EPPUR SI MUOVE di G.P.

LA NATURA DELLA CRISI IN CORSO

Ma l’universo nel giro di una notte ha perduto il suo centro e la mattina dopo ne aveva un’infinità. Tanto che ognuno – oppure nessuno, – adesso ne sarà considerato il centro. Da un momento all’altro, guarda quanto posto c’è.

Vita di Galileo di B. Brecht

Le epoche di crisi generale (politica, economica, sociale), come quella nella quale siamo attualmente invischiati, sono il portato di uno “scollamento” egemonico conseguente all’intensificazione della lotta interdominanti che rivela all’orizzonte – e tale tendenza andrà rafforzandosi nel giro di pochi anni, fino a sfociare in una fase pienamente policentrica – l’emersione di nuovi poli di potenze a livello mondiale.

I sintomi più eclatanti dell’entrata in questa fase multipolare sono la caduta di tutti gli indici economici, sia reali che finanziari, il diffondersi di un clima di sfiducia ai vari livelli sociali (alimentato dall’abbassamento del tenore di vita per gran parte della popolazione) ed uno sfaldamento culturale che si allarga a causa della perpetuazione di menzogne sempre più grandi che i gruppi dirigenti corrotti e asserviti agli Usa devono diffondere per nascondere la vera natura del crollo economico in corso.  Tale situazione, soprattutto nei paesi maggiormente dipendenti dalla potenza centrale, porta alla disgregazione dei precedenti blocchi sociali di “tenuta egemonica” che si rivelano non più adeguati a gestire il nuovo periodo multipolare.

La crisi agisce, pertanto, sia in orizzontale (effetto primario di segmentazione) con l’acuirsi degli attriti tra aree e formazioni capitalistiche in crescente conflitto geopolitico, sia in verticale (effetto secondario di stratificazione) con decomposizione e ricomposizione delle alleanze tra gruppi e ceti sociali all’interno dei diversi paesi.

Questi processi ricadono quasi interamente nella sfera decisoria dei dominanti e solo liminarmente possono essere influenzati dai gruppi e soggetti collettivi non decisori. Dico ciò perché, in questo particolare momento storico, è inutile continuare a raccontarsi delle storie grazie alle quali  alimentare illusioni del tutto deleterie per i dominati. I sognatori rivoluzionari, armati di buoni sentimenti e di tanta idiozia, si facciano da parte e non avvelenino, con la loro mendicità utopistica, i pozzi della teoria sociale che richiede rigore scientifico e analisi concreta della situazione concreta.

Come detto, questa sintomatologia superficiale non può essere compresa se si resta sul piano scivoloso della sfera mercantile della “civiltà” capitalistica, dove il rapporto cause-effetti appare quasi sempre rovesciato.

Tali crisi si mostrano, innanzitutto, in quella che Marx definiva la sfera circolatoria, con la debacle economica (e finanziaria) che prende il davanti della scena. I sommovimenti fenomenici in tale ambito celano però un sottostante scontro tra “falde tettoniche”, dovuto all’accentuarsi della deriva dei “continenti sociali” sul magma conflittuale (nascita di poli geopolitici) e relativa ridefinizione dei rapporti di forza tra le formazioni particolari che compongono la formazione capitalistica mondiale.

Proprio in quei paesi dove la lotta tra agenti dominanti è fortemente condizionata dalla sottomissione alla potenza ancora egemonica, il ricorso alla ideologica economicistica (la tenzone liberismo-statalismo) riflette, in misura prorompente, l’asservimento di detti gruppi decisori nazionali alle strategie più aggressive del Paese centrale il quale tenta di rallentare gli effetti prodotti dal nuovo contesto multipolare.

In questi paesi si ricorre ai soli palliativi redistributivi o ai piani di aiuto alle banche e alle imprese in difficoltà (negli Stati Uniti viene fatto senz’altro anche questo ma con lo sguardo fisso sul mappamondo), più per neutralizzare il malcontento generale che per trovare una via d’uscita meno approssimativa dalla crisi, cosa che richiederebbe ben altre iniziative di respiro politico.

