ESISTONO CONDIZIONI DI POSSIBILITA’ DEL COMUNISMO?
Com’è mia abitudine, partirò da alcune affermazioni althusseriane (in Sulla Psiconanalisi, Raffaello Cortina editore, 1994, pagg. 81-84) e poi, dopo essere passato per Marx, concluderò rispondendo alla domanda del titolo. Nel testo appena citato, ad un certo punto, criticando il concetto di genesi, A. parla della formazione del modo di produzione capitalistico che, nell’ambito del marxismo tradizionale, è sempre stato considerato un prodotto necessario dell’evoluzione del precedente modo di produzione feudale; il capitalismo nascerebbe proprio per gestazione interna all’evoluzione del feudalesimo. Vediamo i passi di A.
“….il modo capitalistico di produzione non è stato ‘generato’ dal modo feudale di produzione come un figlio. Non c’è filiazione in senso proprio (preciso) tra il modo feudale di produzione e quello capitalistico. Il modo capitalistico di produzione sorge dall’incontro ….. di un certo numero di elementi molto precisi, e dalla combinazione specifica di questi elementi ….. Il modo feudale di produzione genera (come un padre genera suo figlio…) soltanto questi elementi, alcuni dei quali d’altra parte (l’accumulazione del denaro sotto forma di capitale) risalgono al di qua di esso o possono essere prodotti da altri modi di produzione. Il modo feudale di produzione non genera per nulla l’incontro di tali elementi, né il fatto che possano combinarsi, organizzarsi in un’unità reale funzionante, la quale è propriamente ciò che sorge”.
Poi egli continua sulla stessa falsariga ribadendo il concetto, comunque ormai chiaro, che il modo di produzione capitalistico dipende da una combinazione sua specifica degli elementi che il modo feudale ha senz’altro generato, ma senza minimamente influenzare (tanto meno necessitatamente) questa loro combinazione (organizzazione) capitalistica, che è dunque un’insorgenza dovuta a casualità storica: insorgenza di una struttura dotata di peculiari leggi, anche queste non nate da una trasformazione di quelle del modo feudale di produrre. Infine A. sintetizza gli
“elementi indispensabili a formare una combinazione che funzioni realmente come un nuovo modo di produzione: il modo capitalistico di produzione. Questi elementi sono prima di tutto: 1) l’esistenza di denaro accumulato sotto forma di capitale; 2) l’esistenza di una gran massa di “lavoratori” divenuti “liberi”, ossia privati dei loro mezzi di produzione; 3) il superamento di una certa soglia nello sviluppo delle tecniche di trasformazione della natura, tecniche energetiche, meccaniche, chimiche, biologiche, e tecniche di organizzazione del lavoro (divisione, cooperazione). La storia mostra parecchie situazioni in cui soltanto due di questi elementi sono riuniti, senza il terzo; in questi casi, non sorge un nuovo modo di produzione, il modo capitalistico di produzione non ‘nasce’”.
Bene, innanzitutto spero se mi si perdonerà se faccio qualche buccia – e tuttavia non credo si tratti di osservazione solo pignola – al Nostro. Per ben due volte, egli parla di accumulazione di denaro sotto forma di capitale. E’ ormai ben noto che il capitale, per Marx, non è una cosa bensì un rapporto sociale. Se il denaro fosse accumulato in forma di capitale, vorrebbe dire che il processo avviene già tutto entro, e sotto, il dominio delle leggi del modo di produrre la cui struttura è “definita” dal sistema dei rapporti capitalistici, sottoposti alla dinamica “storicamente determinata” della loro riproduzione (tramite vendita della forza lavoro come merce, estrazione del pluslavoro come plusvalore, ecc.).
In secondo luogo, non farei concessioni a formulazioni di vaga demagogia ideologica “lavori-sta”; perché tale è il ridurre la “libertà” dei lavoratori alla mera “liberazione” dai mezzi di produzione, cioè dalla loro proprietà, meglio ancora dal potere di disporne (sia in senso formale che reale). Il lavoratore è effettivamente libero da vincoli di dipendenza personale (schiavitù, servaggio). Senza questa fondamentale trasformazione delle condizioni del lavoratore – effettuatasi nel passaggio dal precapitalismo al capitalismo – non si sarebbe potuto affermare alcun nuovo modo di produrre; so-
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prattutto, non avrebbe avuto grande effetto e risalto quel terzo elemento indicato da A. come uno di quelli che entrano in combinazione nella nuova forma storica della produzione. Sia le tecniche produttive (meccaniche, energetiche, ecc.), sia ancor più la divisione (del lavoro, del tutto specifica del capitalismo), la cooperazione, ecc., non avrebbero avuto modo di svilupparsi né di esercitare i loro effetti in termini di quell’eccezionale dinamismo produttivo dimostrato dalla società in cui viviamo ancor oggi, senza la liberazione effettiva dei lavoratori da condizioni servili. In questo senso, come sostenne Dobb, la formazione del lavoro salariato è uno degli elementi base, una delle precondizioni necessarie, per l’affermazione del modo capitalistico di produrre.
Se non si mette fortemente in luce tale elemento, si attenua la grandezza dell’opera marxiana, tesa a dimostrare lo sfruttamento (estrazione di pluslavoro in forma di valore) pur quando si è in presenza di un eguale rapporto di forze tra capitalista e lavoratore – nell’ambito del mondo delle merci – fondamento della vendita della forza lavoro, in media, al suo effettivo valore. Marx era ben conscio che i rapporti di forza sono soggetti a mutamenti. E sicuramente, nell’epoca in cui scrisse Il Capitale, tali rapporti di forza erano in pratica sempre favorevoli ai capitalisti anche nell’ambito dello scambio di merce forza lavoro. Tuttavia, a differenza di un Dúhring (che non era però il solo), sbeffeggiato e svillaneggiato, Marx non spiegò il profitto come semplice risultato di una estorsione (“la proprietà è un furto” secondo la stolta formulazione di Proudhon), bensì in base ad un meccanismo di “piena libertà”, ma solo nell’ambito dello scambio mercantile. Il “furto” di lavoro, prelevato con prepotenza (“con la spada in pugno”) è quell’aspetto (quantitativo) dello sfruttamento (“dell’uomo sull’uomo”) che fa il paio con quello qualitativo dell’alienazione. Marx sapeva bene che ci poteva anche essere prelevamento mediante prepotenza, e forse persino alienazione; ma non ne fece mai il centro dello sfruttamento, la base del predominio capitalistico.
Ripeto che questa è la grandezza di Marx. Egli non confuse possibili effetti – estorsione per puro rapporto di forza, alienazione, ecc. – con la causa fondamentale dello sfruttamento nella sua forma capitalistica; una forma che ne ha garantito l’eccezionale sviluppo, la sua continua supremazia rispetto ad ogni altra (finora), il consenso che ad essa deriva perfino da parte degli sfruttati. Quindi, non si deve mai dimenticare il sistema delle libertà pur soltanto formali. Non bisogna farsene un feticcio, non sostanzializzare questa libertà esclusivamente formale, ma deve essere capito il suo forte impatto ideologico, che la rende strumento assai efficace di dominio, di egemonia, di dati gruppi sociali. L’“ultrasinistra” (si pensi ad esempio all’operaismo) ha provocato le sue nefande devastazioni, nell’ambito della critica al capitale, proprio ignorando questo punto e confondendo il predominio capitalistico con la pura affermazione di dispotismo, di prelievo forzoso, di costrizione, ecc. E la deriva del ’68 in “brigatismo” e altre “amenità” varie sono anche frutto di questo colossale fraintendimento. Proprio per questo è indispensabile tornare alla scientificità marxiana. Puro rapporto di forza, alienazione – che possono benissimo esserci quale soprappiù – non rappresentano il fulcro della predominanza degli agenti capitalistici.
