ELEMENTI DI TEORIA DELLE CRISI (una lezione per studenti liceali)

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1. Dovrei essenzialmente parlare della crisi del 1929. E’ ovvio che ogni avvenimento storico ha una sua singolarità specifica e va inquadrato nell’epoca del suo verificarsi. Do però per scontata la conoscenza di tutto il “contorno” storico della crisi del 1929, solitamente considerata la più grave delle crisi che comunque, in forme e con intensità diverse, coinvolgono il nostro sistema sociale detto capitalistico e ne arrestano il tendenziale sviluppo. Per larga parte del 1800, nell’epoca del capitalismo detto di concorrenza, le crisi erano fenomeni verificantisi all’incirca ogni 8-10 anni con caratteristiche molto simili fra loro. Negli ultimi decenni, in specie dopo la seconda guerra mondiale, la situazione di crisi appare meno regolare nelle sue cadenze e nelle sue forme di manifestazione, ma ciò non esclude che si cerchi sempre di cogliere le caratteristiche comuni di fenomeni diversi, comunque appartenenti alla “classe” di quegli accadimenti in grado di interrompere lo sviluppo capitalistico e di provocare anche, come appunto nel caso del 1929, netti arretramenti produttivi accompagnati da gravi sconvolgimenti dei circuiti economici e finanziari, e da sconquassi sociali di notevoli proporzioni con le loro brusche ricadute politico-istituzionali (per tutte si pensi all’ascesa del nazismo nel 1933, non certo causata dalla crisi ma senz’altro da questa favorita).
Prima di entrare direttamente nel discorso sulla crisi, con riferimento particolare a quanto accadde nel 1929 e anni successivi, voglio ricordare – poiché ciò avrà una sua utilità in seguito – la possibilità di catalogare tale fenomeno in due tipologie fondamentali. La prima trova la sua principale esemplificazione nel periodo 1873-96; si tratta di una sostanziale (lunga) stagnazione, non di un vero e proprio brusco tracollo economico-finanziario. Normalmente, si considera quel periodo storico come la fase di passaggio dal capitalismo di prevalente concorrenza a quello di prevalente mono(oligo)polio. Una fase non caratterizzata da troppo gravi sconvolgimenti (e arretramenti) economici, ma da ritmi di sviluppo estremamente bassi interrotti da inversioni di tendenza di non drammatiche dimensioni. Insomma, un’epoca il cui trend dovrebbe essere rappresentato graficamente da una linea quasi orizzontale. La seconda tipologia è appunto quella che si manifestò con particolare acutezza nel 1929: ad una punta di boom di notevole portata, che aveva fatto (stra)parlare di una ormai ininterrotta epoca di grande prosperità capitalistica, seguì una brusca e accentuata caduta di tutti gli indici economici, pur a partire dalla crisi di Borsa ufficialmente iniziata il giovedì 24 ottobre, caduta che dilagò praticamente in tutti i paesi capitalistici – con il prodursi di gravissimi disagi sociali susseguenti anche alla vastissima disoccupazione della forza lavoro – e che poi si stabilizzò a livelli produttivi molto bassi fin praticamente al 1933 (vedremo più avanti che tipo di “ripresa” si verificò a partire da quell’anno).
Va ancora ricordato il carattere più generale della crisi capitalistica: il suo essere crisi di sovrapproduzione, una crisi che provoca impoverimento delle più larghe masse popolari nell’ambito di una sempre più elevata potenzialità produttiva del sistema economico, cui non corrisponde l’aumento della capacità di acquistare come merci i beni prodotti. Grandi quantità di questi ultimi restano quindi invendute e le varie unità produttive (le imprese capitalistiche) soffrono perdite (invece che godere di profitti) e dunque diminuiscono la produzione; molte chiudono e spesso vanno pure in fallimento, licenziando così mano d’opera. Diminuisce di conseguenza la massa salariale e cade la domanda dei beni di consumo e dunque anche quella dei beni di produzione (cioè gli investimenti delle imprese), e la crisi si generalizza e avanza a macchia d’olio.
Tale tipo di crisi, che colpisce società ormai basate sulla produzione industriale, è del tutto differente da quella tipica nelle società precapitalistiche, in cui prevaleva nettamente la produzione agricola; qui, le “crisi” erano in genere vere carestie dovute ad eventi climatici sfavorevoli, al diffondersi di gravi fitopatologie, alle distruzioni militari, ecc.; fenomeni devastanti in società ad ancora scarsa evoluzione tecnologica, caratterizzate quindi da quella che oggi indicheremmo come un’assai bassa produttività del lavoro. La “crisi” dipendeva da vera e propria penuria di beni prodotti; nel
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capitalismo è invece dovuta alla produzione “troppo” alta di beni, dove il “troppo” è semplicemente relativo alla capacità (ormai generalmente monetaria) d’acquisto della gran parte della popolazione.
