E’ UN INCROCIO DI POTERI di AM
L’incrocio ad alta tensione tra politica e magistratura che sta costantemente segnando le vicende pubbliche italiane è molto più di una contingenza, molto più dei personaggi e dei fatti delle cronache.
Questo incrocio è raffigurabile in maniera duale: come una particolare congiuntura della crisi politico-sistemica dell’Italia e come un’immanente, profonda e precipua caratteristica che attiene alla dimensione apicale del potere. Non disgiungendo questi due piani di interpretazione, ma cogliendone gli aspetti di interconnessione ci si può collocare in una prospettiva non viziata da partigianeria di sorta né tantomeno da deduzioni fallaci ed emotive.
In realtà, il fattore è strutturale e in quanto tale evidenzia non solo quanto il rapporto politica-magistratura sia anomalo solo in parte e non trattasi quindi di un’anomalia strettamente italiana, ma evidenzia una caratteristica intrinseca del liberalismo, ovvero la sua forzata pretesa di spoliticizzazione e neutralizzazione del Politico. Una pretesa di sconnessione tra Potere e Diritto, emblematica della concezione liberale, che la realtà effettuale dell’agire e dell’evolversi del Potere storicamente smentisce. La digressione in materia di Carl Schmitt è in questo senso pregnante e illuminante. E’ una questione cruciale del Moderno. Se, come registra il giurista e filosofo tedesco, lo Stato – teologicamente, ma nel senso politico e dell’interpretazione schmittiana – è l’ente che non precede il Diritto ma il recinto in cui si cala l’Idea giuridica trascendente che acquista senso nella prassi politica concreta ed è quindi punto di mediazione tra diritto e potere, lo Stato stesso non può ritenersi l’origine del diritto e della politica, ma solo terreno di una mediazione tra di loro che non può essere mai completamente perfetta e pacificata. Entrambi diritto e politica non si originano e non si pacificano nella configurazione liberale dello Stato, ma concernono piuttosto la dimensione del conflitto che è tipica del Potere. La sovranità del Politico (di ciò che è propriamente politico cioè), sotto questo aspetto, è nel riconoscere questa conflittualità tra potere e diritto e la loro non autoreferenzialità. Le dinamiche del potere non si neutralizzano nelle norme, non si spoliticizzano nella divisione in sfere separate con meccanismi sic et simpliciter autoregolatori se non sul piano meramente formale. Ma è appunto la pretesa formalistica della concezione liberale a voler scindere la sfera del diritto da quella del potere, neutralizzandola, come se entrambi non appartenessero alla dimensione del Politico e del conflitto che ne è espressione. Allo stesso modo, ma con segno diverso di tipo economico, Marx mostrava lucidamente come il diritto fosse una sovrastruttura relativa all’evoluzione della struttura economica della società e come rispecchiasse i rapporti di forza e quindi di potere che maturavano all’interno dello Stato. Se quindi il diritto è inscindibile dall’esercizio del potere, lo è altrettanto la magistratura che incarna il diritto e che è essa stessa un potere incarnando quello giudiziario. Il potere giudiziario è attore tra gli attori nella lotta di potere, in specie quella di vertice. Ma non è, dunque, un mero potere formale della divisione liberale, ma sostanziale e incrociato con gli altri poteri di vario segno che sono partecipi del conflitto del Politico. Se il diritto rispecchia una determinata configurazione del potere, la magistratura stessa è terreno di scontro e di influenza tra poteri dominanti o in lotta, siano essi politici ed economici. Ancor di più deborda dai suoi relativi argini allorquando intralcia o apertamente invade l’ambito dell’esecutivo e del legislativo. Il potere non si spoliticizza e non si neutralizza. Gli assiomi liberali decadono.