Sul fronte internazionale, invece, queste potenze subdominanti si limitano a rielaborare, in funzione ideologica, i messaggi provenienti dal Centro Predominante e li utilizzano per alimentare paure collettive attestanti ancor di più a quale livello infimo di servilismo siano giunti simili capitalisti: l’allarme terrorismo, l’allarme nucleare, i rogue states ecc. ecc.

Tutto ciò ha riflessi negativi all’interno di ciascuna formazione sociale con proliferazione degli istinti più bassi e rozzi in ogni comunità. La possibilità del cortocircuito sociale diviene così un’ipotesi non troppo lontana e senza un intervento tempestivo per ostacolare l’azione di questi dominanti supini all’ordine statunitense, siano essi camuffati da difensori degli sfruttati o da patrioti che fingono di avere a cuore le sorti del Paese, si corre il rischio di essere schiacciati dai processi di riconfigurazione geopolitica delineantisi a livello mondiale, con gravi conseguenze per la propria futura autonomia.

Su questo terreno aumentano gli scontri tra le organizzazioni rappresentative dell’imprenditoria (appoggiate soprattutto dalla destra politica) e quelle burocratizzate dei ceti iperprotetti del lavoro assistitito, generalmente coincidenti con il settore pubblico (appoggiate dalla sinistra politica).

Questo sotto-conflitto nella sfera economica che esonda dai suoi argini e occupa tutta la scena sociale ha una natura meramente predatoria in quanto sia gli uni che gli altri mirano ad accrescere la propria capacità di drenare risorse nazionali (che sempre di meno contribuiscono a produrre) al solo fine di preservare i propri appannaggi castali. Ma si tratta di una conflittualità tra gruppi parassitari che, per garantirsi la sopravvivenza, rallentano le soluzioni politiche indispensabili a portare il Sistema-Paese nella nuova fase.

Il totale imbrigliamento degli attori politici in questa lotta di infimo profilo (in realtà, si tratta di una connivenza bella e buona perché quest’ultimi, come sempre accade nelle formazioni sociale succubi di un potere centrale straniero, sono subordinati agli agenti della finanza parassitaria e industrial-decotta autoctona in rapporto di filiazione diretta da quella predominante) distrae energie indispensabili che, invece, dovrebbero essere impiegate per sostenere le imprese di punta, ovvero quelle ancora capaci di aggredire i mercati e di favorire accordi strategici con aree e formazioni sociali che si stanno trasformando in poli di potenza.

Non solo. Gli agenti politici dovrebbero, altresì, assumere decisioni più coraggiose per aprirsi la possibilità di giungere ad alleanze di vario tipo e trovare una collocazione più favorevole nel campo di forze generato dall’azione dei centri multipolari in gestazione.

