DUE VECCHI SCRITTI SULLA CRISI.

Previsione del futuro (2)

Previsione del futuro (2)

 Dipinto di P. Audia, Previsioni del futuro

Desidero ripresentare due articoli scritti nel 2008 (quando il nostro blog era Ripensare Marx), anno d’inizio della crisi che perdura tuttora. Desidero mostrare quante previsioni da noi fatte all’epoca fossero ben azzeccate. Non tutte, logicamente. Tuttavia, noi non abbiamo sponsor, nessun finanziamento; né decine di “tecnici” (per lo più inetti) o centri studi a disposizione per rincretinirci il cervello con le loro panzane. Leggete quante ideuzze nient’affatto male erano già allora spuntate nei nostri cervelli. E si confronti quanto qui sostenuto con le panzane di cui sopra.

 

 

SULLA CRISI E ALTRO (1° marzo 2008)

 

Il blog ha riportato spesso le previsioni del Leap sulla crisi in corso e sui suoi sviluppi, previsti come gravi a breve termine. D’altronde, 2-3 giorni fa, il direttore (o presidente) della Fed (la Federal Reserve), contraddicendo di fatto Bush, ha ammesso che nei prossimi mesi falliranno alcune banche americane (pur se si è premurato di dire che non si tratterà dei massimi istituti finanziari) con riflessi recessivi comunque di rilievo. Se arriva a dirlo lui, si può essere certi che sono molto vicine al vero (anche se non bisogna mai giurarci sopra) le previsioni di una crisi più grave delle altre verificatesi dopo la seconda guerra mondiale.

Interessante del Leap è la previsione di decoupling (traduciamo “disaccoppiamento”) delle economie europee e asiatiche rispetto a quella predominante degli Stati Uniti. In un recente articolo su Repubblica (non ricordo, lo ammetto francamente, se di Turani o Pirani), si sosteneva che, in un processo del genere, si sarebbero verificati andamenti proprio diversi e quasi opposti tra le due aree in questione, come se Europa ed Asia potessero continuare nel loro sviluppo attuale (veramente quello europeo è già da qualche anno un “tran-tran” di tipo stagnazionista) mentre gli Usa arretrano. Il Leap fa invece un’altra previsione: la crisi americana non potrà non investire con i suoi negativi effetti l’intera economia mondiale, ma si instaurerà un processo che favorirà una progressiva autonomizzazione delle altre aree rispetto a quella statunitense.

Pur se il Leap è anch’esso, tutto sommato, invischiato in una concezione prevalentemente economicistica, le sue previsioni di fatto confermano quanto noi andiamo sostenendo dalla creazione del blog: si sta progressivamente entrando in un’epoca policentrica, in cui si accentueranno gli scontri – diciamolo in termini generici – di carattere geopolitico. Il problema non è comunque di tipo prevalentemente economico; l’economia (e le crisi che in essa cominciano ad aggravarsi) manifestano appunto (“fenomenicamente”) le correnti più “profonde” (di crescente scontro geopolitico) che stanno attraversando sempre più impetuosamente il globo. Al posto della sedicente globalizzazione mercantile (tipica sciocchezza delle correnti liberiste, ma anche di tante “sinistrorse”), si sta affermando la globalizzazione dello scontro tra formazioni particolari (che, alla faccia di tutti quelli che parlavano fino a un anno fa o poco più di fine degli Stati nazionali, sono ancora i paesi e le nazioni) nell’ambito di quella complessiva mondiale.

Se quanto detto è vero – e noi lo riteniamo ormai tale – ci sono molti dubbi che l’area europea sarà interessata da questo decoupling; verrà invece investita in pieno dall’onda d’urto proveniente dagli Usa e, almeno nel breve periodo, vedrà accentuata la sua subordinazione. Anche la Russia (la cui economia è ancora troppo centrata su gas e petrolio) e la Cina (abbastanza invischiata finanziariamente con gli Usa) verranno investite dalla crisi. Tuttavia questi paesi (credo in misura molto maggiore che non l’India) hanno effettive possibilità di mettere in moto il processo detto di decoupling (nella versione soft del Leap, non in quella de La Repubblica). In questi paesi ci saranno senz’altro crisi sociali interne, malesseri, perfino qualche rivolta; fenomeni “normali” nella misura in cui si è affermato in essi (in specie in Cina) uno sviluppo impetuoso che non potrà mai essere (per sua natura) – se non nelle stolte ideologie dei “sinistri” – una armonica avanzata generale della società, ma avverrà sempre con forti squilibri, tipici di quando ci si lancia in avanti con determinazione, dato che l’alternativa non è l’armonia bensì la massima “entropia”, la “morte termica”, cioè la stagnazione e la disgregazione del tessuto sociale.