2. Nella teoria economica tradizionale, quella di origine neoclassica, il cui inizio viene solitamente fatto risalire intorno al 1870, per oltre mezzo secolo non fu mai presa in considerazione una vera teoria della crisi. Solo pochi autori (Veblen, Schumpeter e qualche altro) trattarono la crisi come una dinamica intrinseca all’organizzazione del sistema economico capitalistico; in genere, la quasi totalità degli economisti accademici considerava tale fenomeno come dipendente da fattori estranei al sistema in questione, comunque del tutto erratici e casuali, del tipo delle ondate di ottimismo o pessimismo (non è che oggi non si faccia ancora ampio ricorso a simili spiegazioni che…..non spiegano nulla). Solo il marxismo dette risalto alla crisi quale evento che non può non verificarsi nell’ambito del sistema economico in questione. Tuttavia, per ragioni di “tempo e spazio”, non mi diffonderò sulla spiegazione marxista, anche perché essa non ha mai dato origine a effettive politiche economiche atte a combattere la crisi. L’unica ricetta fu quella della pianificazione statale dell’economia, ma in una situazione di totale rivoluzionamento sociale e politico-istituzionale e di abolizione formale della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Ricorderò comunque che, nel 1929, la crisi non toccò precisamente il paese sedicente socialista, l’URSS; ma imbarcarci in una discussione su tale fatto e sui vantaggi e svantaggi dell’economia pianificata condurrebbe in una direzione del tutto diversa da quella che qui intendo affrontare, e sarebbe pure ozioso dato che oggi quel tipo di economia è affondato in pratica dappertutto. In ogni caso, siamo oggi in un sistema capitalistico sostanzialmente rimondializzatosi, e dunque parlerò delle teorie che in campo capitalistico, una volta verificatasi la potente scossa del ’29, furono formulate con l’intento non solo di spiegare bensì anche di risolvere i problemi della crisi stessa. Ne parlerò in termini molto “intuitivi”, all’ingrosso, senza cercare una impossibile precisione che esigerebbe conoscenze e strumentazioni specialistiche. Mi guarderò bene dal tentare di “riprodurre” in sintesi il dibattito che si sviluppò per decenni, perché questa è una semplice lezione, non un trattato di storia del pensiero economico. Tenterò soltanto di rendere sufficientemente chiara la logica di fondo dei ragionamenti afferenti alle posizioni fondamentali che si scontrarono sul problema della crisi e sugli strumenti di politica economica atti a contrastarla.
Quando si entrò bruscamente in una situazione critica nell’ottobre del ’29, data l’eccezionale portata e ampiezza del fenomeno e la sua durata, la teoria tradizionale si trovò in forte difficoltà nel fornire sia una spiegazione dello stesso sia una ricetta per ridurne la gravità e invertire la tendenza recessiva. Fu all’inizio ampiamente sostenuto che il problema nasceva a causa delle “imperfezioni e rigidità” del mercato del lavoro. Senza entrare, come già detto, in particolari, si sosteneva che la forza sindacale dei lavoratori aveva ormai imposto un salario (prezzo della forza lavoro in quanto merce) al di sopra della sua produttività. Bisognerebbe aggiungere “marginale”, ma questo ci porterebbe appunto nella direzione di chiarimenti teorici che esigerebbero lezioni apposite; per cui si cerchi di capire, molto in generale, il problema. Se i venditori della forza lavorativa ottengono per essa un prezzo superiore a quanto si ricava poi dalla vendita dei prodotti ottenuti impiegando questa stessa forza lavoro, i profitti degli imprenditori capitalisti si riducono – o addirittura essi subiscono delle perdite – per cui questi ultimi tendono a non assumere, anzi a licenziare, i venditori della merce in questione (i lavoratori).
Ovviamente, poi, la diminuzione della massa salariale a seguito dell’aumento della disoccupazione provoca un calo della domanda di beni di consumo. Inoltre, gli imprenditori riducono gli investimenti (domanda di beni di produzione) sia perché hanno meno profitti da investire sia perché continua a ridursi la profittabilità di detti investimenti data la caduta della domanda (di beni di consumo come di produzione). La crisi si avvita allora sempre di più, si entra in un circolo vizioso che aggrava via via la situazione. La “causa iniziale”, cioè il motore della crisi, sarebbe comunque la crescita dei salari al di sopra della produttività del lavoro, con riduzione dei profitti imprenditoriali o addirittura il verificarsi di forti perdite. La “colpa” sarebbe quindi dell’eccessiva forza dei sinda-
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cati dei lavoratori; questi ultimi dovrebbero accontentarsi di salari più bassi. Alcuni cominciarono però ad obiettare che salari più bassi implicavano riduzione della domanda di consumo con conseguente ulteriore aggravarsi della crisi, che vedeva l’accumularsi di merci invendute per mancanza di una corrispondente capacità d’acquisto delle stesse.
Venne pure posta in evidenza la centralizzazione monopolistica dei capitali – fusione di più imprese, incorporazione di quelle fallite da parte delle “sopravvissute”, accordi per sospendere la competizione e dividersi pacificamente le quote di mercato, e via dicendo – che la crisi favoriva e accelerava; e anche questo fenomeno, in base alla teoria neoclassica (liberale) dominante, era trattato quale fattore che aggravava la rigidità dei mercati, indeboliva gli “spiriti animali” imprenditoriali e la spinta all’innovazione con ulteriore caduta della domanda per investimenti, dunque rallentamento dell’attività produttiva e licenziamento di forza lavoro in esubero, conseguente diminuzione anche della domanda di beni di consumo, e così via, con l’avvitamento del consueto circolo vizioso tipico della crisi.
