Elezioni, paralisi e politica estera di George Friedman

Styled_logo


[traduzione autorizzata da Stratfor di Piergiorgio Rosso: The Elections, Gridlock and Foreign Policy | Stratfor ]

Gli Stati Uniti hanno tenuto le elezioni la scorsa notte e nulla è cambiato. Barack Obama rimane presidente. I Democratici continuano a controllare il Senato con una maggioranza non a prova di ostruzionismo. I Repubblicani continuano a controllare la Camera dei Rappresentanti. La dinamica politica nazionale ha portato ad un esteso immobilismo del governo. Con la Camera – un’istituzione in cui la disciplina di partito è la norma – sotto il controllo Repubblicano, far passare le leggi sarà difficile e comporterà compromessi. Dato che il Senato è nelle mani dei Democratici, la probabilità che esso voglia prevalere sulle azioni unilaterali dell’amministrazione sono piccole. Tuttavia Obama non ha un sufficiente supporto del congresso per strabilianti nuove iniziative e ottenerne l’approvazione dal Senato in cui i Repubblicani si opporranno, sarà difficile.

C’è un detto spesso attribuito a Thomas Jefferson; “ Il migliore governo è quello che governa meno, così il popolo si disciplina da sé.”. Non sono certo che l’attuale clima politico sia ciò che si intendeva per un popolo che si governa da sé, ma è chiaro che la gente ha imposto limiti estesi a questo governo. La possibilità per lui di continuare ciò che aveva cominciato a fare non è stata annullata, ma la sua possibilità di fare molte cose nuove è stata bloccata.

Il programma per la potenza americana

La paralisi pone le basi per un cambiamento della politica estera  in corso da quando gli USA hanno guidato l’intervento in Libia nel 2011. Ho sostenuto che i presidenti non fanno le strategie e che le strategie sono invece loro imposte dalla realtà. Però in ogni caso aiuta che la volontà soggettiva del presidente e le necessità coincidano, anche se lo scopo non è lo stesso.

In articoli e libri precedenti ho osservato che gli Stati Uniti sono emersi come unica potenza globale nel 1991, alla caduta dell’Unione Sovietica. Ne è emersa impreparata al suo ruolo ed incerta sul come esercitarlo. L’esercizio del potere richiede competenza ed esperienza e gli Stati Uniti non avevano programmi sul come operare in un mondo senza avversari. Aveva interessi globali ma non una strategia globale. Questo periodo iniziò nel 1991 ed ora sta per terminare. La prima fase era costituita da un periodo felice ma illusorio in cui si pensava che non ci fossero serie minacce per gli USA. Essa fu rimpiazzata l’11 settembre [2001-  NdT] da una fase di reazione urgente, seguita dall’opinione che l’unico interesse degli USA era continuare nella guerra contro l’islam radicale. Entrambe le fasi facevano parte di processi fantasiosi. La potenza americana, di per se stessa, era una minaccia agli altri, ed il mondo rimaneva pieno di pericoli. D’altra parte concentrarsi ossessivamente su una cosa ed escludere tutte le altre, era altrettanto pericoloso. La politica estera americana era sproporzionata e si poteva capire. Nessuno era preparato alla potenza degli Stati Uniti. Durante la seconda metà del decennio scorso, l’incapacità di terminare le guerre in Iraq ed in Afganistan, insieme ai  problemi economici, convinse persone ragionevoli che gli USA erano entrati in un periodo di declino permanente. Il tipo di potenza che gli USA hanno non si dissolve così velocemente. La disintegrazione dell’unità europea e la crisi finanziaria cinese hanno ancora lasciato gli USA, non sorprendentemente, come potenza globale senza rivali. La questione è cosa fare di questa potenza.

Lo sfidante sconfitto alle elezioni americane, Mitt Romney ebbe una memorabile ed importante uscita quando disse che non puoi evitare di uscire dai problemi del Medio Oriente. Il punto è che né Romney né Obama hanno articolato cosa tu fai invece nel Medio Oriente – e altrove.

L’uso costante della forza militare non è un’opzione. Prendiamo il caso dell’Impero Britannico. La forza militare era usata con giudizio, ma la via preferenziale era evitare una guerra in favore di accordi politici oppure supportare politicamente, economicamente e coll’aiuto militare i nemici dei nemici. Questo era poi seguito da ufficiali consiglieri ed istruttori delle truppe locali. Come estrema risorsa, quando l’equilibrio non poteva più essere sostenuto e la questione fosse di sufficiente interesse, gli inglesi inserivano una forza soverchiante per sconfiggere il nemico. Finché, come tutti gli imperi, ne furono esausti.