Per di più, com’è evidente nel mondo odierno in moltissime battaglie sindacali, spesso il rapporto di forze è favorevole ai sindacati dei lavoratori; ma ciò non indebolisce, in modo significativo e irreversibile, il capitale né blocca il meccanismo del profitto, pur potendo farlo temporaneamente diminuire, fenomeno che provoca presto “reazioni di sistema” tese a ribadire quali sono le forze decisive. Soprattutto – perché questo è fondamentale, sempre per il principio che il capitale non è cosa ma rapporto sociale – viene sempre riprodotto l’intero sistema dei rapporti sociali di forma capitalistica. Quanto al tema dell’alienazione, vorrei ricordare che uno degli studiosi più coerenti a tal proposito, Napoleoni, dovette necessariamente concludere che tutti sono alienati in questo sistema, sia i capitalisti (dominanti o decisori) che i lavoratori (dominati o non dominanti o non decisori). Una conclusione distruttiva di ogni effettivo ripensamento anticapitalistico; tanto che lo stesso Napoleoni attenuò la conclusione, sostenendo che, in questa alienazione, la differenza tra soggetti sociali dominanti e dominati è che i primi trovano la loro soddisfazione pur in tale alienazione. Nessun dubbio che l’economista in questione fosse una persona molto intelligente, e tuttavia mi si per-
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metta di dire che simile affermazione è assai generica e superficiale; mi sembra del tutto evidente il cul de sac in cui si era messo chi l’ha pronunciata.
Quindi, torniamo alle formulazioni marxiane, quelle non umanistiche (di una genericità sconfortante e segno di scarsa comprensione della società capitalistica) ma scientifiche, caratterizzate comunque da una “intelligenza delle cose” estremamente acuta. Si tratta di aggiornarle, non di svilirle e depotenziarle rendendo preziosi servigi ai dominanti. Lasciamo dunque perdere la battuta del lavoratore “libero” dalla proprietà dei mezzi di produzione; divenne libero, nonché possessore e venditore di una merce particolare, e questo basti. Quanto al problema dell’accumulazione di denaro, è sufficiente togliere da quanto scritto da A. l’espressione “in forma di capitale”. Anche qui, limitiamoci all’accumulazione di denaro quale elemento pronto a combinarsi con altri in nuove forme sociali della produzione; poi semmai, a seconda della combinazione storicamente verificatasi, si potrà parlare di accumulazione di denaro come capitale, cioè nell’ambito della continua riproduzione del sistema di rapporti capitalistici di produzione.
2. Dei tre elementi citati da A. quali fattori dal cui (casuale) storico incontro si formò il modo capitalistico di produzione, mi sembra che quelli veramente cruciali siano i primi due: accumulazione di grandi quantità di denaro e liberazione dei lavoratori dalle condizioni servili. Il terzo – le tecniche produttive, la divisione del (e cooperazione nel) lavoro, ecc. – appare nettamente derivato. Marx fa due affermazioni che mi sembrano indubitabili: a) le prime manifatture furono semplicemente botteghe artigiane allargate, fiorite nelle campagne, al di fuori delle cinte cittadine dove vigevano gli ordinamenti corporativi che ne avrebbero impedito lo sviluppo; b) la forma di merce si generalizza quando diviene merce la forza lavoro, venduta da chi fu liberato da condizioni servili, ma poi anche irreggimentato mediante leggi molto dure che misero fine al vagabondaggio.
L’allargamento dei mercati si concatenò con l’ampliarsi e acuirsi della competizione tra queste prime manifatture in crescita dimensionale; e fu quest’ultima a favorire la divisione del lavoro sempre più spinta – ai fini dell’aumento della produttività del lavoro, con diminuzione del costo di produzione e quindi maggiori chances di prevalenza nella concorrenza mercantile – comportante la specializzazione degli strumenti di lavoro del vecchio artigianato. Divisione (parcellizzazione) del processo lavorativo e specializzazione degli strumenti prepararono la rivoluzione industriale, l’introduzione dei sistemi di macchine, il saldarsi della scienza con la tecnica ecc. (tutta l’evoluzione capitalistica che ne seguì). E’ dunque evidente che la divisione del (e cooperazione nel) lavoro e le tecniche produttive – nella trasformazione verificatasi durante l’epoca di espansione della manifattura – furono effetto del già formatosi rapporto capitalistico di produzione, sia pure nel suo aspetto inizialmente formale (quello che Marx denominò sussunzione formale del lavoro nel capitale). Con tale sussunzione, il rapporto capitalistico è ormai in essere, e viene costantemente riprodotto nel processo di produzione, ad ogni ciclo del quale esce il capitale accresciuto del pluslavoro/plusvalore e la forza lavoro pronta per essere rivenduta quale merce.
La rivoluzione industriale è preparata da tale processo di produzione con riproduzione del rapporto – caratterizzato dalla competizione mercantile con tutte le sue conseguenze produttive e sociali – pur se essa stabilizza e rende definitive le modalità sociali della produzione nella loro forma capitalistica tramite l’espropriazione reale dei lavoratori rispetto al potere di disporre dei mezzi di produzione, che è pure espropriazione della capacità di utilizzarli secondo le nuove tecniche in continua evoluzione, anzi ad un certo punto rivoluzionamento, con creazione non soltanto di nuove tecnologie produttive (innovazioni di processo), ma anche di interamente nuovi, e prima sconosciuti, comparti produttivi (innovazioni di prodotto). In conclusione: lo sviluppo della scienza e della tecnica, con la nuova divisione del (e cooperazione nel) lavoro – subordinate alla direzione dell’agente capitalistico – sono un prodotto specifico della già avvenuta formazione del rapporto di questo nuovo modo di produzione, rapporto ormai soggetto alle “leggi storicamente determinate” della sua riproduzione.
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In definitiva, l’insorgenza della novità – del modo di produzione capitalistico – si verifica con l’incontro, in condizioni storiche peculiari, dell’accumulazione di denaro e della formazione del lavoro libero da condizioni servili e, lo ripeto, irreggimentato. Si arriva dunque all’affermazione, a mio avviso in perfetta linea con l’althusserismo, che non è lo sviluppo delle forze produttive – di cui le tecniche produttive, la divisione e cooperazione nel lavoro, ecc. sono elemento precipuo – a provocare la trasformazione sociale, la formazione di un nuovo rapporto in continua riproduzione (allargata); si verifica invece il contrario. Tale conclusione, con buona pace di certi miei detrattori, non è da me minimamente revocata in dubbio, perché entrerei in contraddizione con quanto fin qui sostenuto. Anzi, mi lascia sorpreso che, nel testo althusseriano citato, si elenchi quel terzo elemento fra quelli il cui incontro avrebbe provocato l’insorgenza (singolare) del nuovo modo di produrre. La considero, in sostanza, una svista, in cui ognuno di noi può incappare. Sono solo i primi due elementi a incontrarsi per dar vita alla concatenazione specifica che, da quel momento in poi, condurrà alla continua riproduzione (allargata) del rapporto capitalistico.
E’ dunque su questi due elementi che si deve concentrare l’attenzione. Il primo, l’accumulazione di denaro, si realizza soprattutto nell’ambito di uno specifico gruppo sociale: quello dei mercanti, in particolare quelli dediti al commercio su lunghe distanze (con l’America, l’Asia, ecc.), che riguarda in particolare spezie, prodotti tropicali ecc.; non esattamente i prodotti di più largo consumo e di carattere primario (per i bisogni vitali della riproduzione sociale), che sono ancora ottenuti in larghissima parte al di fuori dei circuiti commerciali (produzione per l’autoconsumo). Indubbiamente, il commercio su lunghe distanze implica lo sviluppo delle innovazioni in campo navale, fondamentali più in generale per il perfezionamento e ampliamento dei mezzi e delle tecniche di trasporto delle merci.
Non entrerò certo qui nella discussione delle due tesi (Sweezy e Dobb), che si opposero fra loro nell’interpretazione della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Dirò solo che l’accumulazione di denaro, in quanto elemento preparatorio della formazione sociale capitalistica, avvenne sulla base della presenza di una già articolata e complessa produzione artigianale, impedita nella sua trasformazione in unità produttive fra loro in competizione nel mercato dalla presenza di ordinamenti corporativi cittadini. Il problema da capire, che mi sembra di natura più storica che teorica, è quanto la dissoluzione di tali ordinamenti – con il fiorire di quella produzione mercantile semplice, della cui trasformazione in produzione capitalistica tramite concorrenza (con accumulo dei capitali nelle mani di una minoranza e trasformazione dei più in salariati) Marx parla in particolare nel capitolo sulla accumulazione originaria – sia da ritenersi intrinseca o estrinseca rispetto ai processi storico-sociali avvenuti in epoca feudale.