Altrove ho già scritto quali conseguenze porta con sé tale situazione di estremo servilismo. Mi scuso per la lunga autocitazione ma mi pare sia utile riportarla interamente in questo articolo: “La suddetta plutocrazia di poteri finanziario-industriali (GF&ID), abbarbicata ai propri appannaggi, segna la resistenza delle produzioni più vetuste del sistema-paese – quelle lasciate indietro dalla “terza” e “quarta” rivoluzione tecnologica – alla maggiore concorrenzialità dei comparti innovativi delle nanotecnologie, della robotica, della ricerca nel settore energetico (dove invece eccellono gli americani) con pochi attori di primo piano, come l’Eni o la Finmeccanica, ancora capaci di penetrare i mercati internazionali pur contando su appoggi politici limitati. Possiamo dire che si tratta dell’esito nefasto di un’assuefazione dei nostri gruppi sub dominanti decotti alla supremazia incontrastata della potenza centrale predominante (gli USA) la quale continua a sospingere l’industria dello “stivale” nelle sezioni di nicchia di mercati ormai saturi (laddove vige una concorrenza spietata con i paesi di recente industrializzazione che si servono di produzioni a bassa composizione organica di capitale, con impiego preponderante del fattore lavoro a costi irrisori) “distraendo”, altresì, gli impieghi della finanza nostrana verso la mera speculazione di borsa. La rinuncia all’elaborazione di una strategia economica (e politica) autonoma da parte dell’Italia sta determinando: 1) l’obsolescenza del nostro apparato (privato) industriale, il quale deve necessariamente appoggiarsi allo Stato per evitare il fallimento, 2) il deterioramento delle infrastrutture pubbliche (trasporti, reti telefoniche ecc.ecc.)svendute da una classe politica complice del sacco delle risorse nazionali a presunti “capitani coraggiosi” e all’onnivoro sistema bancario 3) una eccessiva “diversione” speculativa del sistema finanziario medesimo incapace di sostenere il “rischio” imprenditoriale, fondamentale per incunearsi nei settori merceologici con le maggiori potenzialità di crescita. Diciamo pure che tutta l’Europa, con piccole differenze tra le varie nazioni, è sottoposta alla “cura dimagrante” di Washington che stringe in un abbraccio mortale il vecchio continente al fine di scaricare su di esso le sue politiche di aggressività egemonica, riducendolo ad un cuscinetto protettivo nei confronti dell’area euroasiatica in ribollimento. In una fase in cui il monocentrismo americano è messo in discussione dal risveglio militare ed economico di formazioni sociali di tipo capitalistico (anche se solo parzialmente assimilabili alla occidentale formazione dei funzionari privati del capitale: Russia in testa, ma anche Cina e India) l’Italia e l’Europa si accontentano delle forme d’accattonaggio filo-imperiale, rinunciando a qualsiasi progetto di autonomia. In questo contesto di deperimento generalizzato delle strutture della società italiana, ridotta a provincia d’appendice dell’impero americano, il controllo della sfera culturale viene affidato a “precettori” ben retribuiti ed ad uno stuolo d’intellettuali tanto più “decorati” quanto più si prostrano in manifestazioni di smaccato codinismo. Questi innumerevoli maitre-a-penser della banalizzazione concettuale, ad uso e consumo delle classi dominanti e delle plebi sciocche e identitarie – primieramente formatisi alla scuola del movimentismo studentesco degli anni ’60 – diffondono le teoresi più bizzarre, intrise di psicologismo e sociologismo da quattro soldi, per distogliere l’attenzione dalle contraddizioni sociali, geopolitiche, economiche più impellenti. Tuttavia, il loro compito precipuo, oltre all’indagine sullo spaesamento individuale e collettivo di fronte all’incedere della post-modernità (in realtà un’ennesima modernizzazione capitalistica a livello ideologico, proprio come la globalizzazione, da intendersi quale rimodulazione del mondo capitalistico verso una piena omologazione alla formazione sociale americana) è quello, da un lato, di generare “dissimulazioni ideali” e falsi dilemmi per coprire la natura dello scontro in atto tra gli agenti strategici, mentre, dall’altro, essi puntano a disinnescare e dirimere l’irriducibile carica oppositiva degli interessi contrapposti emergenti nella società divisa in classi”. (Ideologia, Stato, Geopolitica, pubblicato in Comunismo e comunità)

Non torno ora sugli aspetti ideologici e sulla specularità di certe posizioni economicistiche di offuscamento dei conflitti in atto, mirabilmente descritti da La Grassa nel suo ultimo scritto “Competizione o cooperazione?”(ma anche in altri saggi, per esempio in “Contro le quattro ideologie” ecc. ecc.) ma voglio piuttosto sottolineare come l’unica via d’uscita all’impasse rappresentato dalla crisi richieda soluzioni prettamente politiche, anche se legate all’azione sui mercati delle nostre imprese più innovative. Quest’ultime devono essere sostenute in tutti i modi possibili per avvicinare il nostro paese alle potenze che si stanno smarcando da Washington e devono divenire strumento per condurre una politica estera attiva e indipendente.

