui perdurava la “lotta di classe” e il risultato finale non era per nulla acquisito – non è affatto statalismo né cooperativismo. Quest’ultimo non può che ridursi alle Coop, a imprese tutt’affatto capitalistiche, magari con qualche privilegio in più sul piano fiscale. Quanto allo statalismo – sia nella versione hard, che è quella lassalliana, sia in quella soft, basata su un certo modo di intendere (non so quanto propriamente) Keynes – dà solo vita ad un ibrido che, alla lunga, spegne i cosiddetti animal spirits (dell’imprenditore
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“innovatore”), fa entrare la formazione sociale in fase di stagnazione o scarso sviluppo e determina la sua sconfitta rispetto al capitalismo vero e proprio. Guardando in particolare l’Urss, la sua arretratezza tecnica ed economica, causa prima della sua sconfitta nel confronto con gli Usa, era legata ad una struttura dei rapporti sociali che frustrava lo spirito capitalistico senza creare nemmeno un embrione di quella collaborazione “tra ingegnere e manovale” cui pensava Marx.
Per quest’ultimo, infatti, la Classe (operaia) non era quella che si è intesa poi (a partire da Kautsky), cioè le “tute blu”, bensì, come già rilevato, la ricomposizione tra potenze mentali della produzione (e direzione di quest’ultima) e attività di tipo più esecutivo. Il lavoratore collettivo produttivo era in definitiva un ritorno all’unione tra mente e braccio, tra saperi (tecnico-scientifici) e saper fare (abilità nell’eseguire), che caratterizzava l’artigianato di un tempo lontano; unione, però, ad un livello appunto collettivo, con il raggruppamento di vaste masse di lavoratori in ogni singolo processo produttivo e con il collegamento e intreccio cooperativo (non quello delle Coop) tra i molti processi produttivi di un intero sistema economico. Nulla a che vedere, quindi, con uno Stato che pianifica dall’alto, sotto la direzione di un ristretto apparato politico (partitico) fuso con quello più propriamente statale (i vertici dello Stato).
Per quanto mi riguarda, non ha più alcun senso formulare ipotesi “collettivistiche” come quelle appena considerate. In Urss, l’unico processo sociale che si è saputo innescare è stata la formazione di un blocco tra alti dirigenti dell’apparato partito-Stato (ivi compresi gli alti dirigenti dei Kombinat) e un ceto sociale operaio (nel senso delle tute blu), cui si garantivano bassi salari ma piena occupazione (senza licenziamenti) e ritmi lavorativi “stanchi” (proprio da “settore pubblico”!). Una società alla fine bloccata, che ostacolava e reprimeva ogni iniziativa di sviluppo, ogni tentativo di uscire dal mero vivacchiare. In condizioni simili, sono progressivamente venute a mancare le risorse necessarie a mantenere il ruolo di grande potenza. D’altronde, se l’Urss si fosse fin da principio ridotta ad un ruolo minore, di paese ripiegato nel mero sopravvivere, sarebbe fatalmente caduta sotto l’influenza dominante del capitalismo occidentale. La contraddizione non poteva che divenire in ogni caso insanabile, una volta finiti i primi decenni di grande spinta (favorita anche da una guerra di difesa nazionale). I maldestri tentativi di Gorbaciov – dall’“ultrasinistra” presi per rinnovamento del socialismo, mentre io scrissi già nell’autunno del 1986 che non ne sarebbe uscito nulla di buono, in ciò seguendo il mio Maestro Bettelheim – e poi l’aperta corruzione e il capitalismo selvaggio (gli “oligarchi” scatenati in una economia di pura rapina) promosso da Eltsin, hanno fatto il resto. Tutto è andato a catafascio; ed è bene così, non c’è da rimpiangere nulla di quel grigio e inerte “socialismo reale”. Se la scelta dovesse restare anche in futuro quella tra un simile modello di “socialismo” e il capitalismo, solo alcuni disadattati e mentecatti potrebbero preferire il primo.
7. Non ho letto in specifico le tesi anarco-capitaliste. Mi sembra comunque fossero un po’ più serie quelle anarco-sindacaliste, che già hanno fatto la fine cui andranno incontro, a mio avviso, anche questi cascami ideologici delle tesi liberiste, molto più consistenti, eppure anch’esse sempre più in difficoltà. Lasciamo sia la Storia a far giustizia di questi autentici sbriciolamenti e sbracamenti di un pensiero “molto debole” (e molto imbroglione), come di tutte le altre cianfrusaglie create da chi vive di mode (e ci fa anche dei bei soldi, ma nulla più che questo). Di tesi di tal genere, ce ne sono a iosa: quelle negriane (ogni due-tre anni questo personaggio se ne inventa una, con il suo “corredino” di soggetto o soggetti rivoluzionari), quelle della decrescita e dei “limiti dello sviluppo”, quelle delle “catastrofi ambientali” (che naturalmente ci sono, ma non credo abbiano il significato che certuni attribuiscono loro); e non so quante altre (c’è anche Capanna con la sua lotta contro gli OGM per cui riceve dalla nuova finanziaria prodiana due milioni di euro; incredibile!).