3. Con il New Deal, dopo l’ascesa di Franklin Delano Roosvelt alla Presidenza degli Stati Uniti (1932), vennero seguite politiche di ampia spesa pubblica (statale) per opere infrastrutturali: strade, porti e aeroporti, dighe e canali di irrigazione, risanamento urbano di considerevoli dimensioni, ecc.; insomma tutto quello che spesso viene denominato capitale fisso sociale. Accanto a questo, vi fu, in particolare negli USA con il NIRA (National Industrial Recovery Act), la garanzia di un salario minimo; ufficialmente per fini di solidarietà sociale, ma in realtà per rallentare la brusca riduzione della domanda.
Nel 1936 uscì il fondamentale libro dell’economista inglese Keynes – Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – che diede fondamento teorico a quanto praticamente perseguito tramite la spesa pubblica. Da allora, si sostenne per alcuni decenni che la crisi veniva combattuta e vinta tramite l’intervento dello Stato nella sfera economico- produttiva. Anche in tal caso, cerchiamo di capire la logica che sottende i ragionamenti teorici che si opposero frontalmente ai dettami della scuola neoclassica tradizionale.
Innanzitutto, va chiarito che Keynes non propugna alcun intervento per limitare la portata del “libero mercato”; non vi è alcuna indicazione di instaurare una pianificazione statale come nei paesi detti “socialisti”. Inoltre, l’economista di Cambridge non parlava di spesa con finalità sociali (tipo pensioni, sanità, ecc.). Nemmeno si sosteneva che non dovessero in nessuna misura ridursi i salari; anzi, tramite l’inflazione che, almeno inizialmente, veniva promossa tramite la spesa pubblica, una certa riduzione dei salari reali si verificava e ciò non era considerato certo dannoso, poiché alleviava comunque i compiti delle imprese dal lato dei costi di produzione. Tuttavia, la causa principale della crisi – ma nei paesi capitalistici opulenti, ad alto livello di capacità produttiva di reddito – non era attribuita all’eccessiva altezza dei salari, cioè all’esorbitante (presunta) forza raggiunta dalle organizzazioni sindacali nella contrattazione del prezzo del lavoro. Keynes non prende nemmeno in considerazione il problema del mono(oligo)polio; parte anzi dalla presupposizione di una libera concorrenza, si attiene ai concetti marginalistici tradizionali, ma si riferisce a grandezze globali, aggregate, nel senso di variabili complessive attinenti all’economia “nazionale”. Si parla, ad es., di consumo, risparmio, investimento, ecc. in quanto dati relativi alla totalità dei consumatori, risparmiatori, investitori, ecc. esistenti in un determinato territorio (in genere un paese; comunque, ci si può anche limitare ad una regione di un paese o invece allargarsi ad un insieme di paesi di una certa area geografica, ecc.). Per questo si parla della teoria economica keynesiana come di una macroeconomia, in contrapposizione alla microeconomia della teoria neoclassica tradizionale.
Man mano che cresce il reddito nazionale (somma dei redditi di tutti gli individui viventi in un dato territorio, in genere quello nazionale, senza riguardo alla loro collocazione in date classi o gruppi sociali), aumenta la quota (percentuale) del reddito risparmiata rispetto a quella consumata. La teoria neoclassica tradizionale riteneva che tutto il reddito risparmiato fosse anche investito. Quando il risparmio aumentava, si supponeva che diminuisse adeguatamente il saggio di interesse
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(prezzo dei prestiti), per cui gli imprenditori si facevano dare a credito – con l’intermediazione delle banche – tale risparmio per effettuare gli investimenti, che sono appunto domanda di beni di produzione. Quindi, qualunque fosse la dimensione del prodotto (reddito) nazionale, la domanda era comunque della stessa entità dell’offerta, visto che quella di beni di investimento assorbiva la parte di reddito risparmiata (la parte consumata è ipso facto domanda di beni di consumo). Si sarebbe quindi realizzata la cosiddetta legge di Say per cui l’offerta dei beni (e dunque la produzione da cui dipende l’offerta) crea la sua propria domanda; non potrebbe quindi mai esserci crisi di sovrapproduzione, la merce prodotta non resterebbe mai invenduta per carenza di domanda.
Per Keynes, invece, vi è un livello della produzione nazionale, nei paesi ad alto sviluppo capitalistico, in cui si verifica comunque un eccesso di risparmio, che non viene assorbito dall’investimento degli imprenditori (privati) per quanto bassi siano i saggi di interesse sui prestiti (bancari). La domanda complessiva dei privati (consumi più investimenti) non tiene allora dietro allo sviluppo (grazie agli avanzamenti tecnologici) della capacità di produrre un reddito, in cui cresce più che proporzionalmente la parte risparmiata rispetto a quella consumata. E’ quindi la debolezza di questa domanda complessiva la causa reale della crisi che poi certamente, una volta scoppiata, si avvita su se stessa facendo regredire il livello della produzione fino al punto in cui, nuovamente, l’intero risparmio, anch’esso ovviamente diminuito, trova di fronte a sé una adeguata domanda di beni di produzione (investimento). Va rilevato, ed è cruciale, che nella crisi la debolezza della domanda induce la diminuzione della produzione e questa accresce la disoccupazione dei fattori produttivi; quella del fattore lavoro ha maggiore evidenza perché è socialmente squassante, ma la disoccupazione colpisce anche il “fattore capitale”, che in questo contesto, come sempre nella teoria neoclassica, è l’insieme dei mezzi di produzione (di proprietà privata).