Lo stesso problema si pone per il secondo elemento della concatenazione capitalistica: la formazione del lavoro salariato, la liberazione del produttore da condizioni servili e la costrizione a vendere la sola proprietà di cui dispone, la sua forza lavoro, in qualità di merce. Sia chiaro comunque che, per quanto tale proprietà riguardi qualcosa di non scindibile dalla sua corporeità perché ad essa intrinseco, il lavoratore salariato non vende tale corporeità, tanto meno è obbligato a prestare lavoro alle dipendenze di un determinato padrone (che sarebbe allora suo padrone, disporrebbe di lui in tutto e per tutto). Il salariato è persona, è titolare di diritti, anzi degli stessi diritti di qualsiasi individuo nella società capitalistica. Le sue prestazioni sono subordinate alla forma del contratto, che presuppone due controparti su un piede di formale parità. Tutto questo si è formato progressivamente, in tempi anche lunghi; si può fare dell’ironia sulla parità tra capitalisti e lavoratori per gran parte della storia del capitalismo, in particolare di quello borghese, di quello del modo di produzione instauratosi in Inghilterra. Tuttavia, questa libertà si è ormai da un pezzo affermata nei paesi a capitalismo avanzato. Marx la presuppose, per indagare le “leggi” di sviluppo del capitalismo, come qualcosa di già vigente fin da subito. Sarebbe vero arretramento tornare a miserevoli ideologie di “amore” per il povero “diseredato”, vessato dai capitalisti. Nessuna vessazione, solo libertà mercantile, la libertà contrattuale. Questo il punto di partenza dell’analisi marxiana; e da qui non si torna indietro.
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Il lavoro salariato – la sua formazione e allargamento – fu fenomeno intrinseco od estrinseco rispetto alla dinamica della produzione feudale? Per una parte si formò tramite la recinzione delle terre comuni; per un’altra parte mediante concorrenza nel mercato che produsse il passaggio dalla produzione mercantile semplice (prime piccolissime manifatture in quanto botteghe artigiane allargate) a quella più propriamente capitalistica (ma ancora basata sulla sussunzione formale del lavoro). Ora, il carattere di questo secondo tipo di formazione del lavoro salariato – probabilmente il più importante non tanto per la sua consistenza numerica, quanto perché è il più solido ed efficace innesco della transizione al rapporto capitalistico con sua continua riproduzione – presuppone la presenza di un gran numero di piccoli produttori mercantili di più o meno pari forza; o quanto meno di forza di cui non si coglie immediatamente un differenziale di intensità. Essi, inoltre, debbono essere pensati fin dall’inizio in interazione reciproca, e quest’ultima deve supporsi libera da intralci, regolata dalla sola competizione tra gli stessi.
Ad un certo punto, per motivi ignoti (è proprio così?), si produce un differenziale di potenza e alcuni competitori espellono (o assorbono) gli altri; ad un polo si realizza accumulo di denaro, mentre all’altro si raggruppano individui liberi, ma con la sola disponibilità della propria forza lavoro. Il differenziale di potenza comporta appunto la formazione del rapporto capitalistico, cioè l’incontro tra denaro, da una parte, e forza lavoro venduta come merce, dall’altra; incontro che pone le basi per la continua riproduzione di tale rapporto nel corso del processo di produzione, ormai di forma capitalistica. Ciò che appare aleatorio è il prodursi del differenziale di potenza; non l’incontro tra possessore di denaro e lavoratore libero obbligato a vendere come merce la propria capacità lavorativa. La casualità dell’incontro tra questi due soggetti presupporrebbe l’inesistenza della produzione mercantile semplice – tessuto di interazione tra piccoli produttori di pari forza – come antecedente storico del modo capitalistico di produrre. Ma non è stato così. Se c’è una casualità, questa riguarda fondamentalmente il differenziale di potenza prodottosi nell’interazione tra piccoli produttori di merci in accanita concorrenza.
Tuttavia, tale modello teorico è ben “astratto”, nel senso comune (e dispregiativo) del termine. Non è mai esistita una produzione mercantile semplice in una sorta di vuoto sociale; e nemmeno come forma produttiva predominante in una qualsiasi società storicamente esistita. E’ una forzatura teorica tutt’altro che realistica quella di una produzione mercantile semplice che funzioni di per sé o come tipo di produzione preminente. C’è di mezzo il contrasto con gli artigiani riuniti nelle corporazioni cittadine. Ci sono i bisogni dei signori feudali che favoriscono lo sviluppo delle prime manifatture nelle campagne. Ci sono i mercanti che portano la materia prima a questi artigiani, liberatisi degli ordinamenti corporativi, e poi passano a ritirare i prodotti avviandoli a mercati da loro conosciuti e controllati. Ci sono le recinzioni di terre, che i proprietari inglesi effettuano per incrementare il pascolo e la produzione di lana per la manifattura (olandese e poi inglese). E via dicendo.
Prima di “innamorarsi” di tesi precostituite, starei molto attento alla ricostruzione (cioè ricerca) storica. E’ vero che la storia deve essere scritta anche in base a teorie guida; ma ciò va accettato con il solito grano salis. In ogni caso, la teoria ci suggerisce che si produce casualmente, al massimo, il differenziale di potenza tra produttori semplici, non ancora capitalistici, di merci; con conseguente, e non più casuale, formazione del rapporto capitalistico: il possessore di denaro acquista come merce la forza lavoro, venduta da chi ha perduto nella competizione ed è stato espulso dal mercato in quanto produttore, non compromettendo però con questo la propria libertà personale e la disponibilità della propria capacità lavorativa.
Non prenderei una posizione più decisa in merito a tale questione. In fondo, se ho condotto una simile discussione, non è per puro sfizio di dibattito teorico (o filosofico sul cosiddetto materialismo aleatorio), che resterebbe allora un tantino “accademico”.
3. Dopo questo “assaggio” che riguardava Althusser, passo a Marx. Vi è un punto – di cui adesso non vado in cerca – in cui egli scrive che già alla fine del mondo antico vi era accumulo di denaro e presenza di lavoro libero da vincoli schiavistici. Eppure tutto questo non diede vita, come ac-
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cadde invece al tramonto del feudalesimo, ad alcun rapporto di tipo anche solo vagamente capitalistico. Ho però sopra soprasseduto dal cercare di difendere una delle possibili tesi contrapposte: il capitalismo è nato dalle viscere del feudalesimo per gestazione in qualche modo obbligata, tenendo conto delle dinamiche proprie di questa formazione sociale? Oppure si sono formati solo i due elementi che poi, casualmente, si sono “incontrati” e hanno dato vita al rapporto capitalistico?
Più interessante, è capire come Marx veda la possibile enucleazione di una società comunista partendo dal movimento proprio del capitalismo. Il processo decisivo, che dovrebbe preparare le condizioni della futura forma di società, è quello ben noto della centralizzazione dei capitali. I “marxisti”, eredi un po’ degeneri di Marx, hanno sempre considerato il processo in oggetto quale semplice fase di passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico. Lenin scrisse che, se avesse dovuto condensare in una sola le cinque caratteristiche dell’imperialismo, avrebbe scelto appunto la prima, cioè la monopolizzazione (pur trattata da “concorrenza portata ad un livello più alto”), vista inoltre quale ultima o suprema fase del capitalismo. Poi, successivi “marxisti” hanno introdotto l’ulteriore fase del capitalismo monopolistico di Stato. L’unico elemento di tipo sociale era quello, abbastanza puerile, delle 100 o 200 grandi famiglie che controllavano l’intero capitale (in quanto mera quantità, quindi una cosa) e, tramite questo e lo Stato, imponevano una sostanziale dittatura sulla società tutta.