Questi ultimi fenomeni sono non a caso, in questa fase, caratteristici dell’occidente capitalistico, quello più sviluppato (e dove si è affermata la società dei funzionari del capitale), in cui sussiste una democrazia elettoralistica, che è sempre (anche dove al posto dei tanti partiti e partitini vi sono innumerevoli lobbies, gruppi di pressione, cosche varie) espressione dei molteplici rivoli di interessi corporativi, relativi ai vari spezzoni particolari della società in quanto serbatoio di voti per i vari “gruppi” politici (partiti, lobbies ecc.); naturalmente questi ultimi ingannano sempre i loro elettori, ma continuano a catturarne i voti per la tipica vischiosità storica di “ciò che è morto o moribondo”. Salvo il fatto che, quando alla fine delle varie “kermesse” elettorali (tipo le presidenziali negli Usa), lo scontro si concentra tra due soli raggruppamenti, una enorme quota di popolazione (negli Usa appunto quasi il 50%) non va a votare; mentre invece in paesi come l’Italia – dove riesce a presentarsi perfino chi soltanto solletica la nostalgia di qualche sopravvissuto (magari con i simboli di passate stagioni di tensione ideologica) – vi è una relativamente alta percentuale di votanti, completamente sbriciolata e ineffettuale.

Data la necessità di comunque tentare la raccolta dei voti in una società sfatta e divisa in mille partizioni (per reddito, per preferenze religiose, etniche, sessuali, per età, per appartenenza a dati “mestieri” o invece sport, e infinite altre che non mi vengono nemmeno in testa), tutte le varie organizzazioni politiche (che siano due, divise in tante correnti e “mafie”, o qualche decina come da noi) non affrontano mai i problemi decisivi che riguardano un intero paese, ma cercano di “tenersi vicini ai bisogni della gente”. Da ciò deriva il carattere prevalentemente economicistico delle proposte politiche, il loro continuo riferimento ai problemi della “domanda” più che a quelli….non della “offerta”, bensì della produzione, cioè della struttura che dovrebbe assumere questa ai fini di un avanzamento dell’intero sistemapaese.

Abbiamo i neoliberisti con le “virtù” del mercato, che sono sempre quelle della smithiana “mano invisibile” coniugata in tanti modi diversi per fingere di “innovare”; abbiamo i keynesiani con le “virtù” della spesa statale quale deus ex machina che risolve ogni problema; abbiamo (in Italia, il paese più arretrato dell’occidente capitalistico) i finto-“marxisti”, che pensano soltanto alla lotta del lavoro contro il capitale, in definitiva risolto sempre con qualche modestissimo accrescimento dei salari, ricadendo quindi nella soluzione dei problemi via aumento della domanda (per di più solo quella di consumo, senza la minima sensibilità per il problema degli investimenti; non è un caso che quando tali correnti sono al governo, il che avviene solo nel nostro disgraziatissimo paese, si verifichi semplicemente un forte aumento della spesa pubblica di parte corrente o per sussidi a grandi industrie parassitarie; non certo, ad esempio, per investimenti in “capitale fisso sociale”).

Diverso è il caso di paesi come Russia e Cina. E’ inutile che si venga a cianciare semplicemente di statalismo accentratore. Non so bene in Russia, ma in Cina Hong-kong o anche Canton, Shanghai, ecc. non dipendono certo supinamente e passivamente da Pechino. Il problema è diverso. Si tratta di paesi dove esiste un forte decisionismo; e dove le elezioni non sono tenute per solleticare le ambizioni (alte o basse che siano, ma sempre meschine) di mille ceti, ognuno ben chiuso e gretto nel suo particolare interesse, bensì per ottenere ….sì, diciamo pure senza perifrasi, un plebiscito su decisioni che riguardano l’insieme del paese, la sua crescita, la sua sempre più alta e potente collocazione nel consesso dei vari paesi del globo. La Cina – all’85-90% di nazionalità Han – è una vera nazione; la Russia no, ma sta ritrovando la sua vocazione di paese e di potenza. Non a caso, si sta rivalutando Stalin, pur se con cautela a causa di tutte le incrostazioni ideologiche che hanno ricoperto il personaggio. E viene rivalutato, correttamente, non come “comunista” (altrimenti ci sarebbe molto da obiettare), ma come grande uomo di Stato che, con il suo gruppo dirigente, ha condotto una politica di posizione delle basi oggi utili ad una ripresa di potenza del paese (pur ridotto come confini e come “zona di influenza”). Non operò, come dicono i banaloni, da “nuovo Zar” (oggi anche Putin viene così denominato). Uno Zar non avrebbe avuto in testa un processo di autentica modernizzazione industriale del paese (adesso lasciamo perdere, in sede di blog, la discussione sul perché alla fine si è prodotta una veloce e disastrosa involuzione).

Tornando a noi, stiamo attenti a non fare profezie sulla gravità della crisi. Ci sono però tutti gli ingredienti di essa; ed è probabile (mai certo) che si verifichi con effetti di gravità piuttosto rilevante. L’aspetto finanziario è però solo quello che essa ha preso in questa fase perché la finanza è certamente fondamentale nel coadiuvare strategie di potenza e di conquista (“imperiale”) di sempre più larghe “sfere d’influenza”. Finito il periodo dell’equilibrio tra i due “campi” (capitalistico e “socialistico”), che è stato, dal punto di vista del capitalismo occidentale (compreso il Giappone), un periodo “virtuoso” – avendogli consentito ritmi di sviluppo notevoli e una relativa centralizzazione del comando, e del coordinamento, del suo insieme negli Usa – ci si è avviati, dopo un primo periodo confuso in cui alcuni ingenui avevano teorizzato un mondo “tripolare” (Usa, Germania e Giappone), verso l’apertura del suddetto policentrismo, con la lotta tra potenze, la confusione e il caos crescenti che ciò comporta.