In definitiva, la causa fondamentale della crisi risiede nella carenza, evidentemente relativa, della domanda a livelli di reddito elevati, tipici di economie con grandi potenzialità produttive, quindi tecnologicamente assai avanzate; ecco perché la crisi scoppia soprattutto nel bel mezzo di una raggiunta opulenza ed altezza del tenore di vita. Se vi è relativa debolezza della domanda privata (di beni di consumo e di investimento), è necessario che lo Stato effettui una sua spesa (pubblica) che vada a sommarsi a quella dei singoli cittadini, una spesa che quindi supplisca alla deficienza di quella dei privati. Ecco la ragione dell’intervento statale in economia; non certamente per una pianificazione della produzione, come propugnato dai marxisti e comunisti, il che esige la soppressione della proprietà privata (dei mezzi produttivi) e del mercato. Mercato e proprietà privata non vengono minimamente toccati, tutto resta come prima dal punto di vista politico-istituzionale, e da quello della preminenza dei ceti imprenditoriali e della subordinazione del lavoro salariato nella società capitalistica.
Lo Stato spende, cioè effettua domanda apprestando le opere infrastrutturali già considerate. Il problema che si pone è però: di che tipo di spesa deve trattarsi? Secondo i principi tradizionali (oggi ripresi con vigore) del mantenimento di un pareggio del bilancio statale (o almeno di un deficit da contenersi il più possibile), lo Stato, se vuol spendere di più, deve dotarsi dei mezzi a ciò necessari tramite un accrescimento dell’imposizione fiscale. Così agendo, però, si provoca la diminuzione del reddito dei cittadini, e dunque della loro domanda, al fine di accrescere la domanda pubblica. I conti non tornano. Si dà con una mano e si toglie con l’altra. La domanda (spesa) statale deve essere in deficit di bilancio. E nemmeno è possibile che lo Stato, per poter spendere, accresca il suo debito con l’emissione di titoli (i bot ad es.) perché, ancora una volta, si sottrarrebbe reddito ai privati, indebolendo così la loro domanda per rafforzare quella pubblica. Puramente e semplicemente, si stampa moneta e la si mette in circolazione comprando i fattori produttivi che servono per compiere le varie opere pubbliche.
Secondo la tradizionale teoria quantitativa della moneta, quando lo Stato mette in circolazione una massa di moneta superiore, i prezzi delle merci salgono (inflazione). Secondo la teoria keynesiana ciò è vero solo nel caso che i fattori produttivi (lavoro e capitale) siano pienamente occupati e non si possa perciò accrescere, almeno nel breve periodo (in mancanza di aumento delle potenziali-
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tà produttive dovuto ad investimenti e nuove tecnologie), la quantità prodotta e offerta. Quando invece c’è la crisi, i fattori sono disoccupati; ma, come sopra considerato, è essenziale che lo sia il lavoro così come il capitale (mezzi di produzione); debbono esserci milioni di lavoratori a spasso e migliaia di imprese chiuse, ma potenzialmente in grado di riaprire i battenti, con macchinari che hanno solo bisogno di essere lubrificati e rimessi in movimento. L’importante è solo che riparta la domanda dei beni, perché allora le imprese riprendono a produrre, riassumendo forza lavoro.
La spesa pubblica per infrastrutture, insomma, dà impulso all’attività di una serie di imprese che debbono – tanto per fare un esempio – fornire cemento, acciaio, vetri, infissi, mobilio, ecc. per costruzioni edili. E queste imprese debbono assumere lavoro (dirigente come esecutivo) per produrre; così facendo, distribuiscono salari a lavoratori prima disoccupati, che cominceranno a domandare beni prodotti, a loro volta, da altre imprese. Anche queste allora si riattivano, acquistando beni di produzione e pagando salari ad altri lavoratori prima disoccupati che, con il salario percepito, domandano altri beni di consumo e …..via di questo passo, in un circolo ora virtuoso di ripresa economica.
4. Dalla fine della seconda guerra mondiale iniziò il dominio della corrente keynesiana negli ambiti accademici (e non) di tutti i paesi capitalistici avanzati; e anche negli organismi che orientavano la politica economica internazionale nel campo capitalistico. Le politiche anticicliche basate sull’aumento della spesa pubblica divennero una sorta di dogma, e si credé così di poter scongiurare ogni declino dello sviluppo capitalistico, che invece si ripresentò più volte, anche se mai con la gravità del 1929; la crisi fu ribattezzata recessione, volendo con tale termine indicare dei brevi periodi di arresto dello sviluppo e di sostanziale stagnazione, senza però il presentarsi di fenomeni di particolare gravità economica e sociale.