Se vogliamo tornare al capitale come rapporto sociale, dobbiamo osservare i risultati del processo di centralizzazione con altra ottica: quella del formarsi di date “classi” o raggruppamenti sociali. A parte l’asserita (da Marx, ad esempio nel vol. II delle Teorie sul plusvalore) formazione di vasti strati intermedi, il rapporto capitalistico cruciale che denota la fase “ultima” del capitalismo, in cui si preparerebbero le condizioni del passaggio al comunismo tramite i vasti processi di socializzazione dei processi (e forze) di produzione, è quello tra gruppo dei rentier, da una parte, e operaio combinato (o lavoratore collettivo cooperativo), dall’altra. Nel par. 7 del capitolo sull’accumulazione originaria, da me citato altrove come uno delle più lucide e brillanti sintesi marxiane del movimento sociale del capitale, si afferma esplicitamente che – terminato il lungo e tormentoso processo di transizione dalla produzione mercantile semplice a quella capitalistica, con espropriazione di gran parte dei piccoli produttori indipendenti e creazione del primo rapporto capitalistico tra proprietario dei mezzi di produzione e “proprietario” di semplice forza lavoro venduta come merce – si sarebbero sviluppati impetuosi processi di socializzazione, uniti alla continuazione dell’espropriazione dei capitalisti perdenti da parte dei vincitori, processi che avrebbero condotto, assai più facilmente e in tempi molto meno lunghi, all’emergere delle condizioni di possibilità del comunismo, che avrebbe chiesto solo un ormai non difficile movimento di “espropriazione degli espropriatori” con la creazione di una proprietà (potere di disposizione) effettivamente collettiva da parte dei produttori associati (dal lavoro direttivo fino alle più basse mansioni esecutive).
L’ultima fase della centralizzazione avrebbe insomma visto un rapporto tra un gruppo di proprietari di tipo finanziario – dediti ai vari imbrogli di cui parla Marx ad esempio nel III libro de Il Capitale, quando si diffonde sulle società per azioni – e la gran massa dei “virtuosi” lavoratori produttivi associati in processi oggettivamente cooperativi. Il primo gruppo sociale – i rentier, i proprietari di azioni e “tagliatori di cedole” – avrebbe perso ogni funzione di organizzatore della produzione che Marx attribuiva, pur in posizione subordinata rispetto a quella di proprietario dei mezzi produttivi, al capitalista. Il pluslavoro/plusvalore avrebbe assunto la mera figura dell’interesse, in qualche modo assimilabile alla (quasi) rendita, di tipo finanziario invece che terriero. Ci si ricordi di quanto Marx scrisse nelle Glosse a Wagner circa i capitalisti della prima fase che – spingendo in avanti, tramite la reciproca concorrenza, le innovazioni di processo, dunque l’aumento della produttività del lavoro e l’estrazione del plusvalore relativo – contribuivano a creare ciò che poi avrebbero prelevato in forma di plusvalore.
Il conflitto tra i rentier si sarebbe invece svolto per la distribuzione – e reciproca rapina – di un plusvalore già creato dal lavoratore collettivo, ormai autonomo nella sua funzione produttiva; un’autonomia che rendeva evidente il parassitismo dei (pochi) dominanti e avrebbe rivolto contro di
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loro l’intera società. Questi rentier, in quanto classe ormai ultraminoritaria ed esautorata di prestigio e autorità, si sarebbe difesa tramite lo Stato con i suoi strumenti repressivi e coercitivi: cioè lo Stato in senso marxista, mentre gli opportunisti cercano di contrabbandarlo per puro organo di amministrazione, dichiarando l’utopia di Marx, e Lenin, in merito alla sua progressiva estinzione qualora fosse in atto una reale transizione al comunismo. Pure Gramsci parlò dello Stato – e altri apparati politici e ideologici – come di corazza coercitiva. Appare invece più difficile credere alla possibilità di egemonia ideologico-culturale da parte dei dominanti, se veramente questi tendessero, per dinamica intrinseca al capitalismo, a ridursi a ristretto gruppo di capitalisti finanziari, parassiti, estranei alla funzione di organizzazione e innovazione dell’attività produttiva. Fu a mio avviso l’idea di una egemonia anche culturale da parte di una simile classe, in netta decadenza e non più esercitante alcuna funzione realmente produttiva, a condurre ai concetti di “rivoluzione passiva” e all’erratissima interpretazione del nazifascismo – il primo, soprattutto, vero movimento della rinascita industriale tedesca – come “dittatura” del capitale finanziario; uno svarione teorico con conseguenze pratiche del tutto disastrose (alleanza con i socialdemocratici, autentico sostegno di quella frazione capitalistica, per di più subordinata allo “straniero”, ai dominanti statunitensi).
4. Interessa qui sottolineare che, nel rapporto capitalistico della fase (presupposta ultima) di massima centralizzazione capitalistica, l’elemento dinamico, quello che spinge in avanti verso la nuova forma (comunistica) di società, è l’espansione e consolidamento dell’operaio combinato (“dall’ingegnere all’ultimo giornaliero”): si tratta dell’aspetto soggettivo del processo così descritto da Marx (nel già nominato par. 7 del capitolo sull’accumulazione originaria):
“Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzo di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli della terra vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico [ ] La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. Il modo di appropriazione capitalistico…..e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale [produzione mercantile semplice; nota mia]. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale [diciamo che il processo ha un suo carattere eminentemente oggettivo, di cui i soggetti sociali sono i portatori, in un certo senso i suoi “servi”; nota mia], la propria negazione. E’ la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso”.
Vengono subito dopo i passi che sottolineano come la prima “negazione” – dalla produzione mercantile semplice a quella capitalistica – sia stata un processo storico “incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della proprietà capitalistica, che già poggia di fatto sulla conduzione sociale della produzione, in proprietà sociale”. Mi preme intanto rilevare di passaggio che Marx, in questo come più o meno negli altri brani in cui parla della centralizzazione capitalistica, non coltiva minimamente ciò che è l’ossessione dell’economista (anche pseudomarxista): la trasformazione di un regime di mercato, la concorrenza, in un altro, il monopolio. Il problema per Marx cruciale, ai fini della transizione ad altra forma di associazione degli individui, è quel-
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lo della socializzazione crescente delle forze e processi produttivi (sempre più cooperativi) e dei soggetti che ne sono le “maschere sociali”, i portatori di ruoli e funzioni.
In secondo luogo, la trasformazione sociale è un processo ineluttabile; egli dice “naturale”, con chiaro riferimento alle scienze naturali di tipo deterministico, non certo casuale e possibilistico. Il comunismo è una società “prossima ventura”, non qualcosa di nebuloso su cui si fanno solo affabulazioni fantastiche e avveniristiche. Esso non è perciò affidato ad alcuna “buona volontà” (“cattocomunista”) degli uomini; è qualcosa di obbligato per individui che – al di là del fatto che saranno, come sempre, buoni e cattivi, egoisti e generosi, attaccati alla materialità di tutti i giorni e dediti a slanci idealistici, ecc. ecc. – svolgono ormai le funzioni, che li caratterizzano nell’ambito della produzione e riproduzione delle basi materiali della loro vita associata, in forma necessariamente cooperativa, pur alcuni essendo dirigenti e altri diretti. Gli individui, come sempre, possono amare, odiare, gioire, soffrire, essere aggressivi, caritatevoli, e via dicendo; non possono però esimersi – per come sono ormai organizzate socialmente le forze produttive in sviluppo (sempre più accelerato una volta rotto il paralizzante involucro dei rapporti capitalistici della proprietà privata) e per la struttura cooperativa dei processi di lavoro, dal più alto ruolo manageriale all’ultimo ruolo esecutivo – dal procedere ineluttabilmente verso la forma della proprietà collettiva e del rapporto sociale comunistico.
L’uomo – il singolo esistente individuo, non la fantasmagorica creazione dell’Uomo di filosofi in vena di puramente sognare (o anche di ingannare volutamente gli ingenui) – non è necessario abbia alcuna particolare tendenza alla bontà, all’amore disinteressato, all’assenza di ambizione e di conflittualità agonistica. Meno che meno, in una società che non sarà mai più quella dei “Maori”, si debbono sognare forme comunitarie, che nascondono del resto una ferocia e una tendenza all’annientamento dell’individualità nel più piatto conformismo della (piccola) comunità, da far invidia a qualsiasi “gruppo di condomini”. Il comunismo di Marx nasce con il pieno sviluppo produttivo, con avanzamenti sempre accelerati della conoscenza scientifica e delle sue applicazioni, con il dispiegarsi di bisogni nuovi e sempre più ricchi e complessi, con un’ansia crescente di sapere e accedere a livelli evoluti e confortevoli della vita sociale. Non una comunità di “beati di spirito”, di “anime belle” che predicano il Bene. Gli uomini sono quelli di sempre, hanno virtù e vizi come sempre, sono amabili e laidi come sempre. Cambia la loro oggettiva posizione nei processi della produzione sociale.