La strategia americana degli ultimi anni, di inserire forze insufficienti per sconfiggere il nemico che poteva essere gestito con altri mezzi e la cui capacità di arrecare danni agli USA era limitata, non sarebbe mai stata la politica dell’Impero Britannico. E neanche costituisce una politica sostenibile per gli USA. Quando la guerra arriva deve essere condotta con forze soverchianti che possano sconfiggere il nemico in modo conclusivo. E pertanto la guerra deve essere rara perché una forza sovrastante è pesante da ottenere e i nemici non sempre sono facili da battere. Il clima di guerra costante che ha caratterizzato l’inizio di questo secolo è strategicamente insostenibile.

Libia e Siria

Secondo me l’ultimo anelito di tale strategia è stato la Libia. L’intervento lì è stato poco meditato: le conseguenze della caduta di Moammar Gheddafi non sono state pianificate e non è stato mai chiarito perché il futuro della Libia interessasse agli USA. La situazione in Libia era fuori controllo ben prima dell’attacco a Bengasi del 11 settembre. E’ stato un esempio di forza insufficiente applicata ad un nemico non certo in una guerra che non era arrivata a livello di urgenza.

L’approccio USA in Siria è molto diverso. La non volontà degli Stati Uniti di farsi coinvolgere direttamente con forze militari, nonostante le sollecitazioni che arrivano da varie direzioni, è un esempio di come un obiettivo strategico anche potenzialmente importante – contrastare l’influenza iraniana in Siria – possa essere raggiunto lasciando che potenze regionali gestiscano il problema oppure convivere con esso mentre esse decidono. Una volta provveduto a quel poco necessario per destabilizzare il governo siriano, gli Stati Uniti sono soddisfatti dal lasciare che la bilancia di potere locale prenda il suo corso.

Non è chiaro se Obama ha intravisto la dottrina che sto discutendo – sicuramente non l’ha seguita in Libia, e la sua politica in Siria potrebbe essere semplicemente una reazione ai calcoli sbagliati fatti in Libia. Ma le intenzioni personali di un leader non sono così importanti come i fatti a cui sta rispondendo, ne abbia lui coscienza oppure no. Era chiaro che gli USA non potevano continuare ad intervenire con forze insufficienti per raggiungere obiettivi non chiari in regioni che non potevano soggiogare.

Ma gli USA non possono neanche ritrarsi dal mondo. Produce circa un quarto del PIL mondiale, come potrebbe? La risposta storica non era un periodo costante di intervento, ma una continua minaccia di intervenire, eseguita raramente, accoppiata ad una sapiente regia della bilancia di potere nella regione. Ancora meglio, quando fosse una strada possibile, sarebbe evitare anche la minaccia dell’intervento o ogni pretesa di gestione e lasciare che la maggior parte dei problemi sia risolta dalle persone che ne sono colpite.

Questa non è tanto una politica quanto una realtà. Gli USA non possono essere il poliziotto globale o l’assistente sociale globale. Gli Stati Uniti sono responsabili di perseguire i propri interessi al minor costo possibile. Se disinteressarsi è impossibile, evitare conflitti che non coinvolgono interessi americani fondamentali è una necessità poiché gli stati fortezza – nazioni che sono costantemente in guerra – hanno dei problemi a mantenere il potere. Sapere quando andare in guerra è un’arte la cui essenza è sapere quando non andare in guerra.

Una delle cose più difficili da imparare per un giovane impero è il principio secondo cui, in gran parte, non c’è nulla da fare. Questa è la fase in cui si trovano gli USA in questo momento. Sta facendo i conti non tanto con i limiti del potere, quanto con la natura del potere. Il grande potere deriva dal capire la differenza fra le cose rilevanti e quelle non rilevanti, e da una radicale indifferenza nei confronti di quest’ultime. E’ una cosa difficile da imparare ma la storia lo sta insegnando agli Stati Uniti.

L’impasse interno

La paralisi di governo indotta da queste elezioni è un’utile cornice per questa lezione. Se Obama volesse lanciare iniziative importanti di politica interna, non potrebbe farlo. Allo stesso tempo non sembra avere voglia di avventure esterne. Non è chiaro quanto questo sia semplicemente la risposta a calcoli sbagliati oppure una sincera comprensione strategica, ma in ogni caso, gli verrà naturale adottare una politica estera più cauta.

Questo creerà un contesto che inizierà a istituzionalizzare due lezioni. Primo, raramente è necessario andare in guerra, e secondo, quando vai in guerra vacci con tutto quello che hai. Obama seguirà la prima lezione, e c’è tempo affinché la seconda sia imparata da altri. Metterà in pratica la studiata indifferenza che la gran parte dei problemi di politica estera pongono agli Stati Uniti. Ci sarà molta scontentezza all’estero sulla seconda amministrazione Obama. Se è vero che il mondo condanna gli USA quando fa qualcosa, almeno una sua parte di solito richiede una qualche azione. Obama li deluderà, ma non è Obama. Così come le elezioni lo paralizzeranno all’interno, la realtà lo limiterà nella sua politica estera. I padri fondatori avrebbero apprezzato l’immobilismo, che fosse in politica interna oppure in politica estera. Gli elettori hanno dato alla repubblica un governo che glielo darà in entrambi i casi.