Sia chiaro: non siamo ancora in quest’epoca, ma vi siamo sempre più vicini (in termini di “tempi storici”). E’ ovvio che siano perciò cresciute notevolmente le ambizioni statunitensi di predominio globale e quindi anche le esigenze finanziarie che derivano da progetti del genere. Non a caso, le spese militari Usa (non solo quelle in senso stretto, ma tutte quelle necessarie in generale ad una difesa delle proprie sfere d’influenza) sono ancora maggiori di quelle dell’epoca del confronto con l’Urss. Quando la finanza è così “sollecitata”, prende l’abbrivo e sembra correre per conto suo creando infine la rottura dei vari circuiti monetari cui consegue poi – se il tutto continua ad aggravarsi – quella dei circuiti mercantili con la “naturale” caduta degli investimenti, con le varie perdite di capitale (invece che profitti), ecc. L’economicista è affascinato da quest’ultima fase, tanto da pensare che il capitalismo è alla fine: o arriva il crollo (per i “marxisti” scolastici) o la stagnazione (per tanti “keynesiani” altrettanto scolastici).

In realtà, si tratta della manifestazione (“più visibile”, oltre che quella certo avvertita maggiormente dalla povera popolazione ignara delle sue sorti) del crescente conflitto tra dominanti – non tanto nella forma del “conflitto di classe”, quanto invece come aspro scontro tra formazioni particolari (potenze) nell’ambito di quella mondiale – che alla fine dovrà, nel pieno dell’epoca policentrica (non credo prima di almeno una ventina d’anni), sfociare in un più esaustivo “regolamento di conti”. In passato, quest’ultimo ha preso la forma dei grandi conflitti bellici mondiali (dove il gioco era condotto però da alcune, poche, grandi potenze, raggruppatesi in due “alleanze” contrapposte). Oggi, non farei previsioni sicure al riguardo; manca troppo tempo. L’unica previsione, con alto grado di probabilità (mai certezza!), è quella del verificarsi di notevoli tragedie collettive; non più soltanto per i poveri popoli del fu terzo mondo, ma anche per i nostri così abituati alle “mollezze” di sessant’anni e più, in cui abbiamo scaricato sugli altri le nostre “magagne”.

Di fronte a tali prospettive, come reagiscono attualmente le forze politiche di questi paesi abituati alle suddette “mollezze” (ancora non fortemente intaccate)? La povertà delle idee è generale. Solo che tutti sono affascinati da ciò che si fa in campo monetario (e allora dacci sotto con gli “errori”, speculari e contrapposti, della Fed e della Banca Centrale europea); oppure, come già detto, tutti si affannano attorno ai problemi della domanda: come rinvigorire i consumi, come abbassare la pressione fiscale, presupponendo che il maggior reddito così messo a disposizione delle persone fisiche e delle imprese si traduca in maggiori consumi e investimenti. Balle! La situazione non si risolve con pure misure di carattere economico; e nemmeno con una micragnosa mentalità sindacale che non ha mai a cuore gli interessi generali, ma cerca solo di conquistare i voti della gente (delle mille partizioni sociali) per alimentare i parassiti del ceto politico. Ecco perché occorre il decisionismo (da non confondere con il banale statalismo, fonte di semplice corruzione), che sappia stringere attorno a sé i popoli (del proprio paese!). Ecco perché, se la crisi arriverà e sarà abbastanza (o molto) grave, Russia e Cina, pur colpite anch’esse, ne usciranno meglio e ci sarà anche un’accelerazione verso il policentrico confronto geopolitico, foriero di drammi ma anche aperto finalmente all’uscita da questo pantano creato dai troppo pasciuti “occidentali”.

Il discorso non finisce però qui; altre puntate saranno necessarie per ulteriori precisazioni.

 

 

QUANTE “BALLE”!

 

La crisi: occasione per un nuovo pensiero e, possibilmente, un’altra politica

(scritto il 7 ottobre 2008)

 

Immaginavo che il piano di “salvataggio” Paulson reggesse almeno una settimana. Sembra già fallito alla riapertura delle borse, ieri. Andando “dal grande al piccino”, all’Unicredit il Cda ha lavorato anche in giorni festivi per mettere a punto il suo piano di “salvataggio”; 6,6 miliardi di euro di nuova capitalizzazione con “promessa” di distribuire i dividendi in…..azioni (la prospettiva non è a prima vista molto attraente). Simile piano non sembra risolvere gran che, almeno a quanto si vede finora. Comunque attendiamo “fiduciosi” i prossimi giorni; consci comunque che le borse andranno su è giù come sull’otto volante, ma alla fine arriverà l’effettiva “depressione”, quella reale [vedi l’appendice].