Il fulcro dell’intera questione è nel formarsi – per un processo assimilabile a quelli “naturali” – del rapporto sociale (non economico) legato alla dinamica centralizzatrice della produzione capitalistica, che è – nel suo aspetto più decisivo e irreversibile – riproduzione (allargata) di quel rapporto in via di trasformazione. Da una parte, appunto, sta un numero vieppiù ristretto di capitalisti puramente proprietari, che non contribuiscono ormai per nulla alla creazione di ciò che poi prelevano quale plusvalore. Essi allora si derubano fra loro con le più arzigogolate e banditesche manovre finanziarie, si aggrappano, come “ultima spiaggia”, agli Stati da loro controllati ma sempre più smascherati, davanti agli occhi della stragrande maggioranza della società, per quello che sono: non organi di amministrazione degli “affari sociali comuni” – come un ceto intellettuale, a loro venduto, cerca di far credere – bensì strumenti di repressione e coercizione per poter continuare a godere del plusvalore in forma privata e quale semplice interesse su capitali monetari, che “crescono” e poi si “accartocciano” su se stessi, mentre la collettività dei produttori, ai più svariati livelli dell’organizzazione produttiva, gode solo del salario, del prezzo della forza lavoro venduta alla guisa di una merce qualsiasi.
Il gruppo sociale dei rentier entra nel “cono d’ombra” della Storia, pur se dovrà essere infine esautorato del potere e spazzato via da una rivoluzione violenta che annienti il suo Stato, e ne metta in piedi un altro – in via di estinzione man mano che si procede verso il comunismo – atto a coadiuvare il processo di socializzazione delle forze produttive e di coordinamento cooperativo delle funzioni e ruoli ricoperti dagli individui, in quanto portatori degli stessi e non quali esseri umani concreti, empirici, che hanno le stesse passioni e sentimenti di sempre. Se la socializzazione delle forze
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produttive è il processo oggettivo, assimilabile ad un processo “naturale”, la formazione dell’insieme cooperativo dei portatori di ruoli e funzioni – l’operaio combinato, il lavoratore collettivo produttivo – ne è il lato soggettivo, indispensabile perché è ovvio che, in ultima analisi, occorre l’azione degli individui associati per spingere in avanti la trasformazione. Questa azione non è però il prodotto di un sentimentalismo degli uomini, o addirittura dell’Uomo, questa entità esistente solo nella testa di alcuni fantasiosi inventori di ubbie reazionarie; questa azione non dipende da un miglioramento della Natura Umana, o magari dal venire a galla di una innata moralità, solo a lungo (per millenni) repressa ma pronta a sbocciare (sempre nella testa dei suddetti filosofi).
Gli individui umani si trovano immersi in un processo oggettivo che li spinge ad essere i facitori – tramite un’epoca di transizione, in cui il vecchio resiste e tenta di opporsi; le mort saisit le vif, e bisogna liberarsene con metodi rudi – di una nuova organizzazione della produzione sociale ottenuta con mezzi su cui esiste ormai il potere di disposizione da parte dei produttori; pur se questi non rappresentano immediatamente una collettività coesa e solo collaborativa, ma esistono gerarchie, tipologie diverse di ruoli e funzioni (direttive ed esecutive con svariate gradazioni dalle une alle altre), agonismi e conflitti di interessi (quelle che Mao chiamerà più tardi contraddizioni all’interno del popolo), ecc. Questa la visione di Marx, che non ha nulla di utopico; è una previsione scientifica formulata in base all’indagine di un dato modo di produzione, già giunto ad un notevole grado di sviluppo (in Inghilterra).
Tale indagine portava a determinate conclusioni che, com’è ben noto almeno a chi mi legge, ho messo in dubbio e abbastanza profondamente modificato nel corso di uno studio di molti anni. Ho proposto le mie critiche con una certa nettezza, mai sognandomi però di attribuire a Marx sbandamenti utopici; e sempre opponendomi a quei veri falsificatori del suo pensiero che lo hanno trattato o da filosofo o da economista. Marx non è né l’una cosa né l’altra. Chi non l’ha capito dovrebbe arrossire di vergogna e tacere per sempre, invece di insistere nella totale deformazione di una teoria realmente scientifica della società, basata certo su ipotesi che possono ben rivelarsi scorrette e che debbono quindi essere rivisitate magari con radicalità. D’altra parte, questo è precisamente il cammino della scienza, come messo in luce da un bel passo di Weber da me citato recentemente in altro saggio. E’ invece facile giocare ai filosofi immaginari, i quali nelle loro farneticazioni non possono mai essere smentiti, dato che ragionano su “enti” che hanno lo stesso statuto di Dio; o ci si crede oppure no.
5. Quanto detto nel paragrafo precedente va adesso ricondotto al problema da me affrontato, con Althusser, all’inizio. Come la pensava Marx in merito alla trasformazione di una forma sociale (dei suoi rapporti storicamente specifici) in un’altra? Certamente, per quanto riguarda la transizione dal capitalismo al comunismo, mi sembra evidente la sua convinzione circa la creazione, all’interno del primo, delle condizioni essenziali per l’instaurazione del secondo. Del resto, ci sono affermazioni piuttosto inequivocabili in proposito: la rivoluzione comunista in quanto levatrice di un parto ormai maturo nelle viscere del capitalismo, ad esempio. D’altra parte, la centralizzazione – come socializzazione delle forze produttive e formazione del rapporto della seconda fase capitalistica, che vede uno dei due poli caratterizzato dal progressivo disfacimento parassitario e l’altro dalla rigogliosa crescita di una soggettività produttiva cooperativa – è movimento decisamente intrinseco al modo di produzione capitalistico.
La critica althusseriana della genesi coglie nel segno? Si può applicare ad una revisione adeguata dell’impianto teorico marxiano? Se il comunismo rientra nell’ordine delle possibilità, e non delle necessità, non può comunque esserlo se non sulla base di un processo di socializzazione delle forze produttive e di formazione del soggetto già più volte indicato (il lavoratore collettivo cooperativo). Fondarsi su altri principi, dell’ordine della speranza o della “buona volontà”, ecc. è pura resa al sogno, alla sfrenata immaginazione desiderante. E’ il nulla dei “comunisti” odierni (religiosi), che provocano solo rigetto. Tuttavia, anche la tesi della “lotta di classe”, nel cui ambito – e solo in questo – si formano le classi in lotta, non mi sembra aiuti gran che, nella sua vuota generalità. E’ in atto
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nella società capitalistica un movimento – credibile nei suoi tempi di realizzazione di qualcosa di concreto – che va formando alcuni elementi, dal cui eventuale, e non necessario, incontro, con successiva loro concatenazione riproduttiva, possa nascere un nuovo rapporto sociale di tipo cooperativo?
Intanto, diciamo, come affermato più volte ormai, che la dinamica capitalistica non è quella teorizzata da Marx. La funzione del capitalista non si riduce al solo aspetto finanziario, mentre quella organizzativa si sposterebbe all’interno del lavoro salariato nella figura del più volte nominato operaio combinato. Questo secondo movimento si è in effetti prodotto, tanto da aver dato adito alla formulazione burnhamiana della rivoluzione manageriale (che è risultata comunque troppo semplicistica). I manager, i dirigenti della produzione – e pure gli agenti innovativi – non sono però mai entrati a far parte di alcun organismo lavorativo cooperativo. Essi sono assai più vicini, come ruolo, a quelli che Lenin chiamò specialisti borghesi, di cui la classe operaia (ridotta alle pure “tute blu”) sarebbe stata obbligata a servirsi, ma di cui non si sarebbe mai dovuta fidare; la permanenza di uno Stato (di “dittatura proletaria”), in semplice estinzione graduale, serviva fra l’altro al controllo di questo infido strato sociale, necessario alla produzione, ma considerato assai più vicino alla proprietà che al lavoro salariato.