C’è solo da aspettare l’entrata in quella che ho definito epoca policentrica; poi, tutti questi furbastri, indubbiamente abili nello sfruttare la decadenza culturale (che proviene però da tare ereditarie antiscientifiche e antitecnologiche) di questo “pauvre pays”, faranno la fine che meritano; e chi li avrà seguiti, con la tipica arretratezza di certi “sinistri estremi”, verrà buttato al macero. Non perdo altro tempo con questi temi.
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Si tratta in effetti di una domanda più che sensata. E’ molto facile che si ripetano gli stessi errori di sempre, quelli anarcoidi dell’ 800 o quelli socialstatalisti del 900, ecc. Per non parlare della scarsa fantasia dei conservatori radicali, che rispolverano, nella sostanza, le tesi della “mano invisibile”, pur se con molti affinamenti (anche rilevanti e perfino teoricamente apprezzabili, ma che non mi sembra abbiano fatto fare veri salti in avanti). Non vi è dubbio che il cooperativismo (non nel senso del marxiano lavoratore collettivo cooperativo, ma in quello delle imprese capitalistiche in godimento di privilegi non più accettabili) o lo statalismo (hard o soft) sono sempre in agguato, perché al momento non pare si abbia intenzione di compiere veri sforzi per pensare il nuovo; del resto quest’ultimo ha bisogno di un humus adatto per attecchire, e questo sarà la temperie creata da un conflitto di crescente acutezza, da una lotta purtroppo tesa alla supremazia, ai fini della quale le innovazioni, anche teoriche, si riveleranno indispensabili. Finché si resta in un clima di farsa (recitata da guitti) non ci sarà alcuna novità; solo nella tragedia si formeranno “nuovi spiriti”. Abbiamo bisogno di Shakespeare, non dei talk shows o del “grande fratello”.
I vecchi di un tempo, quelli dell’antica saggezza contadina – guardando certi loro figli pronti solo al ballo, mentre magari incombeva una nuova invasione di insetti o di altri agenti fitopatogeni, o inondazioni o altri pericoli devastanti – scuotevano la testa e dicevano: “C’è bisogno di un’altra guerra”. Adesso, per carità, accettiamo questa frase in un suo significato solo metaforico; ma non nascondiamoci, per paura delle difficoltà, la sua capacità di cogliere l’essenziale. Se continuiamo a fare gli struzzi, la pagheremo molto più cara. C’è comunque pure bisogno di fare un bilancio, radicalmente sconsolato e negativo, di tutte le vecchie soluzioni, onde preparare il terreno a qualche effettiva novità. I maîtres à penser sono però pigri e continuano a pestare sul già pestato; e riciclano vecchie teorie riverniciandole e offrendole, da “Cagliostro” quali sono, ad una generazione senza memoria, che vive solo il presente. Ma non perdiamo altro tempo.
Considero sia il Campo antimperialista che gli “eurasiatici” dei sostanziali alleati nella contingenza attuale in cui si tratta di accelerare, per quanto possibile, l’entrata in un’epoca policentrica. Non mi interessa però diventare una sorta di succursale di movimenti in armi nei paesi sottoposti a dominio semicoloniale (comunque “imperiale”). Siamo in Italia, uno dei paesi del capitalismo avanzato “occidentale”, e che per di più credo sia in questo momento particolarmente subordinato agli Usa; quello italiano, quindi, è uno dei più grigi e impantanati capitalismi (sub)dominanti, infiltrato in un’Europa che già, di per suo, non brilla per volontà autonomistica e di indipendenza. Insomma, l’Italia – grazie al caos e sfilacciamento del tessuto sociale, al de-sviluppo, alla lotta tra gang finanziarie legate allo straniero, industrie di passate fasi innovative e oggi decotte, fazioni politiche di destra e sinistra del tutto inette e ormai sputtanate presso gran parte dell’opinione pubblica – è l’anello debole (non della catena imperialistica, per carità) di un’area a capitalismo (occidentale) avanzato ma incapace di liberarsi dalla sua dipendenza dagli Usa, vero capostipite di questa particolare forma capitalistica, da me provvisoriamente denominata dei funzionari del capitale.
