Esiste il Capitalismo?
Si continua a parlare di capitalismo, quale sistema di rapporti (sociali ed economici) storicamente specifici, senza analizzare le trasformazioni che esso ha subito nei decenni. Probabilmente, parlare attualmente di capitalismo tout court, anche per una comodità espositiva, è divenuto fuorviante. Sappiamo per certo che l’alternativa al capitalismo d’antan, il socialismo “realizzato”, è fallita, pur avendo modificato il mondo, avendo prodotto dei risvolti non voluti agenti anche nella nostra contemporaneità. Ma anche il capitalismo di oggi, se proprio vogliamo mantenere tale denominazione, non è il capitalismo che è stato sotto la lente d’ingrandimento dei grandi economisti del passato e nemmeno dei suoi critici. Ricardo, Smith (e loro “successori neoclassici”) o anche Marx avrebbero difficoltà ad analizzare strutture e apparati del presente con le loro categorie settecentesche o ottocentesche. Lo stesso vale per gli studiosi delle varie scuole novecentesche. Eppure, il capitalismo, o forse sarebbe meglio dire i capitalismi, si sono evoluti fino a trasfigurarsi in qualcosa d’altro che non è stato bene individuato con un saldo approccio scientifico. Senza dubbio, esiste uno spartiacque epocale da prendere in considerazione. Il passaggio dal capitalismo di tipo inglese-europeo al capitalismo americano-atlantico. Con l’emergere della superpotenza oltreoceanica, quale egemone del mondo occidentale, si è affermata una diversa formazione sociale portatrice di rapporti “a dominanza” non direttamente ricollegabili a quelli precedenti sviluppatisi sul Vecchio Continente. L’innovazione è stata, a volte, di difficile discernimento perché alcuni capisaldi del capitalismo hanno mantenuto le forme usuali ma in un contesto completamente mutato, nei ruoli degli attori in gioco e nelle loro relazioni fondamentali.
Il capitalismo americano è insomma un nuovo capitalismo al quale si contrappongono, in questa fase multicentrica, nuovi capitalismi (si pensi a Russia e Cina) ancora differenti dal primo. Queste formazioni sociali hanno in comune alcuni aspetti ma altri divergono profondamente. Nei suoi studi, Gianfranco La Grassa, propose a suo tempo di definire quella americana come “società dei funzionari (privati) del Capitale” proprio per segnare la dicotomia con il vecchio sistema a matrice inglese. Il capitalismo di origine cinese o russo, nel quale è più evidente l’influenza di alcuni apparati statali potrebbe essere anche definita “società dei funzionari dirigisti del Capitale”. E’ solo un tentativo molto approssimativo di rimarcare una dissomiglianza, di dare un mero input, senza vere pretese tassonomiche o sistematiche. Inoltre, questo è anche un modo per non cadere in una approssimazione ancora peggiore che parla di Capitalismo di Stato per le summenzionate società, nelle quali anche se alcuni decisori pubblici sono in grado di abbreviare la catena decisionale, aggirando certe lungaggini “procedurali” delle democrazie, fanno valere delle abilità “strategiche” particolari (di tipo politico ed in ogni sfera sociale) pur operando in un “ambiente” di leggi economiche “universali” scaturenti dal modo di produzione dominante.
Il primo a cogliere il trapasso dal capitalismo classico, la cui sede era l’Inghilterra, a quello atlantico, la cui sede erano e sono gli Usa, fu Burnham, con riferimento predominante alla sfera economica.