Non è un caso che su queste nostre imprese, fiore all’occhiello del Sistema-Paese, si concentrano le attenzioni tanto degli stranieri che dei principali gruppi dominanti italiani. Ho ripreso nei giorni scorsi alcuni articoli che segnalavano i tentativi dei gruppi parassitari della nostrana GF&ID di depotenziare l’azione dell’Eni sui mercati nazionali e su quelli esteri. Per esempio l’ad di Sorgenia (gruppo CIR di De Benedetti) denunciava le politiche di sostegno all’Eni come manovre di concorrenza sleale, mentre sarebbe stato più saggio puntare sui rigassificatori (ovviamente prodotti dalla stessa Sorgenia) al fine di slegare l’Italia dalla dannosa dipendenza dalle fonti di approvvigionamento dell’Est Europa (leggi Russia). Oppure le accuse lanciate dalle imprese estrattive americane (appoggiate dai loro governanti a Washington) sulla formazione di un monopolio in Libia che vede protagoniste ENI, NOC e Gazprom, le quali potrebbero presto creare una compagnia unica nel paese nordafricano, per meglio penetrare i mercati energetici.

E’ chiaro che questi accordi tra imprese innovative e di grande rilievo internazionale devono essere preceduti da intese tra i governi direttamente interessati. Senza questi accordi preventivi, di natura squisitamente politica, dette imprese sarebbero poste sotto immediato attacco da parte di chi (come gli statunitensi) tenta di allargare il proprio controllo su intere aree strategiche (sia per appropriarsi delle materie prime, sia in funzione di contenimento delle potenze emergenti). Di fatti, subito dopo il diffondersi di questa notizia i giornali Usa hanno alzato un coro di sdegno contro i tre dittatori Putin, Gheddafi e Berlusconi i quali agirebbero contro le supreme leggi del mercato. Se invece di sponsorizzare questo accordo Berlusconi si fosse concesso pienamente al progetto americano del Nabucco (pare che la Commissione Europea sia pronta a versare un 25% del costo totale del progetto), gasdotto con il quale si prevede di prelevare gas dall’Asia Centrale e dal Turkmenistan, aggirando la Russia, allora Berlusconi sarebbe divenuto un paladino della liberta…della libertà condizionata che gli americani concedono ai vassalli.

Il dibattito su queste questioni comincia a diventare sempre più forte, man mano la crisi avanza  e con essa la richiesta di soluzioni più efficaci per venirvi fuori. In Italia, agiscono forze antinazionali teleguidate dalla solita mano statunitense che puntano a far fallire le sopradescritte sintonie strategiche. Questo partito trasversale (di destra e di sinistra), diretto  dalla GF&ID, alimenta l’azione distrurbatrice delle varie anime filoamericane che hanno come obiettivo quello di screditare la troppo stretta vicinanza concretatasi tra Russia e Italia, andando a rimarcare, al contempo, l’inaccettabile (per chi?) mancanza di alternative energetiche del nostro paese sempre più dipendente da Mosca.

Siamo davvero al paradosso, si paventa una possibile dipendenza (che tale non è) dalla Russia mentre esiste da decenni un servilismo effettivo e conclamato, in tutti i suoi effetti negativi, nei confronti degli Usa. Per rendervi conto di quello che stiamo dicendo vi consiglio la lettura dei due articoli che riporto più sotto. Il primo, tratto da Pagine di difesa, a firma di Giuseppe Croce, mette chiaramente in risalto l’importanza che un’azienda come l’ENI avrà nel futuro: …quale strumento principale della politica estera italiana, il soft power che supplisce a un hard power su cui l’Italia non ha mai voluto (o potuto) investire più di tanto. E se l’Eni serve a far politica estera, in un periodo in cui un governo è troppo filoamericano e il successivo lo è troppo poco, allora l’Eni deve essere forte e libera sul mercato internazionale e non può avere lacci e lacciuoli su quello nazionale. D’altronde i governi passano, l’Eni resta”. Questa è anche la nostra posizione che riteniamo la più lungimirante per il lungo periodo, al fine di garantire all’Italia le mani libere dalle catene imperiali in un momento storico che si annuncia difficilissimo.