Ribadisco quanto ho sostenuto mille volte in questi ultimi tempi. Non ce l’ho con tecnici ed economisti perché non ci capiscono nulla; nessuno è in grado di essere migliore di altri in frangenti come questi. Irrita però altamente che questi “maghi” o “guaritori” in sedicesimo pretendano di farci credere alla loro capacità di risolvere la situazione. Ammettano infine di essere disorientarti, punto e basta! Da centocinquant’anni circa a questa parte, mi pare ci siano state, tra gravi e meno gravi (le “recessioni”), una cinquantina di crisi o giù di lì. Più o meno, a parte appunto la gravità, sono sempre avvenute con modalità non molto dissimili, salvo i dettagli “di forma” (adesso si dà la colpa ai subprime, ai derivati, ecc., ma il “minestrone” è sempre stato fatto con pessime “verdure”; e il caos prende in genere avvio dalla finanza per arrivare al settore reale).

Fra le altre “balle”, pensiamo a questa: i nostri governanti, e fior di tecnici ed economisti di vario orientamento, si stanno affannando a sostenere che l’Italia ne uscirà meglio degli altri paesi avanzati perché la sua economia è meno internazionalizzata. Vi ricordate quanto si diceva fino a pochissimo tempo fa? L’Italia si reggeva, in quanto sistema-paese, su una solida struttura di piccolo-medie imprese pienamente inserite, e competitive, nel mercato globale. Del resto, si sa bene quale importanza abbiano per simili imprese i mercati di sbocco degli Usa e della Germania (quest’ultima in specie per il nord-est); e quanti investimenti siano stati fatti nell’Europa orientale (vi dice qualcosa Timisoara?) ma poi anche in Cina e in altri paesi asiatici sud-orientali. Adesso, per rassicurare i poveracci che dovranno ricevere una gran bella salassata, l’Italia è invece presentata come quasi autarchica (qual era l’Italia fascista, che infatti resistette meglio di altri paesi alla crisi del ’29; ma anche perché era ancora un paese agrario-industriale e non industrial-agrario alla guisa dei capitalismi avanzati di allora). Oggi non è affatto così, e il nostro paese si prenderà le sue “belle botte” come gli altri.

 

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E’ estremamente fastidioso constatare quanto gli economisti insistano pervicacemente in concezioni errate della crisi. I “critici” antiliberisti sono se possibile meno lucidi e più ideologici dei loro avversari; per non parlare di quelli che usano, in modo improprio e deformato, il povero Marx per recitare la parodia della “critica dell’economia”. Perfino Tremonti – che, per parte sua, parla un po’ ridicolmente di necessità dell’etica nell’attività finanziaria; e ha sparato oggi la c…ta che “l’Europa c’è” quando ognuno va, al di là delle chiacchiere, per i fatti propri – si è permesso di ricordare agli ex piciisti (tipo D’Alema) che non basta leggere Marx, bisogna pure capirlo. Per inciso, devo dire che mi sono molto divertito perché ha formulato un’ingiuria fra le più insultanti, sostenendo che questi ex hanno tradito Marx senza nemmeno averlo prima compreso; veramente il “massimo” del tradimento, giacché è la fusione tra abiura e incapacità di intendere (cioè mentalmente ritardati). Ed è proprio così, indipendentemente dal pulpito da cui arriva la predica.

La mania degli interpreti della crisi è sempre la solita: per superarla bisogna sostenere la domanda. I “critici” rischiano di essere peggiori dei liberisti perché si concentrano proprio sui consumi; e i “critici critici” (quelli che hanno letto male Marx e non riescono a capirlo) insistono quasi soltanto sul sostegno ai salari dei lavoratori (scelta di equità sociale, ma di minima efficacia per combattere la crisi); fra l’altro, sembra che lavorino solo i salariati, e soprattutto quelli delle mansioni esecutive meno pregiate e a minore retribuzione. In cotal modo, si facilita il divide et impera attuato dai dominanti; i cosiddetti lavoratori “autonomi” (che in realtà non lo sono) hanno poi ragione di incazzarsi con i sindacati e i loro “intellettuali” (puri ideologi) di riferimento, dato che sono anch’essi consumatori, e pure investitori in molti casi per cifre nient’affatto disprezzabili (in specie nel loro insieme). Per di più, ideologia per ideologia, esiste un briciolino di verità nell’affermazione che, mentre il lavoratore salariato timbra il cartellino e, almeno in generale, il lavoro straordinario gli viene pagato a parte (e di più, e adesso se non erro anche detassato), quello “autonomo” sgobba senza guardare l’orologio; se c’è crisi, aumenta le ore di lavoro tentando di recuperare reddito, e non ha alcun “ammortizzatore sociale”, non ha ferie pagate, né buona uscita alla fine del rapporto di lavoro (con se stesso?), ecc. ecc.

Smettiamola di stuzzicare il “cane che dorme”, perché altre volte si è svegliato, e furono dolori! Francamente, sono perfino sorpreso che questi lavoratori siano ancora un po’ addormentati e non abbiano deciso di andare a regolare i conti con i sostenitori del mero “conflitto capitale/lavoro”. Oggi mi rendo conto del perché sia avanzato il fascismo negli anni ’20 e ’30 e del perché abbia goduto di un buon appoggio popolare (e non solo del “ceto medio”), malgrado l’ideologica ricostruzione storica fatta dai vincitori, che non capiscono come la menzogna, e l’incomprensione delle ragioni per cui l’avversario ha potuto prevalere sia pure per un paio di decenni, rischi di non far comprendere in futuro eventuali nuove forme di manifestazione della “malattia”.