La narrazione giudiziaria della trama politica italiana degli ultimi vent’anni non è, come veicolato dalle schiere mediatiche più in auge, la narrazione, bensì un filone interpretativo ideologizzato che promana dagli eventi destabilizzanti che da Mani Pulite segnano l’insieme della politica italiana. L’affondo giustizialista ammantato di patina moralista e purificatrice è lo strumento atto a squarciare i legami politico-economico-istituzionali. Non tanto quelli che, tra varie illegalità, connotano una larga parte del sistema-Paese negli anfratti della burocrazia e dell’imprenditoria “quotidiane”, quanto quei legami più propriamente sistemici. La storia di Mani Pulite si è sviluppata, e in altre forme giudiziarie permane oggi, come un mezzo bellico sul piano politico ed economico (come pagina dopo pagina è stato qui evidenziato). Al centro non vi era la parte inquinata della classe dirigente (che più o meno lo fosse, e molto spesso lo era, non è il punto) da rimuovere, ma lo specifico intento di abbattere una data struttura di potere che “aveva fatto sistema”. Nel 1992, al tramonto dell’ordine internazionale bipolare, all’alba di una nuova azione modellatrice liberal-liberista di ispirazione americanocentrica e all’inizio di un rinnovato gioco di potenze, quel sistema Italia nei suoi particolari tratti politici e ed economici andava abbattuto perché non più funzionale al contesto che si andava delineando. Le modalità di gestione del potere della c.d. Prima Repubblica e l’impianto di economia mista che sin lì avevano comunque consentito all’Italia di ergersi come media potenza, per quanto a sovranità limitata, risultavano essere palesemente d’intralcio rispetto all’indirizzo ideologico globalista e soprattutto alle rinnovate mire predatorie delle maggiori centrali economico-finanziarie, comprese quelle legate al modello europeista svisceratosi da Maastricht. Non era da considerarsi più sufficientemente utile il ruolo assegnatole nell’alveo della spartizione di Yalta né potevano altrimenti tollerarsi quelle fette di autonomia nel Mediterraneo che, tra originalità e ambiguità, avevano pur sempre connotato un fronte, all’interno delle forze politiche e dei maggiori centri strategici, attivo lungo un raggio d’azione in qualche modo svincolato da imperituri diktat, seppur su di un piano subordinato giacchè all’interno della cornice atlantica. Lo stesso Bettino Craxi non fu solo il capro espiatorio dell’ordine che veniva dannato e condannato, ma fu un obiettivo rilevante tra gli obiettivi di massima da raggiungere proprio nella chiave del regime change che andava materializzandosi. La magistratura d’assalto fu l’avanguardia armata di un’operazione non complottistica – come con faciloneria o malevolmente potrebbe supporsi – ma da intendersi come trama di potere che andava a suggellare la fine di un’epoca e costituiva di quest’epoca solo l’ultima manifestazione di un controllo e di una destabilizzazione che, a seconda dei momenti e delle necessità, la supervisione americana aveva esercitato nel solco delle linee di tendenza e delle mire strategiche dettate da interessi e obiettivi, sia mutevoli che costanti, dal 1945. Quel connubio di poteri interni ed internazionali, a modo loro propensi alla dismissione dell’apparato nazionale industriale e finanziario con relativo drenaggio di risorse pubbliche, trovò e
tutt’ora trova in forze come quelle sinistro-progressiste (in rotta antropologica da decenni con qualsivoglia identità di sinistra o addirittura comunista) la sponda politico-culturale più opportuna. Era l’implementazione, ad oggi non del tutto materializzata, di un riassetto geopolitico e lo sbocco di una penetrante azione geoeconomica. Un esercizio di potere e di potenza che attiene alla formazione capitalistica ma esplicato con vecchie e nuove armi, vecchie e nuove idee. La figura del Cavaliere di Arcore fu la variabile non calcolata dietro cui ripiegarono vecchi assetti di potere e permane ancora come l’intralcio da rimuovere, non perché voglia affermare una linea strategica contraria o politicamente coraggiosa, ma proprio perché nel suo campo confluiscono delle forze produttive e delle rendite di potere che contendono al fronte della “Grande Finanza e Industria Decotta” le redini del controllo e dell’indirizzo industriale, finanziario ed economico. Dunque, quella che sui media appare una quasi romanzata storia di un brigante in fuga dalla somma giustizia togata custode della Legalità, è una offensiva che non nasce con Berlusconi e non si esaurisce nella sua eventuale disfatta giudiziaria. E’ l’offensiva in una contesa di interessi che punta all’ossatura del Paese.