ESISTONO CONDIZIONI DI POSSIBILITA’ DEL COMUNISMO?

 

Introduzione di G.P.

 

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Questa è la domanda che ha sempre assillato i marxisti, la condizione di possibilità di un modo di produzione e di riproduzione sociale non semplicemente alternativo a quello capitalistico ma identificabile con la prospettiva comunistica tracciata da Marx nel Capitale.

Il Comunismo era per Marx una necessità insita nello stesso processo storico, in quel rapporto sociale dominante che conteneva in sè un’insanabile contraddizione. Quest’ultima, a livello della produzione, avrebbe segnato, con il suo approfondimento, l’irricomponibilità tra crescente socializzazione del lavoro ed appropriazione privata della ricchezza da quello prodotta. Con il metamorfosarsi di questo rapporto, sostrato materiale del sistema, tutta la sovrastruttura sociale, politica, giuridica del capitalismo si sarebbe squilibrata esponendosi all’azione sovvertitoria dei dominati.  

I rapporti di produzione capitalistici, secondo tali indirizzi, non avrebbero potuto imbrigliare all’infinito le forze produttive le quali, in tempi non troppo lunghi, avrebbero mandato in frantumi la forma che impediva loro di ulteriormente svilupparsi. Allorché il contrasto tra appropriazione privata delle merci e loro produzione collettiva sarebbe divenuto evidente, in virtù della riduzione della classe capitalistica ad un gruppo ristretto di rentier che governava – per mezzo della sola forza, attraverso l’organo statale quale strumento di massima coercizione dei dominanti – una base sociale sempre più larga di lavoratori cooperanti, lo spossessamento degli espropriatori da parte degli espropriati sarebbe stato inevitabile. Infatti, senza schermature ideologiche (egemonia corazzata di coercizione) e con il meccanismo dello sfruttamento non più obnubilato dall’uguaglianza formale nella sfera circolatoria e nella sovrastruttura sistemica, la soggettività proletaria avrebbe dato la spallata decisiva alla ristretta casta dei signori che vivevano del taglio delle cedole.

In questa disamina vediamo al lavoro due elementi fortemente intrecciati. Uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo ci dice che il capitale non può fare a meno di rivoluzionare costantemente il suo fondo sociale spingendolo verso forme di cooperazione sempre più estreme. Questo punto è fondamentale nell’analisi marxiana perché qui sono poste le basi della forma produttiva che emergerà dalle stesse viscere del modo di produzione capitalistico: Nel sistema azionario è già presente il contrasto con la vecchia forma nella quale i mezzi di produzione sociale appaiono come proprietà individuale; ma la trasformazione in azioni rimane ancora chiusa entro le barriere capitalistiche; in luogo di annullare il contrasto fra il carattere sociale ed il carattere privato della ricchezza, essa non fa che darle una nuova forma.

Le fabbriche cooperative degli stessi operai sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Ma l’antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all’interno di esse, anche se dapprima soltanto nel senso che gli operai, come associazione, sono capitalisti di se stessi, cioè impiegano i mezzi di produzione per la valorizzazione del proprio lavoro. Queste fabbriche cooperative dimostrano come, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme di produzione sociale ad esse corrispondenti, si forma e si sviluppa naturalmente da un modo di produzione un nuovo modo di produzione. Senza il sistema di fabbrica, che nasce dal modo di produzione capitalistico, e così pure senza il sistema creditizio, che nasce dallo stesso modo di produzione, non si potrebbe sviluppare la fabbrica cooperativa. Il sistema creditizio, come forma la base principale per la graduale trasformazione delle imprese private capitalistiche in società per azioni capitalistiche, così offre il mezzo per la graduale estensione delle imprese cooperative su scala più o meno nazionale. Le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi, al pari delle fabbriche cooperative, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con la unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo. Dunque, il prodotto ultimo del capitalismo è appunto la fabbrica cooperativa direttamente gestita dai produttori associati. Con lo sviluppo di tale forma produttiva viene posta la prima pietra del nuovo modo di produzione, il quale, sebbene ancora costretto nella vecchia forma, avrebbe superato il fatidico antagonismo tra capitale e lavoro.

Questo è quello che pensa Marx circa l’inevitabile nascita, nello stesso ventre del capitalismo, del modo di produzione comunistico rispetto al quale la rivoluzione – volta a sovvertire le sole sovrastrutture capitalistiche (infatti la base materiale muta da sé) – diventa la "levatrice” di un parto ormai maturo all’interno della vecchia società.

In realtà, Marx in questa previsione sulle tendenze intrinseche del modo di produzione incorre appunto in un duplice errore di previsione, ancora oggettivo e soggettivo. Sotto quest’ultimo aspetto sappiamo benissimo che la formazione del lavoratore collettivo cooperativo non si è concretata nel processo produttivo e nemmeno si è realizzato lo staccamento della proprietà dagli interessi “prosaici” della produzione. Questa pur non essendo gestita direttamente in proprio dai capitalisti viene delegata agli specialisti (manager e tecnici), i quali, a loro volta, dipendono dagli indirizzi strategici e dagli obiettivi di produttività e di conquista dei mercati, tracciati dagli azionisti o dalla stessa proprietà. Il compito degli specialisti è di tradurre in pratica tali intenti.