La Grassa ha spostato, invece, l’attenzione su altre questioni: “Il profitto (plusvalore) è mezzo, non fine. Quest’ultimo è la supremazia, che viene raggiunta tramite un conflitto permanente (che sempre esige le alleanze tese a tale scopo), in cui si usa in prevalenza il “calcolo” strategico, differente per natura da quello di efficienza, di economicità. Se è possibile, e fin quando possibile, viene certo usato questo criterio calcolistico del minimo mezzo, ma solo se non contravviene alla conquista della supremazia tramite uso delle strategie di conflitto. E tali strategie appartengono al campo generale della Politica; sia che vengano impiegate nella sfera propriamente politica (Stato, partiti, ecc.) o invece economica o culturale, e in ogni dove si esplichi azione umana. Il capitalista non è il mero proprietario, è lo stratega; ciò era già in parte implicito nella teoria manageriale di Burnham (il più avanzato conoscitore della nuova formazione capitalistica affermatasi negli Usa), ma ancora con riferimento predominante alla sfera economica e restando invischiati nella problematica della lotta tra management e proprietà, in cui il primo avrebbe infine prevalso definitivamente; mentre invece le forme giuridiche, in auge nella mera sfera economica, possono essere congiunturalmente variabili perché il conflitto – nella sua reale dimensione di strategia per conquistare la supremazia nella società nel suo complesso (a “più sfere”) – è l’elemento generale e cruciale. Un simile mutamento (di paradigma? Definitelo come volete) comporta il completo rivolgimento dell’intera prospettiva teorica; sia delle teorie dei dominanti sia di quella marxista, da cui il sottoscritto prende le mosse per il semplice motivo che questa è la teoria da me coltivata lungo tutta una vita. Come sempre ho detto, esco da Marx; e la porta di uscita non ha nulla di “innocente”, segna anche il percorso da compiere una volta usciti. Quando si è fuori, tuttavia, non si può più tornare dentro, perché si sente la puzza di chiuso, di vecchie scartoffie e mobili tarlati. Ho scritto al proposito ormai vari libri, in cui è già visibile una serie di non indifferenti cambiamenti teorici. Si deve però andare ben più avanti; e non servendosi più del solo Marx. E nemmeno del solo Lenin. Andremo avanti, almeno lo spero. Qui volevo solo far notare che questi mutamenti teorici dipendono pure dal rovesciamento della priorità tra equilibrio e squilibrio” (Squilibrio contro equilibrio ).
Tornando a Burnham, egli non fece altro che “depurare” e aggiornare l’originaria tesi di Marx sulla formazione, nel grembo del processo produttivo, di una classe tecnici (poi divenuti manager nelle società per azioni) che avrebbe preso il controllo totale della produzione mentre i proprietari dei mezzi di produzione si stavano trasformando in rentier. Marx credeva che tali tecnici lavoratori della “mente”, effettivamente dei salariati, si sarebbero uniti ai lavoratori del “braccio” per formare una nuova classe intermodale, il General Intellect. Burnham, invece, si rende conto che questa alleanza è irrealizzabile essendo i tecnici, divenuti manager, uno strato di decisori “economici” completamente sistemici benché non sovrapponibili agli azionisti proprietari.
Come scrive Geraint Parry, nel suo saggio sulle élite politiche: “L’assunto di Burnham in ‘La rivoluzione dei tecnici’ è che il sistema capitalistico è in declino e che al suo posto dovrebbe sorgere una società controllata economicamente e politicamente da un élite di dirigenti (managers ). …Le ipotesi iniziali di Burnham sono derivate dagli elitisti: la politica è sempre una questione di lotta per il potere e per lo status fra gruppi e in tutte le società è inevitabilmente un gruppo ristretto che controlla il processo decisionale cruciale. I mutamenti sociali sono sempre la conseguenza di un ricambio nella composizione dell’élite, per cui alla vecchia élite se ne sostituisce una nuova. Una società egualitaria senza classi è inconcepibile nelle attuali società altamente industrializzate che richiedono un alto grado di addestramento e specializzazione tecnica. Il fatto che la rivoluzione bolscevica in Russia non fosse riuscita a creare una società di questo tipo, era la prova per Burnham della necessità inevitabile che sorga una nuova classe di dominatori. Burnham, tuttavia, è marxista nella sua concezione della base effettiva del potere dell’élite: è il controllo dei principali strumenti di produzione che in qualsiasi società conferisce ad un gruppo una posizione di predominio. Il controllo ha un duplice aspetto: il gruppo che esercita il controllo impedirà agli altri di ottenere l’« accesso» ai mezzi di produzione e riceverà un « trattamento preferenziale » quando il prodotto, in beni o in denaro, viene distribuito li; normalmente queste due forme di controllo sono strettamente correlate. Burnham afferma che, se il controllo dell’accesso ai mezzi di produzione