Se la crisi fosse da domanda, non vedo perché dare la preferenza ai “critici” che vogliono l’aumento dei salari (magari nel “pubblico”, dove solo la preconcetta presa di posizione “di sinistra” nega l’inefficienza e il sovraccarico di forza lavoro, la cui remunerazione assorbe un’esorbitante quota della spesa pubblica), e non invece ai liberisti fautori della riduzione dell’imposizione fiscale per “autonomi” e “artigianato” (piccole imprese), che anch’essi potrebbero – nient’affatto necessariamente, solo potrebbero – accrescere la domanda; e non per semplici consumi.

In questo particolare momento in cui prevalgono istinti di paura e difesa, verranno necessariamente prese misure di breve periodo e strettamente congiunturali. Si tratterà, in ogni caso e malgrado le varie “balle” che ancora ci ammanniranno a getto continuo, di una semplice “navigazione a vista”; tuttavia attuata quando non “si vede più la costa”. In poche parole, una “navigazione a vista” condotta in “altomare” che, per quanto ne so, non è un bel modo di procedere. Non intendo metter bocca sulle decisioni che saranno prese, non mi metto a giocare al tecnico od esperto; preferisco lasciarlo fare ai “giovani pierini” – di entrambi gli schieramenti – che pullulano nelle nostre Università e che si cimentano ad imbrogliare la “gente” come i loro maestri, già sputtanatisi abbondantemente a questo punto. In ogni caso, non credo proprio alla possibilità di evitare la crisi, pur se verranno certamente effettuate alcune scelte che la mitigheranno o invece la aggraveranno a seconda dei casi. Sarà una crisi piuttosto dolorosa – soprattutto per la gran massa della popolazione, assai meno per banchieri e industriali (decotti), e politicanti vari – e lunga. Non porterà, come ricominciano a sperare certi “vecchi arnesi” di ossificate ideologie, al crollo del capitalismo, ma certo rimescolerà molte carte e muterà vari rapporti di forza.

Qui, con prudenza, avanzo solo alcune considerazioni assai generali. Innanzitutto, pur senza dar nulla per scontato soprattutto in tempi brevi, credo subirà una certa accelerazione l’avanzata verso il multipolarismo o policentrismo. Non però per le banali osservazioni che si leggono circa il fatto del debito pubblico americano in mano, in gran parte, a Cina e Giappone. Se fosse solo per questo – fenomeno che avrà semplici effetti di congiuntura economica – non assisteremo a grandi mutamenti nei rapporti intercapitalistici in tempi medi (sempre all’incirca sui 15-20 anni; forse un po’ più, difficilmente un po’ meno). La crisi, più che causa, è in gran parte effetto del risorgere – sia pure in modo ancora asimmetrico e non pienamente dispiegato – del policentrismo; soprattutto, in questi ultimi anni, per merito della Russia, poiché l’instaurarsi della vera fase policentrica dipenderà dagli assetti politici, cui quelli economici fanno da supporto.

Appunto però: la sfera economica fa da supporto, fornisce mezzi per il conflitto strategico, non solleva l’effettiva ondata di fondo che provoca i maggiori mutamenti storici. Possiamo considerare l’economia una sorta di struttura “ossea”, con la sua “muscolatura” da tener tonificata, immersa però nel “corpo” costituito da un campo di forze, di energia, i cui vari flussi si condensano in “nuclei” (apparati) da cui promanano decisioni che li rendono, all’apparenza (reale), “soggetti”; tuttavia, questi ultimi sono in grado di conseguire dati obiettivi solo quando alcuni di essi sono decisamente preminenti, mentre il caos tende invece a prendere il sopravvento quando i decisori sono troppi o di forza non nettamente impari. Le decisioni che più contano, come ho già cercato di mettere in luce più volte (ma lo farò ancora), sono quelle strategiche e non congiunturali, aperte a soluzioni di almeno medio periodo; e sono perciò in prevalenza prese da alcuni gruppi di agenti politici – situati in specifici punti nevralgici del sistema – che hanno spesso solidi legami con gruppi corrispondenti nella sfera economica, non però con quelli di carattere quasi esclusivamente imprenditoriale e manageriale (con o senza proprietà che siano), rari essendo i capi d’azienda dotati di apertura mentale da “condottiero” (nel dopoguerra, penso a un Mattei, mentre un Agnelli era più fumo che arrosto). In certi periodi storici, anzi, tali agenti politici devono agire in controcorrente rispetto alla maggioranza dei gruppi economico-imprenditoriali poiché le loro strategie sono divaricate: di più ampia e lungimirante visione quelle dei primi agenti; piuttosto ristrette, legate al passato e troppo poco autonome rispetto alle politiche dei gruppi dominanti di altri paesi, quelle dei secondi.