Sotto il punto di vista oggettivo, invece, non sussiste e non si rivela, almeno in maniera automatica, quel limite oltre il quale le forze produttive sono in grado di spezzare i rapporti di produzione, poiché la caratteristica precipua del sistema è quella di complessificare, diversificare, approfondire i ruoli e i profili lavorativi e di integrarli nell’ambito degli stessi rapporti capitalistici, riuscendo a superare le sue contraddizioni. Detto ciò, appare chiaro che spingere il processo rivoluzionario, in maniera volontaristica, nella presunta direzione di un comunismo che non è più in rebus e “sulla base di una scienza che, non rispecchiando le tendenze reali dello sviluppo capitalistico, tende a diventare ideologia di legittimazione di date forze politiche – che non è detto debbano sempre ripresentarsi nella forma del partito unico del sedicente movimento operaio – significa trasformare dette forze in apparati di dominio staccati dal cosiddetto Popolo, in apparati in processo di riproduzione autoreferenziale” (La Grassa), il che non ha più nulla a che vedere con l’ipotesi marxiana. L’idea di Marx era ben altra, poiché essa si dipanava dalla presenza, in nuce, nella medesima società capitalistica, di una combinatoria di elementi, percepita come naturale, che avrebbe sanzionato la transizione da un sistema all’altro (dal capitalismo al comunismo). Nel momento in cui, tanto oggettivamente che soggettivamente, questa costruzione teorica si rivela non adeguata a comprendere la dinamica capitalistica, a causa di un impianto previsionale che segna decisamente il passo, è inevitabile che qualcosa deve essere rivisto all’interno nel dispositivo scientifico marxiano.

La Grassa affronta questo passaggio sugli elementi in possibile combinatoria virtuosa per l’emergere della società comunistica, cercando di mostrare cosa impedisce la saldatura, in ogni caso aleatoria e limitata al solo ambito delle possibilità, tra gli stessi:

 

L’elemento decisivo di una prospettiva di cooperazione – che è la condizione di base, necessaria anche se magari non sufficiente, della possibile, non inevitabile, formazione di un rapporto comunistico in grado di autoriprodursi – è il costituirsi dei due elementi chiave di detta cooperazione: a) uno strato di dirigenti capaci di organizzare e dirigere, innovando, i processi della produzione sociale, in grado di soddisfare bisogni crescenti e sempre più ricchi e variegati; b) gruppi sociali, interni alla produzione stessa, fra loro coordinati, di cui interessa non la mera estrazione di pluslavoro (che non cade nella disponibilità del precedente strato, ma resta affidato ad una distribuzione per usi sociali decisa da organi “amministrativi” non coercitivi), bensì la crescita di competenze e spirito di iniziativa. Il comunismo non dovrebbe essere solo un modo di produzione, ma deve essere anche questo; dovrebbe rappresentare il “nocciolo strutturale interno” della nuova formazione sociale, la sua innervatura fondamentale, il rapporto decisivo – e caratterizzante l’intera società – in effettiva riproduzione. Come il processo del modo (sociale) di produrre capitalistico riproduceva, ad ogni ciclo, da una parte la proprietà capitalistica (aumentata del plusvalore) e dall’altra la forza lavoro sempre venduta quale merce; così il modo di produrre sociale comunista dovrebbe riprodurre gli elementi a) e b) sopra considerati, consolidandosi e allargandosi così ad ogni ciclo”.

 

Ma questa “previsione necessitata” s’inceppa, nella teoria marxiana, a causa della mancata valutazione di un fattore non preso in debita considerazione, essendo la sua  analisi schiacciata sulla sola razionalità produttiva o strumentale, considerata come quella prevalente nel modo di produzione capitalistico. Se, invece, la razionalità predominante, così come descritto da La Grassa, è quella strategica, il mutamento di prospettiva diviene palingenetico, difatti: “i dominanti capitalistici non si riducono a semplici parassiti, bensì sono strateghi di un conflitto – nemmeno combattuto solo, o principalmente, nella sfera puramente economica della società – muta completamente tale prospettiva. La funzione dei dominanti non è direttamente produttiva, ma solo un incompetente può pensare che essa sia inessenziale, puramente parassitaria, una sorta di escrescenza da asportare il più presto possibile…Tale atteggiamento strategico di conflitto, che è l’effettivo carattere dei gruppi dominanti (il loro essere proprietari è condizione accessoria, per quanto sia apparsa storicamente rilevante), impedisce ogni saldatura tra i suddetti elementi a) e b) di una produzione sociale in fase di transizione al comunismo. Gli elementi sussistono, sono presenti, ma non si incontrano per concatenarsi nella riproduzione di un nuovo rapporto”.

Questo spostamento introduce, inoltre, la convinzione che non è nemmeno la sfera economica quella determinante in ultima istanza per dipanare la logica interna che guida l’affermazione e l’allargamento dei rapporti sociali capitalistici. La Grassa ribadisce, come già fatto in altri scritti, che le strategie conflittuali che attraversano tutte le sfere sociali sono sempre di tipo politico. In determinate fasi storiche di crisi, la riproduzione del rapporto predominante non avviene più fluidamente, si creano cioè degli addensamenti e dei grumi, in alcuni punti, che rischiano di strozzarne la legalità essenziale. Quando si presentano tali singolarità storiche (ed ecco ancora agire l’aspetto aleatorio) “alcuni elementi che possono, non debbono, ricollegarsi e reincatenarsi nella nuova ‘legalità’ riproduttiva di un diverso rapporto” fanno avanzare un diverso modo di produzione. Ed ecco che in tali fasi “deve intervenire la politica della trasformazione, a patto di non illudersi che darà a questa nuova ‘legalità’ la forma che proprio ha deciso. Quanto più ci si rende consapevoli che quest’ultima sfugge sempre ‘al controllo’, tanto più efficacemente si può cercare di intervenire per una ‘correzione di rotta’.

Ed ora vi invito a leggere il saggio di La Grassa sul sito