Ci si accorse abbastanza presto, in particolare negli anni ’70, che la spesa pubblica poteva provocare fenomeni inflazionistici di rilievo, e che la sua funzione anticrisi non era poi così incisiva come supposto subito dopo la politica del New Deal e l’opera di Keynes che ne dava una fondazione teorica. Già nel 1976 in Inghilterra con l’avvento della Thatcher, e poi nel 1980 con Reagan negli USA, si riaffermarono correnti neoliberiste che ripresero le tesi di una politica fondata sul rispetto dell’equilibrio del bilancio statale, cioè su un rigore nell’effettuare la spesa pubblica non più affidata consapevolmente, come sostenuto da Keynes, alla crescita del deficit di detto bilancio. Bisogna ben dire che si trattò comunque più di affermazioni di principio che reali, poiché, almeno negli Stati Uniti, la spesa statale aumentò notevolmente (per motivi militari soprattutto) e così pure il deficit di bilancio. In ogni caso, oggi in quasi tutti i paesi avanzati le correnti keynesiane sono minoritarie e il liberismo è abbastanza saldamente in sella. Si tenga presente che, nei paesi capitalistici europei, le politiche dette keynesiane condussero al cosiddetto Stato sociale, in cui si svilupparono in particolare l’apparato pensionistico e quello sanitario, attualmente in fase di ridimensionamento, moderato ma continuo, in tutti i paesi capitalistici avanzati, ove più ove meno.
La politica economica keynesiana, nella sua funzione anticrisi, non si basava comunque sulle spese sociali; essa propugnava semplicemente la spesa pubblica, l’intervento dello Stato nel settore economico per il rilancio di una produzione che si riteneva fosse entrata in crisi per carenza di domanda. Che la spesa statale assumesse forti connotati sociali, come in Europa occidentale, è stato fenomeno dovuto a motivi più politici che economici: alla presenza cioè del campo “socialista”, di robusti partiti comunisti in alcuni grandi paesi europei (Italia e Francia soprattutto), alla preoccupazione insomma di possibili acutizzazioni della lotta sociale.
Pian piano ha cominciato a farsi strada, anche presso certi ambienti di economisti accademici, una considerazione più meditata della portata della spesa pubblica negli anni di Roosvelt e dell’opera teorica di Keynes. Ci si è resi conto che, esauritasi sostanzialmente la crisi nel 1933, il sistema capitalistico rientrò in una fase di stagnazione due-tre anni dopo (proprio mentre veniva pubblicata, nel 1936, la Teoria generale dell’economista inglese). Solo la seconda guerra mondiale dette una autentica sferzata economica agli USA e poi – finita la guerra e iniziata faticosamente la
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“ricostruzione” postbellica nell’Europa occidentale, con un piano di aiuti, il “piano Marshall”, che non fu un gesto umanitario degli Stati Uniti ma un potente propellente per l’economia di quel paese – all’intero insieme dei paesi capitalistici maggiormente sviluppati; sia a quelli vincenti che a quelli perdenti.
Furono allora formulate – da critici radicals e, in particolare, da certe correnti del pensiero marxisteggiante – tesi di “keynesimo militare”. Sempre in omaggio alla convinzione che il sistema capitalistico, proprio al suo apogeo come opulenza, entra in difficoltà per l’insufficienza di domanda rispetto all’offerta, e dunque alla produzione, si sostenne che a tale inconveniente le classi dominanti ovviavano con spese belliche in grado di alimentare guerre sempre più violente e costose (anche in termini sociali ovviamente). I “riformisti” propugnavano l’antimilitarismo e aumenti salariali (e spese sociali) per sostituire le funzioni della spesa militare con politiche che andassero a vantaggio della popolazione e rafforzassero la democrazia; per alcuni si sarebbe anche potuta verificare, seguendo tali politiche, una pacifica transizione ad un “socialismo democratico” in quanto contraltare al sedicente comunismo dell’est, ritenuto troppo antidemocratico e autoritario.
Oggi, la cosiddetta globalizzazione – cioè la rimondializzazione del capitalismo – ha spazzato via molte illusioni. Si continua ad oscillare – tipico il caso odierno dell’Italia – tra due tesi opposte e poco consistenti. Da una parte, soprattutto proprio i neoliberisti attribuiscono le attuali difficoltà economiche a carenza di domanda, cui vorrebbero ovviare mediante riduzione di imposte cui dovrebbe affiancarsi, in omaggio all’odierna riaffermazione della necessità di un equilibrio del bilancio statale, una riduzione della spesa pubblica, con risparmi da conseguire in specie nell’ambito delle sue partite di maggior consistenza: sanità e pensioni (cioè le spese tipiche del cosiddetto Stato sociale). Si accetta insomma la tesi secondo cui le difficoltà della crescita economica sono dovute a carenza di domanda, ma si pretende di rafforzare quella dei privati (sia consumatori che investitori) restringendo invece l’intervento statale ritenuto fonte di rigidità e inefficienza burocratiche e di soffocamento dello spirito imprenditoriale innovativo.
Dall’altra parte, vi è chi – e fra questi vi sono molti personaggi che si pretendono “di sinistra” – sostiene che, in un mondo ridiventato mercato globale in cui si acutizza una forte competizione interimprenditoriale, è necessario essere particolarmente efficienti e produttivi; il che significa ridurre al minimo possibile i costi di produzione, effettuare spese per la ricerca di nuovi prodotti e di nuovi metodi produttivi, per creare migliori catene di distribuzione commerciale, ecc. Si deve insomma diventare più competitivi in termini di costi, prezzi, qualità, e via dicendo. La crisi viene dunque ancora una volta considerata, da “destra” come da “sinistra”, non come qualcosa di intrinseco al sistema capitalistico, ma soltanto come una carenza di certe scelte politiche o di certe altre.