Il secondo articolo mette invece sulla bilancia gli interessi del partito filoamericano che sta puntando i piedi affinché l’Italia aderisca solo alle idee e ai programmi che Washington dispone per essa. L’estensore di tale articolo sostiene esplicitamente che sta diventando …sempre più allarmante la nostra dipendenza da questi Stati [Libia, Algeria, Russia, ndr],  la nostra mancanza di alternative energetiche e lo scarso impegno di ENI e del governo in progetti come il gasdotto Nabucco, che mira a rifornire l’Europa senza passare per la Russia.

E perché mai l’Orso russo che tenta di rialzarsi dovrebbe spaventarsi più del rapace Condor americano che pare al momento un po’ claudicante? Non ci facciamo illusioni, la prepotenza americana durerà ancora a lungo ma è questo il momento storico più propizio per dare un minimo di equilibrio alla partita geopolitica che aprirà nell’imminente futuro.

 

 

Ps. Gli articoli in questione sono stati segnalati da A. Berlendis il quale ha anche evidenziato i passaggi più salienti e di grande interesse per gli argomenti qui trattati.

 

Pagine di difesa  www.paginedidifesa.it

Quella lunga scia che odora di petrolio

 

Giuseppe Croce, 28 aprile 2008

 

 

Il presidente uscente, e futuro premier, russo Vladimir Putin è da poco tornato dal suo ultimo viaggio presidenziale all’estero: il 16 e 17 aprile, infatti, Putin ha visitato la Libia di Gheddafi. Una visita, quella del futuro premier russo, assai significativa e che idealmente chiude il mandato presidenziale nel segno della più assoluta continuità perché, come è logico aspettarsi da una visita in uno dei maggiori Paesi produttori di idrocarburi, è servita a formalizzare accordi importanti e di lungo respiro che rafforzano ulteriormente la posizione di Gazprom come leader mondiale del gas naturale.

 

Putin, in totale, è andato via da Tripoli con una decina di contratti stipulati. Contratti che non avevano a che fare soltanto con le esportazioni di gas, ma che riguardavano anche la fornitura di armi e mezzi militari russi ai libici. I rapporti tra i due Paesi, quindi, risultano assai rafforzati dall’incontro Gheddafi-Putin sotto molti aspetti. L’aspetto energetico, però, è quello più interessante per l’Italia perché tra le cose di cui i due leader hanno discusso c’è anche il passaggio di parte di un campo petrolifero libico dall’Eni a Gazprom. Si tratta del giacimento Elephant, da cui si estraggono circa 125mila barili al giorno e di cui Eni ha una quota di produzione pari a 24mila barili.

 

Naturalmente Eni non ha regalato tale giacimento a Gazprom, ma si tratta di una contropartita. In particolare la cessione della quota Eni di Elephant è va a ricambiare l’acquisto di due società russe: Arctic Gas e Urengoil. Entrambe le società derivano dallo smembramento del colosso energetico Yukos, società fallita in circostanze assai sospette nel 2003 in seguito all’incriminazione per evasione fiscale del suo presidente Mikhail Khodorkovsky.

 

La vicenda Yukos, come molti ricorderanno, è stata negli anni scorsi uno spartiacque nell’ascesa al potere di Vladimir Putin. Khodorkovsky, multimiliardario russo, vicino agli Stati Uniti e arcinemico di Putin, all’inizio di questo decennio aveva abbozzato un ingresso in politica proprio per far fronte all’ascesa inarrestabile di Putin e dei suoi fedelissimi. Dal giorno alla notte, però, il ministero del Tesoro russo scoprì un’evasione miliardaria alla Yukos chiedendo al suo presidente di saldare il debito con lo Stato nel giro di pochi giorni. Richiesta che, ovviamente, Khodorkovsky non aveva alcun modo di soddisfare, anche perché la riteneva illegittima. Fatto sta che Khodorkovsky fu processato in un baleno e spedito in Siberia con una pena di otto anni per una sfilza di reati finanziari.