Non è che ci siano molte probabilità di riuscita, ma comunque – sempre in base al famoso detto circa “il pessimismo della ragione ecc.” – qui siamo e qui dobbiamo combattere la battaglia per rovesciare o almeno spostare gli attuali equilibri politici interni, facendone motivo di pressioni varie su altri paesi europei affinché si affranchino da una situazione di (sub)dominanza in direzione di una effettiva indipendenza. Non si tratta di voler far passare certi paesi europei (a partire dal nostro) dall’alleanza (subordinata) con gli Usa ad una analoga posizione nei confronti di Russia o Cina, ecc. Ciò sarebbe impossibile, anche perché la società europea (politicamente, culturalmente, economicamente, ecc.) è assai più vicina – in quanto specifica struttura dei rapporti tra i vari raggruppamenti sociali – agli Stati Uniti che non, ad es., alla Russia (credo che ciò mi differenzi ad esempio dagli eurasiatici). La conquista di una maggiore autonomia non sarebbe certo conseguita con un semplice “passaggio di campo” in nome di una affinità geopolitica, a mio avviso inesistente. Tra noi e la Russia c’è certo contiguità e continuità territoriale, ma la storia sovietica ha creato un “capitalismo”
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(lo ripeto: per comodità continuiamo a chiamarlo così) di forma tale che esso è assai più lontano da noi di quello da cui ci divide l’Atlantico.
D’altra parte, la nostra indipendenza sarà certamente favorita dalla crescita di nuovi poli che si oppongano all’attuale monocentrismo statunitense, acuendo la conflittualità policentrica (uso preferibilmente tale termine al posto di “imperialistica”; ma nulla osta all’uso di questa espressione, basta intendersi). Non sarà certo la lotta degli iracheni o degli afgani a indebolire stabilmente il presente monocentrismo statunitense. Non saranno nemmeno Iran o Siria, ecc. E nemmeno gli improbabili “socialismi del XXI secolo” sudamericani (basta con queste scorciatoie ideologiche d’accatto!). Sarà invece la crescita di nuove potenze ad est, e l’eventuale ribaltamento dei rapporti di forza che tale crescita potrebbe infine determinare in Pakistan, a far entrare il mondo in quella fase policentrica che considero un processo eminentemente positivo, pur se comporterà senza dubbio pericoli e “gravi” momenti di brusca svolta. Vogliamo la pace e serenità di una (sub)dominanza, sempre più sub e sempre meno dominanza (e sempre meno “dorata”)? Restiamo acquattati sotto le gonne di “mamma Usa”. Vogliamo riprendere un camino di autonomia (che implica sviluppo e acquisizione di potenza, alla faccia degli inetti e ultranegativi pacifisti “senza se e senza ma”)? E allora dobbiamo avviare più pregnanti contatti con le future “potenze ad est”, sapendo però come muoverci e non immaginandoci una loro contiguità sociale e culturale, del tutto immaginaria. La geopolitica deve essere poco geografica e molto politica, il che implica la considerazione strategica delle strutture specifiche dei rapporti sociali nelle formazioni dei funzionari del capitale (del capitalismo “occidentale”) e in quelle del “capitalismo” russo, cinese, indiano, ecc.
10. Oggi credo di potermi considerare un pensatore di derivazione marxista. Mi affascinerebbe la prospettiva di redigere una globale reinterpretazione di Marx, autore che credo di conoscere come non molti altri; malgrado tutta la “filologia” ortodossa cui certuni si dedicano, sovente con grande sprezzo del ridicolo in cui cadono. Tuttavia, dato il tempo (“biologico”) che mi avanza, sono più interessato a piccoli spezzoni di un pensiero che credo abbastanza “originale” e soltanto, appunto, derivato da Marx. Inoltre, quanto più mi avvicino alla sedicente “soglia fatale”, tanto più mi sento lontano (e talvolta irritato) dai discorsi (inutili) sui “destini dell’Uomo” nei secoli dei secoli. Che ci si rivolga alla religione – in prossimità del Nulla – lo capisco, e posso perfino commuovermi di fronte ai disperati tentativi di credere alla prospettiva di una assai improbabile “altra vita” (e sono molto “delicato” ad usare il termine “improbabile”). Ma rimuginare su cosa accadrà a questa umanità (non Umanità) alla fin fine, potrebbe al massimo sollecitare la mia ilarità (se ciò che viene raccontato fosse dotato di senso dell’umorismo, una qualità di cui i filosofi, almeno quelli da me letti, mancano totalmente).
Ritengo di essere estremamente generoso verso le future generazioni se cerco di pensare, pur teoricamente, a quanto potrà avvenire fra al massimo un paio di decenni o giù di lì. Quindi, invece di pensare un sistema teorico in grado di “resistere al tempo” – con il che, tali sistemi si trasformano alla lunga in dottrine, adorate da assottigliantesi schiere di fedeli sempre più sclerotizzati – cerco dei principi teorici che mi consentano di pensare il futuro prossimo. Se poi tali principi, entro linee molto generali e perciò altrettanto generiche, mi sembrano riguardare tutte le forme sociali finora conosciute storicamente, ne provo piacere; ma un po’ come quando mangio una bella “parmigiana di melanzane” o una “carbonara”, che non sono essenziali per vivere ma danno soddisfazione al palato.