In pratica, si può ben dire che la scienza economica dominante, praticamente l’unica al momento esistente, ha attualmente rinunciato ad ogni tentativo di trovare una spiegazione strutturale della crisi sempre latente in ogni sistema economico simile a quello, detto capitalistico, che ha iniziato ad affermarsi nel ‘6-700, era in pieno sviluppo già nel secolo XIX e, pur con tutte le importanti modifiche intervenute nel frattempo, continua a permanere oggi in alcune sue forme decisive: imprese, mercati, concorrenza, innovazioni tecniche e di prodotto, decisiva importanza dei settori dello scambio mercantile (generalizzato) e della finanza, ecc. Assistiamo così alla nuova messa tra parentesi del tema della crisi nella “scienza” economica, sempre più ridotta ormai ad analisi empiriche di breve congiuntura e all’apprestamento di modelli da usare per tecniche di intervento politico-economico. Si torna ad affidare quindi le alterne vicende di un sistema complesso come quello capitalistico, ridivenuto mondiale dopo il crollo del “socialismo reale” (1989) e la dissoluzione dell’URSS (1991), a variabili del tutto soggettivistiche: gli “spiriti animali” degli imprenditori privati, le ondate di fiducia (ottimismo) e sfiducia (pessimismo), ecc.
Non si cerca più una spiegazione scientifica, che non può non rinviare alla formulazione di ipotesi intorno agli elementi strutturali, di sistema, che provocano gli arresti dello sviluppo e il suo nuovo rinvigorirsi secondo cicli indubbiamente meno regolari di quanto si era supposto fossero fino a circa la metà del XX secolo. Faccio solo un esempio. Una dozzina di anni fa circa, entrò in una
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lunga fase di crisi strisciante il Giappone, che all’inizio degli anni ’90 tutti prevedevano sarebbe diventato in un periodo relativamente breve il più potente paese capitalistico al posto degli USA. Dopo oltre un decennio di stagnazione – con fenomeni di deflazione perfino dei prezzi, che per noi europei sono quasi inconcepibili, poiché non li abbiamo più vissuti dopo la crisi del 1929-33 – si cominciò a ritenere che ormai tale paese fosse destinato ad un inarrestabile declino. Improvvisamente, da circa due anni, il Giappone ha ripreso a crescere con buoni ritmi; mi sembra proprio che nessuno abbia fornito una spiegazione convincente del suo rilancio economico. Ci si trova quindi in una vera impasse teorica, ed è inutile nasconderlo.
5. Ovviamente, non mi sognerò in questa sede di nemmeno iniziare una discussione sulla possibile formulazione di una teoria delle crisi. Dirò soltanto quello che, a mio avviso, non si dovrebbe più dire e quali direzioni di ricerca mi sembrano utili per tornare a riflettere con maggiore realismo alla teoria in questione. Naturalmente, il primo passo è l’ammissione che non esiste alcuna considerazione di tipo scientifico che non sia di carattere oggettivo (e dunque strutturale); se ci si riferisce solo alle scelte di politica economica, ad errori commessi – e che nessun essere umano può evitare di commettere – e addirittura all’ottimismo o pessimismo degli “agenti economici”, allora si è già abdicato a voler fare opera di scienza.
E’ innanzitutto indubbio che la crisi economica, conosciuta dal moderno mondo capitalistico, è l’interruzione e l’inversione di tendenza di una tendenza allo sviluppo impetuoso delle forze produttive, uno sviluppo che, è inutile negarlo, nessun’altra società (precapitalistica) ha conosciuto. Inoltre, la povertà e miseria (relative), in ogni caso gravi disagi sociali oltre che economici, si verificano nel bel mezzo di un aumento notevole delle capacità produttive del sistema economico-sociale, aumento provocato in modo particolare dai continui (per ondate successive) notevoli progressi della scienza e delle tecnologie produttive. E’ quindi ovvio che, come aspetto di evidenza empirica, si deve ammettere il periodico (ciclico) ripresentarsi di un “eccesso” di produzione in relazione alle capacità di acquisto di parti consistenti, maggioritarie, della popolazione.
Abbiamo già considerato, all’ingrosso, la tesi keynesiana di un risparmio crescente a fronte di un investimento (domanda di beni di produzione) che non è in grado di crescere in modo corrispondente. Da parte marxista, si sono prodotte più tesi; ancora una volta, chiedo di capirle approssimativamente poiché manca la possibilità di una loro spiegazione esauriente, che esigerebbe delle lezioni sulla teoria del valore e plusvalore. Si è sostenuto che la tendenza dei capitalisti (imprenditori) a massimizzare i loro profitti provoca una forte spinta allo sviluppo produttivo nel mentre vengono tenuti relativamente bassi i salari (retribuzioni del lavoro dipendente che sono un costo di produzione per le imprese), da cui tuttavia dipende gran parte della domanda di beni di consumo; anche secondo tale prospettiva teorica, si suppone il verificarsi di un netto scarto tra produzione (quindi offerta) e domanda (a partire dal lato del consumo). Un’altra interpretazione dello stesso processo prende pur sempre le mosse dal forte sviluppo economico in quanto causato dall’intensa tecnologizzazione dei processi produttivi, che dovrebbe provocare la diminuzione del saggio di profitto (rapporto tra profitti e capitale investito, in cui cresce soprattutto la quota del capitale fisso), e quindi della convenienza dei capitalisti ad investire; per di più, si sostituiscono macchine a lavoratori, cresce quindi la disoccupazione e cala così pure la massa salariale e la domanda di beni di consumo.