 

La Yukos, quindi, fu acquisita dallo Stato e messa all’asta. Tutti credevano che a comprarla sarebbe stata Gazprom, società che al tempo era in maggior parte privata ma controllata da imprenditori fedeli a Putin. Durante l’asta, però, ci fu un colpo di scena: Gazprom, infatti, non rilanciò l’offerta fatta dall’altro concorrente (erano solo in due), l’azienda statale Rosneft che si aggiudicò Yukos per pochi spiccioli: 230 milioni di dollari. In realtà a comprare Yukos non fu direttamente Rosneft ma Baikal, una società fantasma creata pochi giorni prima che aveva sede legale in un ufficio della Rosneft. Fatto sta che, con una abilissima (quanto brutale) manovra Putin aveva fatto fuori il suo principale concorrente e acquistato a due lire il maggior concorrente della sua amata Gazprom.

 

In seguito alla riacquisizione di Gazprom da parte dello Stato, poi, la Federazione Russa si trovava con due giganti statali dell’energia: Gazprom e Rosneft. La fusione tra le due aziende fu indolore e creò il colosso degli idrocarburi che tutti oggi conoscono, la Gazprom dei giorni nostri. L’eredità della Yukos, quindi, è stata gradualmente messa a sua volta all’asta e le due società di cui sopra, Arctic Gas e Urengoil, sono state acquistate il quattro aprile 2007 dal consorzio Eni-Neftgaz, composto al 60% da Eni e al 40% da Enel. Società entrambe italiane, entrambe con lo stesso socio di maggioranza statale (cfr. Liberalizzazione dell’energia, nessuno tocchi Enel ed Eni, G.Croce 5 novembre 2007), in teoria in concorrenza sul mercato italiano di elettricità e gas ma evidentemente in ottimi rapporti quando si tratta di fare affari all’estero.

 

Si conferma, quindi, l’ottimo rapporto tra Eni e Gazprom che continuano a scambiarsi piaceri nel quadro generale di una collaborazione ormai di ferro. Affari del genere, per completezza lo si deve ammettere, Gazprom li sta facendo con le compagnie petrolifere di mezza Europa. Giusto per fare un esempio ha ‘scelto’ la francese Total come acquirente vincitrice dell’asta per il giacimento di Shtokman situato nella parte russa del Mare di Barents. A partecipare a quella gara nel luglio 2007, oltre a Total, si presentarono anche le norvegesi Statoil e Norsk Hydro e l’americana ConocoPhilips. Ma si sa che i russi non vanno molto d’accordo con i popoli del nord Europa e, men che meno, con gli americani.

 

Ma tornando all’acquisto di Arctic Gas e Urengoil da parte di Eni ed Enel, come già accennato l’affare prevedeva una contropartita. Tale contropartita da parte di Eni fu individuata nel giacimento libico Elephant e la notizia è stata data il 17 aprile scorso, proprio mentre Putin era da Gheddafi. È assai probabile, però, che non sia stata l’Eni a decidere la contropartita ma sia stata la stessa Gazprom a pretendere una presenza in Libia. Lo confermerebbe il fatto che pochi mesi fa, il 16 ottobre 2007, la società italiana abbia firmato con la Noc libica il nuovo contratto di sfruttamento di Elephant, aggiornando il vecchio contratto Psa con un recente Epsa IV e prorogando i termini di scadenza al 2042 per il petrolio e al 2047 per il gas. Se il giacimento andava ceduto, a che serviva mettere a posto le carte per il futuro?

 

Gazprom, tra l’altro, potrebbe adesso chiedere ai libici di rispettare quei contratti firmati con l’Eni e ciò vorrebbe dire una presenza russa in Libia per almeno 25 anni. Qualunque sia la durata reale dello sfruttamento delle risorse libiche da parte dei russi, però, resta il fatto che Gazprom ha fatto un ulteriore passo avanti nella sua strategia di espansione nel Mediterraneo. Ciò vuol dire, e basta una carta geografica per rendersene conto, che il maggiore produttore al mondo di gas naturale lentamente, ma senza sosta, sta accerchiando uno dei suoi maggiori clienti, ovvero la povera (di gas ma non ancora di euro) Europa.

