DOMINANO LE CHACCHIERE DEI FILOSOFI NON LA FINANZA
I critici più superficiali (la maggior parte) dei sistemi capitalistici (parlo di sistemi al plurale perché non esiste il capitalismo al singolare, essendo questo rapporto sociale differenziato per zone geografiche e scarti di potenza, anche se gli aggregati particolari, paesi e aree di paesi, condividono i suoi “precipitati” storicamente più dinamici come la forma-impresa o quella mercantile; e chissà, inoltre, se la stessa definizione di capitalismo risulti ormai esaustiva per cogliere la nostra modernità) sono convinti che siamo entrati in una fase irreversibile di finanziarizzazione dei processi sociali.
Il predominio della finanza apolide, guidata da un’élite di banchieri senza patria, ha invaso ogni sfera dell’agire collettivo modificando persino il patrimonio antropologico degli individui. In questa dimensione fantastica ma rozza, immaginata da pensatori senza pensiero, tutto risulta mercificato e ridotto ad oggetto di scambio, anche il sangue e la carne degli uomini. Sono sciocchezze di imbroglioni che non hanno capito nulla del mondo in cui vivono. Possiamo idealmente suddividere la società in cui esistiamo in tre sfere: economica (produttiva e finanziaria nel capitalismo), politica (con il suo prolungamento bellico), ideologica-culturale. La realtà in cui gli individui agiscono non è statica ma è flusso continuo. La realtà è getto incessante, pertanto è lo squilibrio la sua unica “costante”. Gli individui non possono immergersi direttamente in questo scorrimento continuo altrimenti sarebbe spazzati via e, comunque, ridotti all’inazione. Come scrive La Grassa la realtà è movimento di cui supporre parti in relazione interattiva fondata sul conflitto a causa dello squilibrio sempre attivo. Lo squilibrio è a fondamento del (è soggiacente al) conflitto strategico. Gli attori sono maschere di rapporti sociali configurati dal conflitto, ma comunque essi agiscono sempre nell’ambito di detti rapporti e quindi non possono non sentirsi “soggetti attivi”. Per agire hanno bisogno di fissare stati di quiete, quindi campi di lotta in cui sviluppare le loro strategie. Lo svolgimento di strategie è politica; lo è nella sfera detta politica (Stato e suoi apparati, partiti e lobby, associazioni nate per influenzare la lotta in tale sfera, ecc.), nella sfera economica (imprese che si confrontano nel luogo denominato mercato), in quella ideologico-culturale (con i vari apparati che la caratterizzano e i suoi particolari ambiti e metodologie di confronto-scontro). Noi trattiamo, sempre per scopi pratici, lo Stato come un “soggetto”, ma in realtà in esso si confrontano vari centri di elaborazione di strategie in urto fra loro. Lo stesso vale per le imprese, trattate abitualmente quali entità unitarie, mentre il vero fulcro di tale loro unitarietà si situa nei centri direzionali di vertice addetti all’espletamento della politica (strategie per il conflitto), dalla quale deriva la funzione di attori da esse esplicata nel mercato. Lo squilibrio spiega il motivo per cui, malgrado i desideri e le aspirazioni degli umani, il conflitto (con il corredo delle strategie, cui è subordinata la razionalità del minimo mezzo) è l’elemento dominante nelle azioni dei “soggetti” (individui, gruppi sociali, formazioni particolari), mentre la cooperazione esiste solo in quanto funzionale alla lotta. Lo squilibrio situa ogni “soggetto” in posizione dissimmetrica rispetto agli altri quanto a rapporti di forza, generando reazioni tese a recuperare la simmetria. Ogni alterazione dell’equilibrio, che i “soggetti” si erano illusi di stabilire, suscita subito sospetti, diffidenze; si pensa immediatamente che l’altro, o gli altri, abbiano agito subdolamente, per raggiro, non mantenendo fede alla propria parola, ecc. E si pongono in essere le contromisure. Poiché questo avviene incessantemente, senza sosta, alla fin fine, in nessun momento dato, vi è un qualche “soggetto” che agisca con sincerità, in modo aperto; ognuno ha dal suo punto di vista ragione a vedere nell’altro (negli altri) solo falsità e menzogna, sorriso e disponibilità all’accordo mentre si preparano pugnalate alle spalle, per cui ognuno è convinto di stare agendo per semplice contromisura, di essere pienamente giustificato nel comportarsi secondo le stesse modalità di ogni altro. Naturalmente, si cercano le alleanze (sempre aperte allo scioglimento e a possibili cambi di campo) per premunirsi da quelle che vengono avvertite come congiure di nemici in combutta tra loro; i quali si adoperano ovviamente nello stesso senso per i medesimi motivi e preoccupazioni. I “soggetti” in interazione conflittuale, “causata” dallo squilibrio, non sono semplicemente i gruppi sociali; e questi ultimi non sono le classi disposte in verticale (dominanti e dominati, oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati, ecc.) secondo un pensiero semplicemente, e semplicisticamente, duale. I “soggetti” sono, come sopra già segnalato, gli individui nei gruppi, i gruppi nelle formazioni particolari (paesi o aree a “struttura” considerata sufficientemente omogenea), queste ultime nell’arena globale, cioè nella formazione mondiale.