Un aspetto evidente della crisi è la rottura dei circuiti dello scambio delle merci e di quelli finanziari (con in evidenza la Borsa valori). Ciò accadrebbe perché le decisioni di investire e sviluppare la produzione di queste o quelle merci provengono da tanti centri – le varie imprese capitalistiche – fra loro autonome, in mano a gruppi privati e fra loro in aspra competizione per la preminenza nei mercati. Non vi è quindi alcun coordinamento, si manifesta e si accentua la cosiddetta anarchia mercantile, con squilibri produttivi tra imprese e settori produttivi, si creano ingorghi e accumulo di merci invendute in alcuni di questi; la mancata realizzazione di adeguati ricavi in essi, a fronte dei costi sostenuti, contrae la domanda di merci prodotte da altre imprese e in altri settori, in cui si verifica allora lo stesso processo, con suo allargamento ed intensificazione fino al limite oltre il quale si
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innesca la crisi generale dei mercati. Da queste tesi si generò la proposta relativa ad una pianificazione generale – che esigeva in primo luogo il superamento della proprietà privata delle imprese – che facesse di queste ultime parti interdipendenti di un sistema complessivo, fra loro coordinate da un unico centro decisionale, l’organo della pianificazione statale.
Quest’ultima è andata incontro ad un sostanziale fallimento, portando alla stagnazione delle economie di quella tipologia e alla loro disgregazione finale. Tuttavia, anche nelle economie capitalistiche – in cui i mercati dei vari settori produttivi più importanti sono controllati da oligopoli, attorniati da piccole e medie imprese ad essi subordinate – si sarebbero dovuti produrre fenomeni di tendenziale coordinamento in base agli accordi intercorrenti tra le imprese oligopolistiche in oggetto; nel mentre gli Stati dei paesi capitalistici avrebbero dovuto assumere funzioni di programmazione (versione attenuata della pianificazione). La programmazione è fallita tanto quanto la pianificazione, e sono saltati pure gli accordi interoligopolistici; la competizione, con connessa “anarchia mercantile”, ha teso a svilupparsi nuovamente, ed è oggi in via di tendenziale acutizzazione. Gli accordi eventuali tra grandi imprese – e le fusioni e centralizzazioni proprietarie attualmente in atto in tutto il mondo – sono solo un mezzo per tentare di migliorare le capacità competitive di certi gruppi economico-finanziari contro altri nella lotta per la preminenza nel mercato cosiddetto globale.
Si constatano al presente chiare difficoltà ad una generalizzata e robusta ripresa economica, pur facendo solo riferimento ai paesi a più alto sviluppo. Alcuni paesi, già sottosviluppati (tipo Cina e India), sono in forte crescita, altri sembrano in fase di riavvio (abbiamo già considerato il Giappone), ma vi sono aree in difficoltà come la nostra Europa, che cresce assai stentatamente, con ritmi di quasi stagnazione. Si parla da tempo di ripresa generale del sistema capitalistico rimondializzatosi – dove esiste comunque un’intero continente, l’Africa, in condizioni disastrose, così come molti paesi asiatici e sudamericani – ma si è da qualche anno in attesa che ciò si verifichi in modo deciso ed univoco. Non sembra sia da attendersi, salvo eventi al momento imprevedibili, una crisi del tipo del 1929, ma non è improbabile una fase di difficoltà, con tendenziale (salvo eccezioni) stagnazione – caratterizzata magari da qualche breve impennata in alcuni paesi – un po’ come accadde nel 1873- 96. E oggi non vi è alcun passaggio da un sistema capitalistico concorrenziale ad uno mono(oligo)polistico, passaggio già avvenuto appunto da oltre un secolo.
Il vero fatto è che non sono sufficienti le analisi e considerazioni di natura quasi solo economica. Un conto sono certe onde cicliche di moderata entità e di “congiuntura”; un altro le crisi di maggior momento, “catastrofiche” come nel 1929 o invece di lunga stagnazione come alla fine del secolo XIX. Quest’ultima, ad es., non sembra sia stata semplicemente dovuta al passaggio da una struttura dei mercati di tipo concorrenziale ad una di tipo oligopolistico. Gli ultimi decenni di quel secolo rappresentarono piuttosto la transizione all’epoca detta dell’imperialismo. Alla preminenza dell’Inghilterra nell’insieme dei paesi in cui si affermò con forza il capitalismo – preminenza durata per quasi tutto l’800 – seguì il suo declino e la sempre più acuta lotta per la successione tra alcune grandi potenze, con l’intervento, in particolare, di Germania e USA. Tale periodo, contrassegnato da due guerre mondiali oltre che dalla “grande crisi” del ’29, si chiuse nel 1945 con la netta predominanza degli Stati Uniti in campo capitalistico, mentre il lungo confronto interimperialistico tra le varie potenze ha aperto una serie di crisi politico-sociali – innanzitutto in Russia (prima guerra mondiale) e in seguito, dopo la seconda guerra mondiale, in molti altri paesi – con la formazione del cosiddetto “campo socialista”.