 

Un precedente passo in questa direzione Gazprom lo aveva fatto già un paio di anni fa con l’accordo strategico stipulato con Sonatrach, la compagnia petrolifera statale algerina (cfr. Conseguenze del memorandum d’intesa tra Gazprom e Sonatrach, G.Croce 14 agosto 2006). L’Algeria, insieme alla Libia, è fra i maggiori fornitori di gas naturale e petrolio all’Europa. Non bisogna dimenticare, infatti, che già da anni l’Algeria esporta gas in Italia tramite il gasdotto Transmed che ha come terminale in Europa il porto di Mazara del Vallo (Tp). E sempre in Sicilia, a Gela (Cl) termina il Green Stream, altro gasdotto che porta gas dalla Libia. A questi due gasdotti, a breve dovrebbe aggiungersene un terzo, il Galsi, che trasporterà gas dall’Algeria alla Sardegna.

 

Un bel triangolo, quindi, tra Russia, Libia e Algeria, e cioè tra Gazprom, Noc e Sonatrach: se escludiamo le compagnie norvegesi, che estraggono il gas e il petrolio del Mare del Nord (tra i vari prodotti estratti, il famosissimo Brent) in pratica i tutti i grossi produttori di idrocarburi che esportano in Europa hanno fatto comunella. E il cerchio si chiude. A questo punto è lecito pensar male: prima di far ritorno in Russia, Putin ha avuto l’accortezza di fare tappa in Sardegna per far visita all’amico Silvio Berlusconi.

 

Una visita privata tra amici, così è stata definita nonostante si sapesse già che Berlusconi aveva stravinto le elezioni. Sarebbe stato diplomaticamente scorretto, però, far visita ufficiale al futuro premier senza andar a trovare anche l’uscente Prodi. Fatto sta che Putin e Berlusconi in Sardegna, oltre a chiedersi come stanno le rispettive signore (o le future signore, nel caso di Putin) si sono messi a parlare anche di affari, tanto è vero che è uscita anche la possibilità che Aeroflot faccia un’offerta per Alitalia. Ma questo è un altro discorso che, se la cosa si concretizzerà, faremo certamente in futuro. E ci sarà molto da raccontare.

 

Tornando alla visita in Sardegna, difficile che Putin e Berlusconi non abbiano parlato anche del futuro del Galsi che, proprio in Sardegna dovrà arrivare. Non possiamo, infatti, dimenticare che a nominare Scaroni amministratore delegato dell’Eni è stato il governo Berlusconi e non possiamo, infine, non ammettere che l’Eni in questa vicenda ha avuto un ruolo tutt’altro che marginale, visto che la cessione di Elephant rientra in un piano industriale ben preciso. Si tratta, in poche parole, di una strategia complessa, a lungo termine e studiata nei dettagli dal management dell’azienda italiana: un piano industriale che ha scelto di entrare pienamente nel Club Gazprom, con tutte le conseguenze che tale ingresso comporta.

 

Conseguenze che piaceranno molto ai grandi investitori istituzionali presenti nel Cda dell’Eni e molto meno agli utenti del mercato italiano. L’azienda Eni, a conti fatti, da quando ha intrapreso questa strategia ha aumentato enormemente il suo valore sul mercato e da anni presenta bilanci splendidi. Si è poi affermata nel mercato internazionale, ed europeo in particolare, perché ha accresciuto notevolmente le sue riserve. Facendo accordi di lungo periodo con Gazprom, infine, si è garantita commesse per milioni di euro per Saipem, il ramo d’azienda che materialmente fa le perforazioni dei pozzi e dei giacimenti. Saipem, oggi, è uno dei leader mondiali del settore. Ed è pure brava, se lo merita.