Detto ciò non è mai possibile stabilire a priori la supremazia di una sfera sociale sull’altra perché è la stessa lotta per la supremazia, in ogni sfera sociale, l’elemento determinante. Questa lotta è lotta di strategie politiche, anche quando non avviene nella sfera detta politica. In ogni caso, possiamo però stabilire una predominanza relativa della sfera politico-militare sulle altre proprio perché il conflitto portato al suo più alto livello attiene agli Stati e a gruppi che agiscono in esso. E’ il conflitto per la preminenza geopolitica che richiede un coordinamento ed uno sforzo direzionato di tutti i settori sociali verso quell’obiettivo.
Poiché i finti critici o i falsi filosofi non sono in grado di assurgere a simili capacità astrattiva, che è propria della scienza, si lasciano abbacinare da una delle specificità del/i capitalismo/i. Questa specificità, come scrive ancora La Grassa, consiste in ciò: In una società di scambio mercantile generalizzato, i “giochi” intorno all’equivalente generale delle merci si autonomizzano, sembrano svilupparsi a parte, staccati dal contesto complessivo della produzione di merci. In questo contesto empirico-concreto, si rischia di perdere di vista la storicità del(i) capitalismo(i) e di tornare a concezioni generiche e a-storiche (cioè a-specifiche) circa il predominio di chi possiede ricchezza; concezione, fra l’altro, assai superficiale perché il potere è sempre stato di chi occupava, nell’organizzazione dei rapporti sociali, posizioni in grado di esercitare la forza o la preminenza ideologico-culturale, ecc. In ogni caso, nessun capitalista ha la preminenza sociale solo in virtù del controllo della ricchezza finanziaria. A ben vedere, del resto, queste sono ancora oggi le concezioni dei critici (imbelli) del capitalismo che, ad ogni crisi dello stesso, si scagliano contro la finanza, in ciò facilitando il gioco dell’ideologia dominante, ben adusa a sostenere tali emerite idiozie, dando addosso ai finanzieri “cattivoni” additati quali veri responsabili della crisi, magari mandandone perfino qualcuno in galera o comunque consegnandolo al ludibrio delle genti così che, quando poi il capitalismo si riassesta, si possa tornare a parlare dei meriti di questa forma di società, dei meriti di coloro che la dirigono “onestamente”, “eticamente”…. non è la finanza l’aspetto decisivo del (dei) capitalismo(i). …La storia della società ha sempre conosciuto tali conflitti; per un lunghissimo periodo questi hanno interessato la sfera politico-militare e quella ideologico-culturale. Con l’affermarsi del capitalismo, si è avuta l’estensione del “gioco” alla sfera economica suddivisa, nel mondo della forma di merce generalizzata, in produttiva (in senso stretto e della vendita mercantile) e finanziaria. Le dispute in questa sfera hanno finito per prendere il davanti della scena obnubilando alla vista i rapporti di forza sostanziali, i quali, ormai, si segnalano quasi esclusivamente come lotte per l’accaparramento di ricchezze. Ma il denaro è strumento e non fine delle logiche conflittuali, le sue proiezioni luccicanti sono utili proprio a confondere gli occhi rispetto ad una realtà più profonda e meno epidermica di quella del mercato. Difficilmente i filosofi potranno mai cogliere la grandezza di simili argomenti, loro più che altro discettano e non ragionano.