Premesso tutto questo, è ovvio che non sono interessato ad accapigliarmi sulle varie reinterpretazioni di Marx. Non mi interessa nemmeno riprendere l’annosa questione della discontinuità o meno tra il Marx “giovane” e quello “maturo”. Per quanto mi riguarda, ho sempre poco apprezzato i Manoscritti economico-filosofici (e simili), ho trovato una gran “rottura di palle” i Grundrisse, ho sempre “concentrato il fuoco” su Il Capitale (in particolare il libro I, l’unico redatto da Marx) e, in subordine, le Teorie del plusvalore; con anche un interesse spiccato per il ben noto Capitolo sesto inedito. Tuttavia, non intendo fare discussioni “teologiche” in merito. Non posso però negare che
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ritengo Marx un pensatore radicale, il cui interesse per la rivoluzione era del tutto evidente. Perfino il capitalismo è considerato precipuamente – fin dal Manifesto del 1848 – nel suo aspetto rivoluzionario. Da un certo punto di vista, il capitalista marxiano è come l’imprenditore schumpeteriano, la cui primaria funzione è l’innovazione (fenomeno decisamente rivoluzionario, di distruzione creatrice, quindi anche violento, perché non si distrugge con i “pannicelli caldi” ma con “il bisturi”); e senza innovazione non c’è nemmeno un vero imprenditore (quello routinario essendo un semplice amministratore “dell’esistente”), così come non c’è il vero capitalista ammirato da Marx.
Non è un caso che quest’ultimo pensasse l’avvento del comunismo come fenomeno cresciuto nel seno stesso del capitalismo e dovuto alla centralizzazione dei capitali che, da una parte, avrebbe comportato una enorme socializzazione delle forze e processi produttivi (con la già vista formazione al loro interno del lavoratore collettivo cooperativo) e, dall’altra, trasformato il capitalista (“che contribuisce a creare ciò che preleva in forma di plusvalore”, come si dice nelle Glosse a Wagner) in mero rentier parassita, una riedizione aggiornata del vecchio signore con il profitto che avrebbe assunto la forma dell’interesse e che sarebbe stato, nella sostanza, una rendita (non più terriera ma finanziaria). Il fatto che Marx, com’era logico a quel tempo, si sia concentrato sulla proprietà (dei mezzi produttivi) quale fulcro del capitalismo ha provocato la sua (ormai storicamente smentita) credenza della trasformazione del capitalista in mero rentier, con putrefazione delle forze produttive dovuta alla dominanza di questa similsignoria parassitaria; e ha poi originato, negli epigoni, l’ancora più errata trasformazione della proprietà, in quanto reale potere di controllo, nel suo aspetto formalistico, giuridico; si è così introdotta l’ideologica coppia privato -pubblico, che ha condotto a confondere il socialismo con la mera proprietà statale (mutando inconsapevolmente il marxismo in lassallismo, bestia nera di Marx!), causa decisiva della progressiva degenerazione della “costruzione” sedicente socialistica fino alla sua drastica (dis)soluzione del 1989-91.
Partendo dall’originaria concezione marxiana, onde evitare la degenerazione appena considerata, ho in fondo – ma con tanta (fin troppa) prudenza e procedendo senza dubbio, almeno per un lungo periodo di tempo, con eccessiva titubanza – compiuto una piccola “mossa teorica”. Ho messo sullo sfondo la proprietà – che a volte nemmeno sussiste (ad esempio, nel capitalismo manageriale di cui parlava Burnham) ma, anche quando ha rilevanza, è pur sempre aspetto secondario (una sorta di scudo protettivo) – e in primo piano invece la centralità della funzione (e dunque applicazione di razionalità) strategica, ai fini del conflitto per la supremazia, in quanto autentico carattere del capitalista o dell’imprenditore innovatore. Il fine precipuo non sarebbe quindi il (massimo) profitto – e dunque la funzione (razionalità) strumentale, quella del minimo mezzo, tesa a massimizzare l’efficienza (economica), la differenza tra ricavi e costi – bensì la più alta efficacia nel perseguire lo scopo della preminenza, dell’allargamento delle quote di mercato come quello delle sfere di influenza come l’ambito della egemonia culturale. Nel capitalismo, il profitto è fine per il dirigente della produzione – che non è l’effettivo agente capitalistico dominante (il funzionario del capitale) – mentre quest’ultimo è in senso proprio lo stratega: che sia proprietario oppure no, che guidi un’impresa produttiva o una finanziaria; o anche un apparato politico (in primo luogo dello Stato) o ideologico-culturale., ecc.