 

Il rovescio della medaglia, però, lo pagano i consumatori italiani che hanno visto la propria azienda statale (oggi ex statale, ma solo in parte come già visto) allearsi con le aziende estere con cui non è riuscita a ‘trattare’ sui prezzi degli idrocarburi. Dal lato industriale la scelta è stata azzeccata, lo avrebbe fatto chiunque: “if you can’t beat them, join them”, usano dire gli inglesi. Se, però, ci mettiamo nei panni dei consumatori le preoccupazioni nascono spontanee anche perché la politica italiana (di destra come di sinistra, Berlusconi ma anche Prodi) ha sempre apprezzato le manovre di mercato di Eni.

 

La politica italiana, quindi, ha contemporaneamente liberalizzato il mercato dell’energia nel nostro Paese, seguendo abbastanza fedelmente le direttive europee, guardandosi bene, però, dal diminuire la libertà dei campioni nazionali (Eni ed Enel in testa) su tale mercato libero dell’energia. Sul perché di questa scelta le ipotesi potrebbero essere molte. La prima spiegazione possibile è la più immediata, e per questo anche la meno ragionata è la più impulsiva: ci sono in mezzo certi poteri (si dia un’occhiata a chi siede del Cda di Eni ed Enel) che fanno affari e non vanno disturbati. È una risposta, per definirla con un termine assai alla moda oggi, ‘antipolitica’ e leggermente qualunquista. Ma non troppo e non ha tutti i torti.

 

Una risposta più profonda, invece, non può che rifarsi al ruolo storico dell’Eni: lo strumento principale della politica estera italiana, il soft power che supplisce a un hard power su cui l’Italia non ha mai voluto (o potuto) investire più di tanto. E se l’Eni serve a far politica estera, in un periodo in cui un governo è troppo filoamericano e il successivo lo è troppo poco, allora l’Eni deve essere forte e libera sul mercato internazionale e non può avere lacci e lacciuoli su quello nazionale. D’altronde i governi passano, l’Eni resta.

 

 

L’Italia, nel Mediterraneo. Un cambio di rotta?

Dario Cristiani (June 2, 2008)

 

Intervista con Riccardo Fabiani, analista politico per il Nord Africa ad Exclusive Analysis.(http://www.exclusive-analysis.com .Exclusive Analysis is a strategic intelligence company that provides evidence-based forecasts for violent and political risks worldwide.  )

 

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L’Algeria è un partner fondamentale per i bisogni energetici dell’Italia. Che tipo di valutazione dà delle scelte operate dall’Italia nell’area maghrebina rispetto a questo particolare aspetto?

 

 

Nonostante la probabilità di un cartello energetico regionale formato da Russia, Algeria e Libia sia piuttosto alta e nonostante il nostro Paese sia il più dipendente in Europa dalle forniture di gas di questi Stati, l’Italia, come tutti gli stati membri dell’Unione Europea, sta procedendo autonomamente su questo punto. La politica dell’ENI ricalca delle modalità simili a quelle seguite da altri colossi energetici europei: stabilire una relazione strategica con i propri fornitori, Gazprom, la compagnia libica NOC e l’algerina Sonatrach, contando sul fatto che in caso di aumento dei prezzi verremo trattati diversamente proprio grazie al nostro ruolo centrale nello scacchiere energetico europeo. In effetti, ENI è riuscita finora a conquistare un ruolo di primo piano nella partnership con Gazprom e Libia e di recente ha ceduto proprio alcune concessioni in quest’ultimo Paese al gigante russo per rafforzare questo rapporto. Resta il fatto che sono sempre più allarmanti la nostra dipendenza da questi Stati,  la nostra mancanza di alternative energetiche e lo scarso impegno di ENI e del governo in progetti come il gasdotto Nabucco, che mira a rifornire l’Europa senza passare per la Russia.

 

Riccardo Fabiani è analista politico per il Nord Africa ad Exclusive Analysis e collabora come free lance con diversi centri studi internazionali. Laureato all’Università di Roma Tre, ha ottenuto il suo MPhil in Relazioni Internazionali dall’Università di Cambridge. Tra i suoi settori principali di interesse vi sono l’Africa del Nord ed il Mediterraneo, la storia della Guerra Fredda e la politica estera italiana.

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