In seguito al “crollo” di quest’ultimo e alla rimondializzazione del capitalismo, gli USA sono rimasti il paese predominante nel mondo. Tuttavia si assiste, pur molto “timidamente”, non solo ad una ripresa di conflittualità e competizione tra grandi imprese multinazionali nel mercato mondiale, ma anche ad un inizio di contrasti politici in varie aree geografico-sociali; l’area di maggior turbolenza è attualmente quella che va dal Medio Oriente all’Afghanistan e Pakistan, fino ai confini di Cina e India. Qui si svolgono avvenimenti che potrebbero (potrebbero, sia chiaro) essere segnali premonitori dell’inizio di una nuova fase di lotta interimperialistica. Fin quando esiste un unico paese sostanzialmente predominante – e la cui predominanza è tanto economico-tecnica e finanziaria
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quanto politico-militare e spesso anche ideologico-culturale; una predominanza che si prolunga nei vari organismi internazionali: politici come oggi l’ONU o economici come oggi Il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca mondiale per lo sviluppo, il WTO (Organizzazione mondiale per il commercio), ecc., tutti largamente influenzati dagli USA – si assiste ad un relativo coordinamento delle varie economie “regionali”. In tali condizioni non è facile l’esplodere di una crisi come quella del 1929, che tenderei ad escludere in tempi brevi. Quella crisi, pur di carattere eminentemente economico-finanziario, risentiva dello scontro aperto tra più potenze capitalistiche; faceva quindi parte dell’epoca caratterizzata dalla lotta interimperialistica, epoca che si chiuse con la seconda guerra mondiale.
Per il prossimo decennio (e oltre), è più facile che si verifichino fenomeni di crisi strisciante, di stagnazione interrotta da brusche, ma brevi (e non generalizzate) impennate, dal declino di certi paesi e aree geografico-sociali mentre altri ascendono ai gradini alti dello sviluppo capitalistico, ecc. Insomma, sembra più probabile una serie di fenomeni (di crisi) somiglianti in qualche modo a quelli del 1873-96 più che a quelli del 1929-33. Per comprendere appieno tali fenomeni, penso sia molto riduttivo limitarsi all’analisi dei processi economici, alla considerazione (quantitativa) degli andamenti di consumi, risparmi, investimenti, innovazioni tecnologiche, rialzi o ribassi dei saggi di interesse o di quelli dei profitti in settori produttivi diversi, sbalzi delle quotazioni di Borsa, e via dicendo. Questi sono certo sintomi, segnali, importanti e vanno seguiti con attenzione. Bisogna però capire che la competizione, anche per quanto riguarda la conquista di maggiori quote di mercato, non è mai solo basata su costi, prezzi, qualità, catene di distribuzione, sistema di finanziamenti, ecc.; è indispensabile la potenza militare, l’influenza politica sui Governi di vari paesi (alcuni in posizione geografica cruciale), una capillare penetrazione culturale dei propri modelli di vita sociale in aree fondamentali.
All’analisi economica deve perciò aggiungersi quella geopolitica; all’attenzione per le quote di mercato delle varie (grandi) imprese deve unirsi quella relativa alle sfere di influenza da conquistare (o riconquistare) e da mantenere. Far credere che staremo tutti meglio se ci attrezziamo ad una virtuosa competizione economico-imprenditoriale in un mercato globale, privo di qualsiasi impaccio e restrizione, è pura ideologia (liberista), che nasconde l’attuale differenza di potenza tra Stati Uniti e il resto del mondo. Tuttavia, sostenere ancora vecchie ricette keynesiane (sedicenti tali) condite di spesa pubblica, facendo credere che le difficoltà economiche dipendono solo da carenza di domanda, è altrettanto sviante; per di più ripropone, nel cuore della “vecchia” Europa, un modello di sviluppo fondato sullo strapotere di gruppi economico-finanziari, che desiderano soltanto di essere lautamente assistiti dallo Stato, “serviti” da apparati politici – nuovi nella forma e nel personale ma vecchi nella sostanza – che sulla manovra della suddetta spesa pubblica hanno prosperato per decenni in mezzo a sperperi (e corruzione) di ogni genere, e che oggi tentano di riprodursi mediante le stesse aberrazioni di un tempo. Sia ai primi (gruppi economici) che ai secondi (politici), manca in generale una visione ampia, di carattere strategico.
Qui però mi fermo, in questa lezione, perché altrimenti il discorso dovrebbe aprirsi ad una considerazione più nettamente politica, e certo non univoca né precisa perché molte, troppe, sono oggi le variabili scarsamente conosciute; proprio a causa della cortina fumogena che le ideologie neoliberiste e neokeynesiane stanno diffondendo ormai da un bel po’ di tempo. Invito solo a riflettere, cercando nuove vie, non restando incantati di fronte alle fumisterie di TV e stampa. La storia non sarà “maestra di vita”, ma ci insegna comunque qualcosa. E quanto è successo a partire dalla fine del secolo XIX e fino ai nostri giorni – le due crisi di tipologia differente già più volte considerate, le due guerre mondiali, il confronto tra campo capitalistico e socialista, l’attuale predominio statunitense – è decisivo per orientarsi di nuovo nel mondo attuale e per i prossimi decenni. Facciamo tesoro delle tante lezioni già ricevute; ma cerchiamo di andare avanti nell’interpretazione del mondo in cui ci troveremo ad operare, probabilmente andando incontro a crescenti difficoltà.
Conegliano, aprile 2005
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