Il vero errore del marxismo (anche di Lenin) è tuttavia un altro: la riproduzione del rapporto capitalistico non ha portato al mero parassitismo dell’agente capitalistico (divenuto solo finanziario), ma alla decisività della sua funzione strategica nel conflitto. Il marxismo tradizionale ha pensato all’esistenza di un’unica contraddizione antagonistica, principale: quella tra proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e lavoro salariato. Questa la contraddizione rivoluzionaria, quella che spinge – mediante il processo (sociale) della centralizzazione capitalistica – alla trasformazione del capitalismo in comunismo. Le altre contraddizioni sono secondarie, non antagonistiche, possono al massimo coadiuvare la precedente, ma non hanno effetti rivoluzionari: e vengono “riassorbite” e dunque spariscono quando quella principale ha compiuto il suo lavoro. Anche su questo punto, il marxismo althusseriano ha cercato di innovare con il concetto di surdeterminazione, che ha lasciato spazio e ruoli non insignificanti alle contraddizioni dette secondarie, non antagonistiche. Tuttavia, giudicando “con il senno di poi”, a me sembra che la surdeterminazione sia stato un concetto di compromesso, un voler salvare “capra e cavoli”.
Puramente e semplicemente, la contraddizione capitale/lavoro non è né principale né antagonistica, se non sul piano della distribuzione, non certo su quello della produzione (e riproduzione del rapporto). Man mano che il capitalismo ha sviluppato le sue precipue caratteristiche, sempre più le diverse, e sedicenti, classi operaie hanno mostrato la loro natura tradunionistica, sindacale, che Lenin aveva attribuito a quella inglese (perché fu la prima a svilupparsi pienamente), escogitando la distinzione dell’in sé e del per sé (il partito come organizzazione cosciente d’avanguardia), che si è rivelata un puro escamotage, un altro compromesso per non rimettere in discussione l’intero impianto concettuale marxiano (fra l’altro ormai frainteso poiché tale classe, per il fondatore della teoria, era l’operaio combinato, non certo il solo insieme dei lavoratori di fabbrica).
E’ ora di affermare con estrema nettezza che non sussiste questa pretesa contraddizione principale, quella (in verticale) tra capitale (proprietà) e lavoro (salariato). Non è decisiva, trasformativa, quest’ultima; e non lo è nemmeno la pura e semplice contraddizione economica, legata alla competizione intercapitalistica, in quanto concorrenza tra imprese. Riconsideriamo per un momento, la concezione marxiana. Il modo di produzione capitalistico, con le specifiche caratteristiche analizzate ne Il Capitale, avrebbe dovuto espandersi a macchia d’olio dall’Inghilterra al mondo intero. La famosa “rivoluzione contro Il Capitale”, attribuita da Gramsci a Lenin, è stata solo un geniale adattamento di questa (vecchia) teoria a quella che perfino l’intero gruppo dirigente bolscevico (quando Lenin rientrò in Russia nell’aprile del 1917 e dichiarò subito le sue reali intenzioni) considerava una forzatura, un troppo brusco passaggio dalla rivoluzione borghese, che andava completata, a quella proletaria. In realtà, con la giusta distanza storica, ci si rende conto come il cosiddetto imperialismo – non stadio ultimo del capitalismo, ma fase policentrica dello sviluppo capitalistico mondiale – sia
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stato l’effettiva condizione di possibilità della Rivoluzione d’Ottobre, che non ha mai nemmeno iniziato la trasformazione del proletariato in classe dominante, ma solo creato una nuova grande potenza per vie diverse da quelle usuali, con tutto ciò che ne è seguito e su cui adesso non mi soffermo.
Lo sviluppo capitalistico su scala mondiale, avvenuto a sbalzi per grandi fasi storiche, non ha per nulla comportato la formazione del rapporto tra gruppo di rentier e lavoratore collettivo, prodromo e condizione di possibilità (per Marx, anzi, di necessità) del passaggio al comunismo; ha invece creato, mediante conflitti tra gruppi di agenti strategici capitalistici, una serie di nazioni-potenze in lotta per la supremazia globale. Dalle crepe apertesi in questa lotta sono passate le rivoluzioni “comuniste” – rifluite e sconfitte dappertutto dopo la prima guerra mondiale salvo che in Russia; ma poi riprese con il secondo conflitto mondiale – convinte di poter creare un “qualcosa” che invece, dopo un lungo percorso storico secolare, si è rivelato essere del tutto diverso dal supposto e agognato. Fra l’altro, e questo è problema decisivo, le diverse nazioni -potenze non sembrano affatto delle mere specificazioni di un unico ed omologato modo di produzione capitalistico in espansione mondiale come previsto da Marx. Le forme generali dell’impresa e del mercato non possono nascondere tonalità, coloriture, assai diverse, su cui esistono al massimo molti studi con annotazioni empiriche, ma nessuna trattazione teorica appena un po’ più generale; e ciò è estremamente grave, soprattutto per una corretta prassi politica.
Il conflitto “di classe” – scaduto, in ogni paese divenuto compiutamente capitalistico, a mera lotta per la distribuzione del reddito e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di vari raggruppamenti sociali (che solo la pigrizia mentale dei “marxisti” si è ostinata a ritenere ancora classi) – è stato via via sopravanzato da quello esistente tra queste nazioni -potenze, perfino quando una di esse (gli Usa) ha preso il sopravvento (ora in discussione). Finite le banalità sostenute in merito all’esaurimento delle funzioni degli Stati nazionali – credenza favorita dal predominio mondiale degli Usa tra il 1989-91 e il 2003 o giù di lì – si è potuto constatare come il rapporto tipico del capitalismo non sia solo quello in verticale tra dominanti e dominati (e nell’ambito sia dei primi che dei secondi sarebbe semplicistico ragionare in termini di “classe”, poiché vi sono molti gruppi con più o meno accentuate conflittualità e differenze di interessi); esiste pure quello in orizzontale che interessa soprattutto i gruppi dominanti in lotta per la supremazia.
Tali gruppi agiscono ampiamente all’interno dei vari paesi (formazioni particolari), ma svolgono funzioni precipue nello scontro, attualmente in via di nuova acutizzazione, tra le varie formazioni particolari, in specie tra quelle che stanno tornando ad essere nazioni -potenze. Il tipo di conflitto in atto non è quello “di classe” tra capitale e lavoro (come già detto, il presunto conflitto principale e antagonistico, anticipatore della rivoluzione proletaria e dell’avvio della transizione al comunismo); ma nemmeno è semplice competizione interimprenditoriale, di tipologia prevalentemente economica. Il conflitto è strategico – e gli agenti capitalistici dominanti svolgono proprio questa funzione – e dunque è eminentemente politico, in qualsiasi sfera della società si esplichi. In ogni caso, l’agente dominante – quello situato ad uno dei poli del rapporto che la dinamica capitalistica sempre riproduce – non è affatto un puro “succhiatore di plusvalore”, non è mai soltanto un agente della sfera economica. La dinamica in questione è ben più complessa di quella immaginata dal marxismo, e da Marx stesso, e non comporta mero parassitismo, decadenza e disfacimento del capitalismo, preparazione delle condizioni oggettive e del soggetto che lo faranno transitare al comunismo.
L’attuale crisi finanziaria ha l’effetto, proprio per l’arretratezza della teoria (non solo quella marxista), di provocare rigurgiti economicistici, visioni di puro parassitismo dell’attività dei dominanti capitalistici. Ho denunciato questa mentalità distorta in molti scritti degli ultimi tempi, ho già speso un certo numero di ipotesi circa le funzioni effettive della finanza in fasi capitalistiche diverse e in spazi geopolitici differenti; riprenderò ancora l’argomento, ma non in questa sede. Dico solo che l’arretratezza teorica porterà, come già in passato, a pratiche politiche errate con effetti disastrosi; che non credo siano tanto lontani (non comunque decenni, forse solo qualche anno).