 

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In condizioni del genere, lasciando ai tecnici di sbizzarrirsi nelle manovre (mi verrebbe da dire manovrette) congiunturali, con la speranza che non ci portino troppo a fondo, è necessario condurre una risoluta battaglia – che sarebbe decisivo fosse anche politica, ma intanto almeno culturale – contro le idee della crisi da domanda, tanto peggio se da mera carenza di consumi. La crisi deve essere attraversata comunque, è bene che ci si rassegni all’idea. I “romantici” che pensano risolva la questione della ripresa del comunismo a breve siano lasciati ai loro sogni. E siano egualmente tenuti a debita distanza coloro che fanno gli “umanitari”, che pensano al semplice solidarismo, al calore della comunità, ecc., senza porsi problemi strategici “leggermente” più significativi. E’ indispensabile far leva sui disagi (o peggio, si vedrà) per trovare settori economici, sociali, politici che comprendano il fondo della questione: bisogna uscire dalla crisi nelle meno peggiori condizioni possibili. Non ci si esce con i generici discorsi – fatti, tanto per fare un esempio, da Berlusconi e Tremonti (e guardate che comunque quelli di sinistra, magari impostati solo sull’aumento dei salari et similia, o sul solidarismo buonista, ecc., sono decisamente più inconsistenti e irrealistici) – incentrati sulla necessità di dare meno impulso alla finanza e di più all’industria e alla produzione, ecc. Siamo ancora troppo sul generico.

La struttura ossea di cui sopra – che in Italia, e solo poco meno negli altri paesi europei avanzati, è da lunga pezza affetta da osteoporosi – deve subire un degno lavoro di rafforzamento privilegiando le imprese dei settori di punta. In Italia, e mi scuso per dovermi ripetere spesso, si tratta di Eni, Finmeccanica, Enel e qualche altra. Ribadisco la gravità dell’aver fatto decadere in modo pauroso la Telecom, un’azienda al limite del ridicolo, come del resto Trenitalia (e speriamo non diventi qualcosa di simile pure Alitalia, in mano ad una cordata di imprenditori che non mi sembra abbiano fornito finora brillanti prove delle loro capacità, salvo che nel far soldi forse). Mi è sembrato buono – ma ne ho avuto notizie solo a pezzi – il discorso di Scaroni (Eni) a Capri (riunione dei giovani industriali); se quello delineato fosse l’orizzonte strategico, verrebbe seguita – almeno mi sembra – una politica chiaramente multipolare e aperta ad un’attenta navigazione fra i giochi contrastanti dei vari attori: sul piano internazionale e, in parte di riflesso, anche su quello interno.

Positivo, ma solo per mancanza di risorse finanziarie e non per chiarezza politica, il rifiuto opposto dalla UE (e speriamo senza ripensamenti) alla richiesta di Marchionne di sovvenzionare l’industria europea dell’auto con 40 miliardi di euro. Questa Fiat, non contenta di tutto ciò che ha spillato al nostro Stato, e dopo aver battuto recentemente cassa in sede sia nazionale che regionale (Sicilia), ha pure preteso un maxifinanziamento europeo: ovviamente non solo per sé. Molto bene averla presa a pesci in faccia, a patto che si continui d’ora in poi a farlo sempre, anche in sede nazionale! Basta con i ricatti dei posti di lavoro, dell’indotto, con le continue richieste di cassa integrazione, della rottamazione, ecc. Abbiamo bisogno proprio in una situazione di crisi – in un certo senso, anzi, approfittando d’essa – di limitare le risorse in direzione dei vecchi settori per farle affluire verso i nuovi, secondo i dettami schumpeteriani della “teoria dello sviluppo”, in cui l’impulso alla crescita viene fornito dalla spinta alla creazione del nuovo passando per la distruzione – in questo caso, solo la limitazione – del vecchio.

Così pure, è indispensabile dare alimento alla ricerca scientifico-tecnica. Sarò franco: non mi turba per nulla tutto il can-can fatto per il “maestro unico” o il “voto in condotta” (su questo punto sarei favorevole a portare infine un attacco deciso al lassismo e indisciplina anarcoide, retaggio del post-’68 e del tutto negativi nella prossima fase storica; nessuna trasformazione si è mai ottenuta con il semplice caos provocato da turbe di “sottoproletari” rivoltosi, sempre invece quando è stata presente una linea direttiva supportata da un’ordinata organizzazione). Il limite vero della cosiddetta riforma dell’istruzione è che non mi sembra puntare con rude decisione al superamento del deficit culturale di questo disgraziato paese, il cui ceto intellettuale è peggiore di quello esistente all’epoca del predominio crociano. O si fa un salto nel mondo moderno – scientificamente moderno – o altrimenti non ci sono riforme che tengano. Tuttavia, un salto del genere richiede risorse, ma non solo; anche un deciso e radicale attacco all’influenza di correnti culturali antimoderniste e antiscientifiche. Fuori senza tanti complimenti dalla scuola e dalle Università gli insegnanti non all’altezza dei compiti; li si mandi a lavorare i campi e a condurre la vita agreste che prediligono!