Tale cambiamento di prospettiva mi sembra utile per combattere ogni forma di semplice economicismo: per cui si ritiene, sempre e comunque, che chi “ha i soldi” comanda chi “fa politica o cultura”; invece, esistono mutevoli congiunture storicamente specifiche, in cui i rapporti di forza, tra gli agenti posti nei differenti ruoli delle varie sfere della società, assumono configurazioni diverse, che vanno analizzate quasi caso per caso. La centralità delle strategie (e dei loro agenti) è in realtà carattere generale di ogni formazione sociale apparsa nella storia dell’umanità; quella capitalistica si distingue dalle precedenti perché tale funzione predominante è “penetrata” nella sfera economica; da ciò deriva la competizione tra diverse unità produttive nel mercato, la duplicazione del prodotto in merce e denaro con la nascita e crescita (spesso abnorme) del ruolo della finanza, ecc. (non posso qui dilungarmi in analisi da me condotte più volte). Ovviamente, è appena il caso di ricordare che questa caratteristica speciale del capitalismo lo ha reso capace di performances conflittuali ben più
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dinamiche (e gigantesche) di ogni altra formazione sociale, le ha meglio alimentate – pur andando incontro a periodici grossi ingolfamenti produttivo-finanziari, simili a fenomeni di “grave indigestione” dell’organismo – consentendogli di prevalere su forme societarie precedenti e su quella che pretendeva di sostituirlo, dimostrandosi però alla lunga incapace di fornire risorse sufficienti a mantenere la potenza necessaria ai fini dello scontro per la supremazia mondiale.
La “mossa teorica” in questione non può ovviamente non “far uscire” dal marxismo tradizionalmente inteso. Ho già detto del superamento del mero economicismo, senza che questo venga sostituito semplicemente dal politicismo o dal mero culturalismo; i funzionari (agenti) capitalistici strategici delle più diverse sfere sociali si trovano in stretto intreccio nella loro azione di dominanti; non si può decidere, se non di volta in volta, quali sono quelli che assumono, nella congiuntura data, le posizioni (ruoli) preminenti. Inoltre, questi dominanti sono sempre suddivisi in gruppi fra loro in lotta per il predominio supremo; per lunghe fasi storiche (anzi le più lunghe), la storia è soprattutto “racconto” dei loro scontri. Solo in particolari contingenze di grave conflitto tra di essi, tale da creare lo sfilacciamento del tessuto sociale complessivo, questo si rompe in determinate “maglie”; e, da questi punti di rottura, irrompe la rivolta dei dominati, che consegue risultati di notevole ampiezza e durata se è diretta da agenti strategici consci dei compiti rivoluzionari di quella congiuntura, da essi analizzata o anche solo “intuita”.
Intestardirsi sullo sfruttamento, cioè sull’estorsione di pluslavoro ai dominati – nel caso specifico del capitalismo, insistere sul conflitto capitale/lavoro per la distribuzione del prodotto/valore creato – è stato il motivo fondamentale della inanità del movimento detto “comunista” e della sterilità della “teoria marxista” (una mera dottrina invece) da questo brandita; la “Classe” (ridottasi, dopo tante sconfitte, a drappelli di sciagurati “fuori di testa”) è stata buttata allo sbaraglio come sarebbe stato di una tribù di “primitivi”, armata di archi e frecce, scagliata contro una truppa dotata di mitragliatrici e fucili a ripetizione. Questo non significa svalutare l’azione sindacale – che deve però essere liberata dalla direzione di vampireschi apparati che fanno prosperare alcune migliaia di funzionari (nel senso di burocrati) sulla pelle dei “lavoratori” – ma riconsegnarla al suo vero ruolo di giusta lotta redistributiva, in cui nessun segmento del lavoro (di qualsivoglia tipo) va “santificato” mentre altri vengono criminalizzati; la lotta dei camionisti è tanto legittima quanto quella dei metalmeccanici! Ma tale lotta non c’entra nulla né con la rivoluzione né con le “riforme di struttura” né con altre bestialità e menzogne raccontate da semplici mestatori, che su di esse vivono senza lavorare e produrre alcunché. E’ una giusta lotta, nel cui ambito i “mille” gruppi sociali che la dinamica conflittuale capitalistica crea – sia nel suo aspetto “orizzontale” che in quello “verticale”, poiché è fallita la previsione della creazione di sole due classi fondamentali in conflitto, che avrebbe infine innescato la trasformazione del capitalismo in socialismo e comunismo – si affrontano, ciascuno per migliorare la “fetta di torta” da “mangiare”. Punto e basta.