non si accompagna ad un trattamento e status preferenziali, questo è un indice di tensione in una società. In circostanze normali « la maniera più facile per scoprire quale sia il gruppo dominante in ogni società consiste ordinariamente nel vedere quale gruppo abbia i redditi piu alti » . Il potere, per Burnham come per i marxisti e gli elitisti, è cumulativo. Il controllo della produzione genera tanto la ricchezza quanto il potere politico e il prestigio sociale. Le istituzioni statali vengono integrate gradualmente nel sistema di controllo economico prevalente. Le leggi dello stato aiutano a mantenere il predominio dei proprietari dei mezzi di produzione proteggendo i rapporti di proprietà esistenti. In un sistema capitalistico, secondo Burnham, vi è una separazione fra stato ed economia; lo stato infatti non interviene nelle imprese capitalistiche, ma istituisce una struttura legale all’interno della quale un sistema economico capitalistico può prosperare. In ultima analisi, tuttavia, il controllo dei mezzi di produzione non dipende da forme legali, ma dalla natura dell’economia. Il successo o l’insuccesso dell’élite nel perpetuare il suo potere dipende dal suo monopolio dei mezzi di produzione. Laddove l’élite consente ad altri gruppi l’accesso alle forze produttive esistenti oppure permette loro di sviluppare nuove tecniche, la sua posizione sarà minacciata. La spiegazione di Burnham del mutamento di classe è marxista, ma la sua affermazione che in ogni circostanza ne risulterà la reinstaurazione del dominio di una classe è elitistico. La crisi del capitalismo individuata da Burnham sorge, a suo avviso, dal fatto che i « padroni » formali delle forze produttive, cioè i capitalisti, si sono sempre più estraniati dalle operazioni effettive di produzione. I capitalisti, che originariamente erano i dirigenti delle loro imprese, hanno gradualmente lasciato quest’attività ai dirigenti professionisti per dedicarsi alla finanza, uno stadio remoto dal processo produttivo. Lo stadio finale del declino della classe capitalistica è il suo graduale ritiro perfino dalla finanza per costituire una « classe agiata » che spende i profitti delle proprie imprese senza contribuire alla produzione. Nel frattempo il processo produttivo è stato affidato alla classe manageriale (un élite di tecnici specializzati che è una copia della burocrazia statale), la cui posizione deriva non dalla struttura finanziaria capitalistica, ma dalla natura tecnica della produzione moderna a cui essa è indispensabile. Per usare i termini di Burnham, i dirigenti controllano l’accesso ai mezzi di produzione, ma mentre il sistema capitalistico sopravvive, il trattamento preferenziale nella distribuzione delle risorse andrà ai capitalisti « agiati », che sono diventati un’appendice inutile nell’attività produttiva. Tale contraddizione, in termini marxiani, non può durare. « Il controllo sull’accesso è decisivo », afferma Burnham, e perciò alla fine si consoliderà in un controllo completo dei mezzi di produzione che include anche un trattamento preferenziale nella distribuzione dei prodotti. La classe dominante capitalistica non verrà, tuttavia, rovesciata a favore di una società senza classi, ma sarà sostituita dall’élite manageriale tecnicamente indispensabile. Ancora una volta il controllo economico serve ad ottenere il controllo politico. Proiettando nel futuro tendenze che egli rinviene nelle società contemporanee, Burnham predice che il governo sarà sempre piu una questione di attività esecutiva anziché legislativa e sarà gestito da burocrati, siano essi i pubblici funzionari in Inghilterra, i pianificatori di stato nell’Unione Sovietica, i capi degli uffici esecutivi negli Stati Uniti o, come Burnham in parte anticipò, gli amministratori del MEC, uomini cioè più vicini nel modo di vedere ai dirigenti industriali che ai « politici» dell’era capitalistica. La dicotomia capitalistica fra stato ed economia cesserà di esistere man mano che l’industria venga sempre più gestita dallo stato e man mano che il personale manageriale e i burocrati statali diventino intercambiabili con il crescere della similarità di funzioni e metodi. il controllo dei managers sullo stato e il controllo statale dell’economia si consolideranno da ultimo in una nuova élite dominante- elitismo con sapore di marxismo”.
Ma, come detto, la prospettiva di Burnham, eccessivamente economicistica, ha colto soltanto in parte le evoluzioni del capitalismo americano e quelle delle sue “succursali” subdominanti. E’ avvenuto, invece, un cambiamento ben più sostanziale, nel trapasso “geopolitico” della supremazia da Londa a Washington, che ha modificato il nucleo centrale del capitalismo (è utile detta denominazione?) ingannando le nostre percezioni. Il lavoro di La Grassa sul conflitto strategico (e sullo squilibrio incessante del reale) è un primo passo verso una rivoluzione conoscitiva che purtroppo tarda ad affermarsi.