Oltre a tutto questo, va potenziato precisamente lo Stato cosiddetto nazionale, con tutti i vari strumenti di cui dispone e su cui non mi diffondo in questa sede. Tuttavia, è necessario tener conto che lo Stato non è un soggetto individuale, compatto, dotato di univoca capacità di scegliere i propri obiettivi e di assumere decisioni conformi al conseguimento di questi ultimi. Bisognerà avere una migliore coscienza e conoscenza degli apparati vari di Stato, immersi anch’essi in un campo di energie conflittuali, da cui non si può uscire facendo semplicemente appello a misure presunte collettive in base al principio – un vero luogo comune che sostituisce spesso la razionale consapevolezza dei problemi e di come vadano affrontati – secondo cui nella crisi bisogna cooperare e coordinare il proprio agire tutti insieme, poiché “l’unione fa la forza”. La pretesa unione è “sintesi” di multiple azioni – alcune manifeste, altre sorde e sotterranee – condotte per affermare, pur nell’insieme, questi o quegli interessi di vari “nuclei” in interazione entro il suddetto campo di energia. La sintesi appare, e nemmeno sempre, unitaria, ma al suo interno è invece pervasa, attraversata, percorsa, da numerose correnti che ne ramificano gli esiti in direzioni diverse a seconda che, in essa, prevalgano le spinte strategico-conflittuali degli uni o degli altri fra i vari “attori” in campo.

Bisogna smetterla pure con l’altro luogo comune per cui il nostro paese è troppo piccolo e poco potente per sfidare i giganti che si affrontano nel mondo. Se dovessimo “dichiarare guerra” agli Usa o alla Russia o alla Cina, ecc., l’affermazione avrebbe un senso. Ciò è soltanto puerile; si può giostrare benissimo con ben diverse modalità, pertinenti a quel campo di energie conflittuali di cui lo Stato (con i suoi diversi apparati) è la visibile condensazione “corporea”. Inoltre, invece di enfatizzare solo la globalizzazione degli scambi mercantili e dei flussi di investimenti di capitale – e tralasciando quel grosso fallimento ideologico rappresentato dal sedicente internazionalismo proletario – si dovrebbe comprendere che, anche a partire da paesi non enormi né potentissimi, possono diramarsi correnti politiche e culturali in allargamento verso aree geografico-socio-politiche prossime.

Noi siamo paralizzati dalla “Comunità europea”; uomini, soprattutto fra i pretesi “progressisti”, ci hanno portato in questa camicia di forza, componendo quasi esclusivamente un tessuto di tipo monetario. Questa crisi ha fra l’altro il pregio di illuminare a giorno tutta l’inconsistenza dell’europeismo dei “padri fondatori”; alcuni li definirebbero ingenuamente generosi, personalmente userei un termine decisamente peggiore perché ho difficoltà a credere alla buona fede di chi incorre in svarioni tanto gravi. E’ necessario ritrovare la “propria autonoma personalità politica”, da qui allargandosi a rapporti vari con altre “personalità” nel tentativo di avvicinare i vari progetti di potenziamento delle rispettive autonomie (senza rinunciare alla propria).

E’ ovvio che simili progetti non riguarderanno tutti insieme i 27 (o quanti sono) paesi della UE (e guai se ne entrano altri ancora). Si deve iniziare da molto meno e, nel contempo, stabilire le giuste alleanze di fase tenendo conto degli attuali rapporti di forza internazionali in quest’epoca di semplice tendenza al policentrismo – se vogliamo, possiamo parlare di multipolarismo per il momento assai asimmetrico – smettendola di vendere la pelle dell’orso americano prima del tempo. Se ci si comporta ingenuamente, ci si troverà di fronte a brutte sorprese. Quanto detto fin qui, non significa affatto abbandonare progetti di trasformazione sociale, ma soltanto comprendere che esistono fasi in cui si può agire in un modo e fasi in cui ci si deve “adattare” ad un diverso comportamento.

Chi ragiona solo in base a principi generali, privi di riferimento alle condizioni specifiche di ogni dato periodo storico (la leniniana “analisi concreta della situazione concreta”) – perché ama tanto il Bene, il Giusto, il Meglio e non so quali altri fanfaluche da “teste nelle nuvole” – ha sempre provocato nella storia i più grandi disastri e ha portato i poveri “seguaci” al totale annientamento. E poi, per esperienza personale ormai lunga, so perfettamente che chi ama tanto l’Umanità ha il massimo disinteresse per i singoli suoi componenti, troppo invischiati nella vita concreta che li porta ad essere spesso gretti, privilegiando la “materialità” a scapito dell’“alta spiritualità” dell’Uomo. Io preferisco politicamente gli uomini; l’Uomo è pura fantasmagoria creata da chi si vergogna di credere direttamente in Dio (una credenza decisamente più coraggiosa, limpida e coerente, che forgia spesso personalità più profonde e problematiche).

Avremo modo di tornare spesso su questi argomenti. Una nuova epoca è già iniziata; portiamoci in condizione di capirci qualcosa, mediante teorie di fase e pratiche politiche ad esse conseguenti. Siamo indietro, solo alla posa delle prime pietre. Acceleriamo!