C’è un elemento decisivo però nel punto di vista che prospetto: non si deve pensare di poter mai eliminare il conflitto (nemmeno quello più netto ed aspro), che è elemento decisivo della dinamica sociale. D’altra parte, ciò rispetta anche la credenza che lo squilibrio, i differenziali di potenza, la lotta (e non soltanto tra due poli, ma assai più complessa e multipolare), sono il fondamento della vita dell’organismo societario, impedendo che venga infine raggiunta l’entropia massima, cioè una sorta di “morte termica”. Il conflitto può essere, in casi speciali, causa di disgregazione e disfacimento; in linea generale, tuttavia, esso produce movimento interno e dà vita talvolta, dopo una fase storica di transizione, a una nuova forma dei rapporti sociali. Non si tratta dunque, salvo che in casi particolari, di un processo meramente distruttivo; rappresenta invece la vitalità di una società, il suo andamento neghentropico, precipitando poi periodicamente in un brusco punto di svolta (la singolarità “catastrofica”), che apre nuove direzioni di movimento. Senza conflitto e squilibrio, un sistema sociale rischia di cadere infine in un plumbeo grigiore, nell’assenza di un futuro; in ogni caso, mi sembra che sia ormai così, irreversibilmente, nel mondo moderno.
Non credo che Marx pensasse a questo tipo di società – armonica e quindi inerte – quando parlava di comunismo; egli indicò di quest’ultimo alcuni caratteri molto generali (e generici), ma si ri-
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fiutò di troppo discettare sulle “ricette per la cucina dell’avvenire”. Sono stati i comunisti successivi a vedere bella una società di tanta “eguaglianza” da spegnere ogni spinta al nuovo, che sempre si origina dalla tensione squilibrante e dalla lotta tra forze diseguali. Per non parlare dei desolati avanzi della “delusione comunista” che oggi si buttano su tutti gli “equilibri” possibili; tra Uomo e Natura, tra gruppi sociali che dovrebbero “raffreddare” il dinamismo tipico del capitalismo, ricreare una sorta di “flusso circolare”, una “armonia prestabilita” che è la vera morte di ogni individuo e del suo “essere” politico e, in quanto politico, sociale. Certo che la politica, nella sua azione pratica, anche per lunghe fasi storiche, è ricerca di punti di equilibrio, di mediazioni, di smussamento dei più acuti contrasti, ecc. Ma questa azione, per quanto a lungo duri, ha sempre come retroterra, come sottofondo, il conflitto e la lotta; altrimenti, senza questi, perché ricercare mediazioni e accordi sempre mutevoli e temporanei? Prima o poi, si arriva al dunque e il conflitto esplode acuto, con l’impiego della violenza.
Gli sciocchi, appena sentono questa parolina, pensano subito a uccisioni, distruzioni immani, azzeramenti di civiltà. Non è affatto così; simili eventi negativi si verificano anzi quando si è troppo compresso il conflitto, per favorire ristretti gruppi dominanti solo conservatori, privi di spinta e innovazione (come ad esempio nell’Italia odierna). La violenza è più spesso vita, origine della novità (appunto: la distruzione creatrice, che implica una violenta rottura perfino con l’idea, con l’intenzione, del flusso circolare, cioè con la morte, lo spegnimento degli “spiriti vitali” di ogni uomo degno di esistere). Ora, come ho già detto, anche per lunghe fasi storiche è possibile che si “rattoppi” la situazione, che si cuciano gli strappi, che si svolga continua opera di mediazione, ecc. In tali fasi storiche, la politica, in quanto attività pratica, sembra preferire l’affievolimento delle contraddizioni, degli squilibri, dei differenziali di potenza. Sempre, però, cova il fuoco sotto la cenere; e sempre il fuoco (della brusca rottura con la tradizione e le abitudini inveterate, dell’innovazione rapida come un “giro del caleidoscopio”) tornerà a divampare. Nell’azione pratica è giusto che si abbiano queste alternanze; sarebbe ridicolo pensare ad una “rivoluzione continua”, ad un disordine e squilibrio permanenti che sfibrano e società e singoli individui. Nella teoria però – che è la condensazione, la precipitazione, nel pensiero dell’esperienza storico-pratica dell’umanità – sarebbe del tutto negativo, e sintomo di approssimazione e atteggiamento antiscientifico, seguire la stessa alternanza. La teoria non può conoscere simili tatticismi, non può transigere sui “principi”; perché questi non sono semplici “imperativi categorici”, bensì l’educazione delle successive generazioni mediante trasmissione dall’una all’altra degli elementi decisivi della pratica: quelli non congiunturali, non di semplice adattamento alla particolarità (con l’alternanza sopra vista) delle situazioni, bensì quelli che, più in generale, caratterizzano la storia delle società.