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6. Per concludere: siamo in grado di individuare, nel movimento specifico della società capitalistica – e si dovrebbe anche porre la domanda: esiste un solo capitalismo, un modo di produrre tipico del capitale in ogni dove? – la formazione di elementi che poi, in una eventuale e solo possibile loro concatenazione riproduttiva, configurerebbero un modo di produzione cooperativo, basato sulla proprietà sociale dei mezzi produttivi, che rappresenterebbe allora il nocciolo strutturale interno di una formazione sociale comunista, o tendente al comunismo? Già questa domanda fa giustizia di tutte le aberranti farneticazioni dei filosofi “umanitari” che immaginano un comunismo della “buona volontà”, del desiderio di “uomini pii e giusti”. Illusioni estremamente pericolose quando incontrano giovani ancora inesperti e pieni zeppi di idealismi fumosi.
In linea generale, di principio, aderisco alla tesi che il meccanismo riproduttivo di un nuovo rapporto, caratterizzante una nuova formazione sociale, non nasca all’interno di una precedente forma di società; che dunque quest’ultima non porti già nel suo grembo la nuova, da far nascere tagliando al massimo il cordone ombelicale che la lega ancora alla vecchia. La rivoluzione sarebbe allora questo taglio, che riguarderebbe in particolare lo Stato – e gli apparati ideologici di Stato – in quanto ultimo baluardo a difesa delle classi dominanti della vecchia formazione sociale. Sempre tenendo realisticamente presente che tali classi dominanti, e il loro Stato, non hanno funzioni soltanto egemoniche in senso culturale, bensì sono protette dallo scudo coercitivo e repressivo rappresentato dai “distaccamenti speciali di uomini in armi”. Per cui, in nessun caso comunque, è sufficiente la conquista di una maggioranza parlamentare, e nemmeno la penetrazione capillare nei vari organi di informazione e diffusione culturale, che sono sempre permeati da specifiche ideologie. Questi ultimi metodi rappresentano solo l’inganno durevole del perfido gioco della “destra” e della “sinistra”, del tutto consono alla perpetuazione del predominio dei vecchi gruppi dominanti. Una rivoluzione – che è il passaggio da un ordine riproduttivo sociale ad uno completamente differente – deve in ogni caso esercitare tutta la forza necessaria ad infrangere il suddetto scudo coercitivo e repressivo, per far saltare l’intero “gioco degli specchi” condotto dagli agenti politici dei dominanti capitalistici.
Per tornare a noi, se non si forma, all’interno della vecchia società, l’embrione del nuovo rapporto già pronto nella concatenazione riproduttiva dei suoi elementi componenti, è evidente che – pur nell’apparenza della continuità della storia umana – si deve in realtà verificare una interruzione, che è interruzione della riproduzione del vecchio rapporto secondo la sua specifica “legalità”. Si presenta, insomma, pur nella continuazione della Storia, una singolarità, un punto di svolta, che è tuttavia, in un primo tempo, solo potenziale. Nella singolarità possono essere però presenti alcuni elementi – questi si, evidentemente, creatisi all’interno della vecchia società – che sono in grado, una volta incontratisi e concatenatisi fra loro, di dar vita ad una nuova formazione sociale, caratterizzata da una differente “legalità”, cioè dalla riproduzione di un nuovo rapporto (di una nuova struttura di rapporti). E’ appunto l’incontro di tali elementi a non avere alcun carattere di necessità (storica), ma solo di possibilità (di cui nemmeno è calcolabile la probabilità statistica).
Aderisco a tesi del genere, ma queste non dicono nulla circa la sussistenza di elementi che, formatisi all’interno della società capitalistica attuale, potrebbero incontrarsi e concatenarsi fra loro in un meccanismo riproduttivo del tipo comunistico (o meglio: di transizione al comunismo). Piaccia o non piaccia ai “comunisti del sentimento”, alcuni elementi sono fondamentali per pensare l’innesco riproduttivo di nuovi rapporti sociali, costituenti la struttura di una formazione sociale che si ponga in marcia verso il comunismo. E questi elementi non sono in fondo diversi da quelli che aveva pensato Marx; non è certo su questo punto che egli si è ingannato.
E’ intanto evidente che debbono porsi le basi per il superamento della produzione di merci; non però obbligato da una presunta pianificazione promanante d’imperio da un organo statale – incapace, in effetti, di effettuare adeguati calcoli che sono ineliminabili in una prima fase, almeno fino a quando non fluiscano copiosi i beni per soddisfare ogni e qualsiasi bisogno – bensì consentito dalla crescita del processo di socializzazione delle forze produttive e dalla stretta interconnessione tra i vari settori produttivi, in un certo senso resa necessaria dalla socializzazione in questione. La produzione di merci non è negativa per la sedicente alienazione umana; questa è già improbabile nella
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produzione mercantile semplice, figuriamoci in quella capitalistica, che è la vera e generale produzione di merci. Quest’ultima comporta però l’accanita competizione interimprenditoriale e i processi – sociali, non solo economici – della centralizzazione. Parlare di socialismo di mercato è un’autentica contraddizione in termini. E’ quel “proudhonismo” contro cui Marx scrisse più di una volta; qui mi limito a due righe (cap. 22 del primo libro de Il Capitale, in nota): “si ammiri la furberia del Proudhon che vuole abolire la proprietà capitalistica facendo valere di contro ad essa…..le eterne leggi della produzione di merci” [i puntini di sospensione, ironici, sono di Marx].
Pensate a chi propone già da qualche decennio – dopo la disfatta del “socialismo reale” – il socialismo di mercato; è incredibile che il pensiero torni indietro di due secoli, ai socialisti premarxisti. Certuni straparlano di alienazione, e pensano magari che con la “buona volontà” degli uomini “giusti” (che sarebbero loro) questa si possa combattere e sconfiggere; lasciando invece intatta la capitalistica produzione di merci, che è quel che interessa coloro contro cui fingono di battersi. No, uno degli elementi per la formazione, sia pure potenziale, di un nuovo rapporto in direzione del comunismo, è una tale socializzazione della produzione da creare elementi di possibilità (conveniente) riguardo all’interrelazione diretta ed equilibrata tra i vari settori produttivi. Ma non basta, anzi è del tutto insufficiente.
L’elemento decisivo di una prospettiva di cooperazione – che è la la condizione di base, necessaria anche se magari non sufficiente, della possibile, non inevitabile, formazione di un rapporto comunistico in grado di autoriprodursi – è il costituirsi dei due elementi chiave di detta cooperazione: a) uno strato di dirigenti capaci di organizzare e dirigere, innovando, i processi della produzione sociale, in grado di soddisfare bisogni crescenti e sempre più ricchi e variegati; b) gruppi sociali, interni alla produzione stessa, fra loro coordinati, di cui interessa non la mera estrazione di pluslavoro (che non cade nella disponibilità del precedente strato, ma resta affidato ad una distribuzione per usi sociali decisa da organi “amministrativi” non coercitivi), bensì la crescita di competenze e spirito di iniziativa. Il comunismo non dovrebbe essere solo un modo di produzione, ma deve essere anche questo; dovrebbe rappresentare il “nocciolo strutturale interno” della nuova formazione sociale, la sua innervatura fondamentale, il rapporto decisivo – e caratterizzante l’intera società – in effettiva riproduzione. Come il processo del modo (sociale) di produrre capitalistico riproduce, ad ogni ciclo, da una parte la proprietà capitalistica (aumentata del plusvalore) e dall’altra la forza lavoro sempre venduta quale merce; così il modo di produrre sociale comunista dovrebbe riprodurre gli elementi a) e b) sopra considerati, consolidandosi e allargandosi così ad ogni ciclo.
Per Marx non vi era problema; avendo preso in considerazione soltanto la razionalità produttiva del minimo mezzo (del minimax), per lui non vi era dubbio che questa, dopo aver funzionato a favore della proprietà privata (capitalistica) dei mezzi e forze di produzione, si sarebbe trasformata, tramite i già considerati processi della centralizzazione e socializzazione di mezzi e forze, in potente strumento collettivo di forte aumento della produzione atta a fornire beni “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Il gruppo degli “oppositori” rispetto a tale processo si sarebbe ridotto a quei proprietari solo finanziari ormai avulsi da ogni processo produttivo. In quest’ultimo, dirigenti e diretti – tutti “sfruttati” per quanto a diversi livelli di benessere – avrebbero individuato necessariamente l’ostacolo (parassitario) all’ulteriore sviluppo sociale; la repressione e coercizione statale non sarebbero più bastate a bloccare la rivoluzione.