 

APPENDICE

 

Queste sono stime ufficiali di Eurostat. Si noti che alle previsioni sulla recessione (ovviamente dell’economia reale), si aggiungono anche quelle (in un bollettino della Banca d’Italia) di un incremento dell’inflazione, il che sembra in effetti strano perché di solito si verifica una deflazione in casi come questi. Probabilmente, le stime della recessione sono ancora inferiori a ciò che si verificherà realmente. Comunque, anche così, le prospettive si delineano per quel che saranno, malgrado gli inviti a stare tranquilli e ad aspettare le “sagge” mosse delle “autorità” (con la “a” tanto minuscola). Aggiungo ora (8 ottobre ore 16) anche le fosche previsioni del FMI.

 

[Il pil vira in negativo. L’economia di Eurolandia è in rosso. Secondo le stime di Eurostat sul secondo trimestre del 2008, che confermano i dati pubblicati il 14 agosto e il 3 settembre, il pil della zona euro ha ceduto lo 0,2% e quello dei Ventisette è rimasto invariato (invece di calare dello 0,1% come indicato nelle stime precedenti) rispetto al trimestre precedente. Nel primo trimestre, i tassi di crescita erano stati dello 0,7% nella zona euro e dello 0,6% nei Ventisette. Rispetto al secondo trimestre del 2007 il pil, al netto dei fattori stagionali, è cresciuto dell’1,4% nella zona euro e dell’1,7% nei Ventisette (contro l’1,6% simato in precedenza). In Italia il pil è sceso dello 0,3% rispetto al trimestre precedente ed ha avuto una crescita piatta rispetto allo stesso periodo del 2007. In Francia il pil è sceso dello 0,3% rispetto al trimestre passato, ma è aumentato dell’1,1% su anno. Nel secondo trimestre del 2008, i consumi delle famiglie sono scesi dello 0,2% nella zona euro e dello 0,1% nei Ventisette. Gli investimenti sono scesi dell’1% sia nella zona euro che nei Ventisette. Le esportazioni sono scese dello 0,2% in Eurolandia e dello 0,3% nei Ventisette e e le importazioni hanno ceduto lo 0,5% in entrambe le zone. Negli Stati Uniti, il pil è aumentato dello 0,7% durante il secondo trimestre del 2008, dopo un +0,2% nel primo trimestre. In Giappone il prodotto interno lordo è sceso dello 0,7% nel secondo trimestre, dopo un +0,7% nel primo. Su base annua, il pil americano è salito del 2,1%, contro il 2,5% del trimestre precedente, e dello 0,8% in Giappone, contro l’1,2% del trimestre precedente].

 

Allarme inflazione. L’inflazione attesa nei prossimi 12 mesi “è pari al 3,7%, in aumento rispetto al 3,5% registrato lo scorso giugno” e “ad influenzare negativamente le prospettive delle imprese sono soprattutto la dinamica attesa del costo delle materie prime, del costo del lavoro e delle condizioni di accesso al credito”. A rilevare il pessimismo delle aziende italiane per i prossimi mesi, è l’Indagine sulle aspettative di inflazione e crescita contenuta nei supplementi del Bollettino Statistico della Banca d’Italia.

Fmi: Italia in recessione con Spagna, Irlanda e Gb. L’Italia piomba in recessione e ci resterà anche per il 2009 con un calo del pil dello 0,2% accomunata, in questa marcia all’indietro dell’economia nel prossimo anno, con la Spagna (-0,2), la Gran Bretagna (-0,1%) e l’Irlanda (-0,6%). È il verdetto del Fondo Monetario Internazionale che nel World Economic Outlook, presentato oggi a Washington, dipinge un quadro fosco per l’economia mondiale colpita dal “maggior shock dei mercati finanziari dagli anni ’30”. Le previsioni per l’Italia degli economisti di Washington sono molto più pessimiste di quelle elaborate dal governo nell’ultimo aggiornamento del “documento di programmazione economico-finanziaria”, che prevedeva per quest’anno una crescita dello 0,1% e per il prossimo addirittura un’accelerazione a quota 0,5%, mentre sono più vicini con gli scenari previsionali recessivi elaborati recentemente da Confindustria. Il dato, oltretutto, mantiene il Belpaese nella scomoda posizione di fanalino di coda nella crescita tra i Paesi del G7, i cui ministri finanziari s’incontreranno venerdì a Washington proprio a margine degli incontri annuali del Fmi.

 

Pur se, come ben si sa, non sono affatto un esperto o un tecnico, avanzo egualmente una “scommessa”: il quadro reale sarà assai peggiore di quello previsto, con “belle cadute” della produzione e dei commerci (e quindi dell’occupazione, ecc.), cioè dell’economia detta reale. Per di più, la “mia mammella sinistra” (un modo di dire di chi tende ad indovinare) mi dice che avremo infine una deflazione anche sul piano dei prezzi; deflazione che è ben noto non essere migliore dell’inflazione. Certo però che avere deflazione produttiva e inflazione dei prezzi – con svalutazione dei salari monetari, fra l’altro in calo anche come quantità nominale complessiva per la disoccupazione crescente – non sarebbe “il massimo”.