Per quanto abbia affermato, e lo ribadisco, che non è mia intenzione formulare teorie, di cui si ipotizzi la validità senza riferimento alla temporalità, bensì invece solo quelle che spingano le loro possibili previsioni non oltre pochissimi decenni, sarebbe tuttavia scorretto che usassi tatticismi per smussare quella radicalità rivoluzionaria, che a mio avviso è la migliore caratteristica dell’elaborazione marxiana e che è invece mia intenzione recuperare e mantenere viva. E’ quindi evidente che non mi appartengono le reinterpretazioni di quel pensiero, o socialdemocratiche o liberal-socialiste, che espungono dal discorso proprio la sua radicalità, che raccontano – a mio avviso – fole sull’equilibrio (ovviamente “democratico”, questa bella parolina usata sempre per mascherare il predominio proprio dei più prepotenti in assoluto) e sull’armonia tra classi e raggruppamenti sociali. Nell’azione pratica, sconsiglierei chiunque dallo scatenare violenze cieche senza compiere un’accurata analisi, la più obiettiva possibile, delle potenzialità di cambiamento insite in quella data fase. Dal punto di vista della teoria, denuncio però l’inganno, mortuario, delle tesi che sostengono l’equilibrio, la (finta) eguaglianza, l’assenza di differenziali di potenza.
La violenza – quella che è vita, quella che costruisce il nuovo, ma non in continuazione, bensì per scatti, per momenti (singolari) di brusca svolta – è sempre all’opera sullo sfondo; e sempre, alla fine, si farà strada nelle improvvise precipitazioni che conosce la storia dei conflitti intergruppi (in specie interdominanti). In questo consiste non la mia mera reinterpretazione di Marx; il netto cam-
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biamento invece del punto di vista tipico di quella teoria con recupero, tuttavia, della sua radicalità rivoluzionaria. Un riorientamento teorico, dunque, ma che vuol trasmettere ai più giovani la necessità della rivoluzione, della violenza come costruzione di novità e riapertura delle prospettive in una società attualmente bloccata, una società di “morti viventi”. Nessuna vocazione all’uccisione. Dirò anzi di più.
11. Chi fa sfoggio di radicalità deve proprio rispettare – come concreta, empirica, individualità – il “nemico”, deve perfino riconoscerne la positività, dato che è uno dei poli di quel conflitto che spinge in direzione del nuovo. Siamo però sinceri, ci sono periodi storici in cui i “nemici” sono – appunto empiricamente – personaggi di infimo grado e fortemente parassitari; e quanto più lo sono, tanto più diventano repressivi e feroci, al di là del fatto che usino “olio di ricino” o invece di “vaselina” (che è precisamente la falsa “democrazia”, meramente elettoralistica, in quanto foglia di fico di una oppressione sempre più devastante). In certi casi dunque, e solo per reazione di fronte all’oppressione e sopraffazione, la violenza può anche esplodere con tendenza all’annientamento del “nemico”; tuttavia, bisogna ridurre al minimo tale reazione, e uscire il più presto possibile da essa; altrimenti si degenera rapidamente. Chi invece confonda, proprio in linea di principio, la violenza con la mera uccisione del “nemico”, prima ancora che un criminale (un assassino) è un vero imbecille. Per comprendere certi personaggi, che hanno infestato gruppetti sedicenti rivoluzionari negli ultimi decenni, è sufficiente leggere I Demoni di Dostojevskij.
Non ho proprio nulla a che vedere con individui cupi e tenebrosi del genere, da me sempre disprezzati; e anche guardati con sospetto, perché mi riesce difficile credere che si possa essere così trogloditi. Lo ribadisco con forza: la violenza (rivoluzionaria) – scusate se mi ripeto: la “distruzione creatrice” – è vita, è nascita (del nuovo), non è affatto il trionfo della morte, del mero “radere al suolo”. Chi semplicemente annienta non ama la vita, non persegue alcuna innovazione, desidera soltanto distruggere perché odia tutto (e tutti). Alla larga da tipi simili. Per quanto ne so, il potere sovietico, appena instaurato, li ha trattati come andavano “trattati”. La radicalità rivoluzionaria non persegue il caos e la disgregazione del tessuto sociale: questa è la caricatura che ne fanno gli avversari, purtroppo alimentata e confermata oggi dal comportamento della maggioranza degli appartenenti ai sedicenti “movimenti”, alle “moltitudini” (decerebrate). Chi è per la rivoluzione desidera comunque giungere, tramite il più breve passaggio possibile attraverso il disordine, ad un ordine nuovo, che però sarà sempre un ordine “sostenuto” da nuovi conflitti, da nuovi differenziali di potenza. Il problema è solo: chi giungerà prima ad approfittare di una congiuntura che si facesse “esplosiva”? I rivoluzionari dentro o contro il capitale? Non do risposte, pur se il mio pessimismo è grande.