Il “piccolo” mutamento, per cui si è afferrato che i dominanti capitalistici non si riducono a semplici parassiti, bensì sono strateghi di un conflitto – nemmeno combattuto solo, o principalmente, nella sfera puramente economica della società – muta completamente tale prospettiva. La funzione dei dominanti non è direttamente produttiva, ma solo un incompetente può pensare che essa sia inessenziale, parassitaria, una sorta di escrescenza da asportare il più presto possibile. La stessa finanza ha ben altre funzioni che non quelle messe in luce nelle fasi di crisi, che non a caso non sono per nulla l’annuncio della fine del capitalismo come pensano quelli che non hanno voluto considerare sotto altra luce la struttura produttiva capitalistica. Non mi diffondo qui in trattazioni che ho già fatto altre volte (e che continuerò in futuro), ma l’abnormità del processo finanziario – che, nella
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sua autonomia relativa, cresce a dismisura con imbrogli e manovre piratesche, creando un “mondo di carta” che crolla su se stesso – non dipende da parassitismi, bensì dalle complessive strategie di conflitto tra dominanti che, quanto più si acuisce nell’approssimarsi delle fasi policentriche, produce sconquassi via via più gravi.
Tale atteggiamento strategico di conflitto, che è l’effettivo carattere dei gruppi dominanti (il loro essere proprietari è condizione accessoria, per quanto sia apparsa storicamente rilevante), impedisce ogni saldatura tra i suddetti elementi a) e b) della produzione, che quindi non si avvia ad essere svolta secondo modalità sociali di tipologia comunistica. Gli elementi sussistono, sono presenti, ma non si incontrano per concatenarsi nella riproduzione di un nuovo rapporto. Sono come le masse di denaro accumulate e i lavoratori liberi, di cui Marx parlò riferendosi alla fine del mondo antico. Lenin, in pratica, capì benissimo il problema, quando definì i dirigenti dell’organizzazione produttiva specialisti borghesi. Con questo termine li identificava come sostanziali nemici di classe, come legati ai dominanti capitalistici. Tuttavia, non comprese che, senza l’operaio combinato (pensato da Marx), e limitandosi a considerare rivoluzionaria (e solo in sé, perché la “coscienza” era di pura pertinenza del partito) la “classe” degli operai di fabbrica, di fatto dichiarava inconsapevolmente l’impossibilità della rivoluzione comunista; l’unica prospettiva – quella realizzata dalla Storia effettiva, reale, e non puramente immaginata e trasfigurata dall’ideologia – era la creazione di una nuova grande nazione -potenza. E questo è stato, sia con l’Urss fino al 1985 (ascesa al potere del “liquidatore” Gorbaciov), sia con la Russia dopo le traversie del crollo socialistico e il processo di riassestamento, soprattutto a partire dal 2003-4 (vera data d’inizio della nuova epoca che stiamo vivendo; non il settembre 2001 come tutti i “luogocomunisti”, incapaci di vera analisi, ripetono).
Il problema appena messo in luce – l’impossibilità di incontro tra gli elementi a) e b) – dipende anche dal fatto che, malgrado tutte le apparenze (che sono assai forti e ideologicamente obnubilanti), non è la sfera economica quella in cui si giocano le prospettive della trasformazione. Le strategie del conflitto si esplicano in tutte le sfere sociali (anche in quella ideologico-culturale), ma sono eminentemente politiche. Ed esse acquistano speciale rilevanza quando ci si trova nelle singolarità, quelle apparenti interruzioni del processo storico in cui entra veramente in crisi (non quella congiunturale, economica, cavallo di battaglia di tanto marxismo degenerato in dottrina dogmatica) la “legalità” della riproduzione del rapporto predominante nella vecchia formazione sociale. Qui si sciolgono alcuni elementi che possono (non debbono) ricollegarsi e riconcatenarsi nella nuova “legalità” riproduttiva di un diverso rapporto. Qui deve intervenire la politica della trasformazione, a patto di non illudersi che darà a questa nuova “legalità” la forma che proprio ha deciso. Quanto più ci si rende consapevoli che quest’ultima sfugge sempre al controllo, tanto più efficacemente si può cercare di intervenire per una correzione di rotta.
Non si può tuttavia capire nulla della possibilità di questa nuova “legalità” se non si afferrano i due errori fondamentali commessi dal marxismo: dallo stesso Marx, ma poi ingigantiti dai successori. Innanzitutto, l’agire strategico (politico) è decisivo per quanto concerne l’effettiva dinamica della società capitalistica; e perfino della sua più ristretta sfera economica (produttiva e finanziaria). L’agire del minimax non è quello tipico degli agenti dominanti. Chi poi continua con la proprietà dei mezzi di produzione – peggio ancora con le utopie umanistiche del socialismo premarxista – non farà mai un passo avanti. In secondo luogo, è necessario smetterla con la semplice analisi del modo capitalistico di produrre. Questo può restare benissimo quale base della società; l’importante è comprendere che detta base non spiega i processi sociali effettivi. Non perché questi sono “complessi” – altra invenzione dei deboli pensatori che inondano la teoria di “nero di seppia” per non far capire a nessuno quello che i loro cervelli non sanno nemmeno iniziare a indagare – bensì perché le “basi” sono substrati in cui si svolgono i processi, che vanno comunque trattati nel modo più semplice possibile. Il substrato è ciò la cui insussistenza impedisce lo svolgimento di un qualsiasi processo, ma non spiega l’andamento effettivo di quelli che si verificano in sua presenza; un andamento che comunque va ipotizzato mediante semplificati schemi analitici, come si fa quando si è scienziati e non impenitenti chiacchieroni, ridicoli “tuttologi”.
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Dalla presunta (e invece inesistente) contraddizione antagonistica principale, inerente al modo di produzione capitalistico, dobbiamo passare all’analisi di ben altra articolazione di una molteplicità di contraddizioni: quelle interne ad ogni data formazione particolare (paese in genere), nel cui ambito non ve n’è una che prevalga permanentemente, e la cui reciproca rilevanza va analizzata fase per fase; e quelle sussistenti, per epoche mono e policentriche, tra le varie formazioni particolari – di cui alcune diventano nazioni -potenza – nell’ambito della formazione mondiale o globale.
Come si è notato in questo piccolo saggio, con Marx continuo a fare i conti costantemente; e così pure con l’interpretazione che di Marx diede Althusser (e la sua “scuola”). Tuttavia, da quelle concezioni – le uniche comunque dotate dei criteri della scientificità – dobbiamo prendere le mosse per capire i limiti fondamentali della teoria marxista, mai affrontati veramente dai successori. Ci si è limitati ad aggiustamenti ad hoc, anche rilevanti, anche felici nei loro effetti pratico-politici (si pensi appunto a Lenin). Tuttavia, è ora di affrontare il problema. Non per trattare in generale, in linea di principio, il problema dell’incontro, solo possibile e mai necessario, tra elementi sciolti che concatenandosi danno vita a nuove formazioni sociali; ad esempio, a quella pensata come comunista. E’ per il momento indispensabile partire da una teoria di questa fase storica. Non credo affatto che in essa ci si debba affrettare a dare una risposta (e per di più dogmaticamente positiva) alla domanda: esistono le condizioni di possibilità del comunismo? Alcune d’esse – quelle sub a) e sub b) – sembrano sussistenti nei loro caratteri più generali (e generici), ma sono attualmente inserite in una struttura riproduttiva del capitalismo (o forse dei capitalismi) che non lascia presagire alcuna vicinanza del comunismo; e nemmeno una solo sperata fine del capitalismo(i).
Quindi, molta pazienza e nessuna improvvisazione; questa lasciamola ai nuovi utopisti (sette-ottocenteschi), irritanti personaggi di grande presunzione e superficialità. Molto ambiguo il loro gioco, ma evitiamo di prenderli sul serio. E’ aperto davanti a noi un vasto campo di indagine: da scienziati, e non digiuni di politica. Non da “affabulatori” per chi vuole solo illudersi.
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