E qui torniamo all’inizio. In ogni data epoca X, pessimismo od ottimismo che imperi, chi sceglie d’essere contro quelle specifiche forme di oppressione, prevaricazione, sopraffazione – che la caratterizzano – dovrà situarsi entro la particolarità del conflitto che si svolge nel suo tempo, analizzando la struttura dei gruppi sociali (dominanti, dominati, usando termini generici) in lotta. Ben sapendo che la società non ha concretamente una struttura, è eminentemente “fluida”; chi è “contro” deve dotarsi di categorie teoriche – dette interpretative ma in effetti più che altro costruttive e mai prive di una robusta innervatura ideologica – che sono la sintesi (dunque la semplificazione) di una potenziale azione pratica (politica) da svolgere per utilizzare le supposte contraddizioni a certi fini di innovazione, con brusca svolta, nell’ambito della situazione esistente (sempre in base alle ipotesi fatte) nell’epoca in questione. Non è facile, né tanto meno automatico, il passaggio dalla “teoria” alla “prassi”, cioè dalla potenzialità (azione nella teoria) alla sua attuazione (azione nella pratica politica). E’ però quello che tenta di fare ogni “teorico” che non persegua solo fini “accademici”, non dedito al rarefatto pensiero tipico di ristrette chiesuole, composte da adepti iniziati ad un qualche esoterico linguaggio.
Non so se riesco ad essere un “teorico” del genere. Marx però lo era; Lenin nemmeno discuterne. I (pseudo)marxisti attuali, poveretti, sembrano rintronati. Credo siano in buona fede e solo rovi-
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nati dalle esigenze o di fare comunque un minimo di carriera accademica o di non rinunciare a quella fede che riscalda un po’ i cuori in quest’epoca così fredda e decadente. Comunque, sono convinto che sia bene buttarli al macero e consigliare i più giovani di non seguirli; solo per mantenere un po’ di dignità di pensiero e non ridursi a quei livelli di superfluità e sterilità. I “grandi” del passato (di altre epoche X-Y, X-Z, ecc.) vanno studiati, compresi, ma inquadrati appunto nel loro tempo storico, recuperando solo quello che usiamo indicare come lo “spirito” (non la “lettera”) delle loro (elabor)azioni teoriche. Lo “spirito” di Marx era la radicalità rivoluzionaria, la condensazione teorica della violenza da utilizzare poi nella pratica politica in quanto leva della brusca svolta da imprimere alla “realtà”, come lui riusciva a vederla e a (credere di) interpretarla, mentre invece la costruiva appunto a certi fini pratico-politici. Utilizziamo questo “spirito” in quest’epoca X, così come in futuro, in epoche X+Y o X+Z, ecc., faranno altri continuando a trasformare radicalmente le loro teorie di riferimento.
Questo è tutto; mi scuso per la lunghezza dello “sbrodolamento”.
*** Ovviamente, Brecht intendeva dire qualcosa di diverso. Tuttavia, a me sembra che tale testo risponda anche alla domanda circa il perché si devono fare certe scelte; e, quando sono fatte, si deve capire che ne discendono certe conseguenze (che la poesia lascia implicite, ma sono comprensibili). Queste vanno accettate come compito imprescindibile, inderogabile; perché questa è l’etica del fare; e del fare per (tentare di) mutare “il mondo”, perseguendo ciò che ci pare giusto; sapendo però di quanta ingiustizia si colorerà nuovamente il futuro e che si dovrà sempre ricominciare: solo da un diverso (non so se più avanzato o meno) punto di partenza.
Mio figlio mi chiede: devo imparare la matematica? Perché, vorrei rispondergli. Che due pezzi di pane sono più d’uno
te ne accorgerai egualmente.
Mio figlio mi chiede: devo imparare il francese? Perché, vorrei rispondergli. Quella potenza declina. E basterà tu ti passi la mano sul ventre, gemendo,
che ti si capirà.
Mio figlio mi chiede: devo imparare la storia?
Perché vorrei rispondergli. Impara a nasconderti in terra col capo,
e forse sarai risparmiato.
Si, impara la matematica, rispondo,
impara il francese, impara la storia!
Impariamo anche noi, senza retorica, sapendo che non finirà mai la fatica di “cambiare il mondo”; e senza mai che questo mondo diventi come vorremmo. Impariamo però, anche, a riconoscere coloro che sulla nostra ansia di giustizia imbastiscono il loro inganno e ne approfittano per fare le loro soperchierie. Appena si può, si deve combatterli per batterli. Dopo ne ritorneranno altri; ma ci penseranno altri, venuti dopo di noi, a fare una nuova temporanea giustizia. Ogni volta che è possibile, nella storia, ci si ribelli con energia. E’ come quando un bel temporale rompe l’afa estiva, quel torpido umidore infuocato. Per qualche giorno, si respira; dopo ritorna l’oppressione, e si agognerà il prossimo temporale. Non credo ci siano altre alternative. Quando però si “incappa” nell’ 89 francese o nei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, pur rischiando di rimetterci la vita, ci si può a
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mio avviso ritenere fortunati; ovviamente, lo sono di più quelli che sopravvivono e si mettono a lavorare per un nuovo ordine.
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