ESTRATTI DI PASSI INEQUIVOCABILI DI MARX, di GLG
Cominciamo con “Il capitolo VI inedito”, La Nuova Italia (1969), pag. 74.
“Poiché, con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti – chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico, ecc., chi come sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto – un numero crescente di funzioni della forza-lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro produttivo, e un numero crescente di persone che lo eseguiscono nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo processo di produzione e valorizzazione [faccio notare che Marx mai parla, come gli ‘operaisti’, del comando o dominio del capitale; il che presupporrebbe semmai la semplice sottomissione formale o, peggio ancora, la nefasta idea di Dühring concernente lo sfruttamento, cioè l’estrazione di plusvalore attuata dal capitalista individuale – o da quel capitalista totale che è poi divenuto, nel cervello di tanti esaltati nel ’68 e ’77, lo Stato (magari delle multinazionali) – ‘con la spada in pugno’, cioè mediante costrizione attuata d’imperio. Lo sfruttamento è invece per Marx un fatto che riguarda il processo di produzione organizzato capitalisticamente. Nota mia]. Se si considera quel lavoratore collettivo che è la fabbrica, la sua attività combinata si realizza materialmente e in modo diretto in un prodotto totale, che è nello stesso tempo una massa totale di merci – dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al lavoro manuale in senso proprio”.
Questo è uno dei passi più belli e chiari. Ve ne sono però altri, non facili adesso da reperire perché sparsi qua e là. Comunque, si legga pure dal libro III de “Il Capitale” (cap. 27, par. III sulla formazione delle società per azioni), Ediz. Einaudi, pp. 607 e 609. Si tratta di affermazioni che non lasciano adito a dubbi circa l’idea di Marx relativa alla divisione della società in un pugno di rentier, ancora proprietari privati dei mezzi di produzione, contrapposti all’intero corpo lavorativo (dal dirigente all’ultimo manovale), che ne dispone collettivamente l’utilizzazione nei processi produttivi.
“In queste condizioni, il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) [quindi, con la più completa centralizzazione monopolistica dei capitali, e la formazione del gruppo dominante dei rentier, di fatto tutto il plusvalore estratto è percepito parassitariamente senza più intervento diretto nella produzione; è insomma una vera similrendita, non più terriera ma finanziaria; nota mia] si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero”.
Ancora:
“Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni, che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in funzioni dei
produttori associati, in funzioni sociali” [sempre ricordando che i produttori associati sono il “lavoratore collettivo cooperativo dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”].
Infine:
“Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che ‘prima facie’ si presenta come momento di semplice transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali solo di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. E’ produzione privata senza il controllo della proprietà privata”.
Come si vede non mi sono inventato nulla nella mia interpretazione di Marx. E non vi è dubbio che la sua visione, rispetto alle sciocchezze e mistificazioni dei cultori del mercato e delle virtù imprenditoriali, è più avanzata; non si può arretrare da questo punto. Tuttavia, poiché la “contraddizione” non si è distrutta da se stessa, non si è prodotta la semplice contrapposizione tra i finanzieri e il lavoratore combinato (dal dirigente all’esecutore), bisogna compiere un “passo avanti”. E credo che l’individuazione delle funzioni strategiche (di conflitto) rappresenti questo avanzamento, perché non sussiste il puro e semplice parassitismo dei dominanti capitalistici, nemmeno nei più alti punti della centralizzazione dei capitali. Inoltre, le funzioni strategiche spiegano anche come mai, pur con continue ondate di questa centralizzazione (su cui ancora oggi fissano l’attenzione i “marxisti” residui), non si giunga mai al punto previsto da Marx, con la divisione dicotomica della società e, dunque, con il socialismo e poi comunismo (“negazione della negazione”, cioè “contraddizione che si distrugge da se stessa”) che si formerebbero all’interno stesso del modo di produzione capitalistico, per sua intrinseca dinamica. In effetti, il vero capitalista della formazione sociale così denominata non è il mero proprietario dei mezzi produttivi; la sua funzione precipua è quella di espletare le strategie nella lotta per la supremazia. E simili strategie di lotta sono tipiche degli imprenditori nella sfera economica, degli agenti attivi nella sfera politica e, pur se a mio avviso in subordine, di quelli (gli intellettuali) che si muovono nella sfera ideologico-culturale.
P.s. Nel cap. XXIII del III libro de “Il Capitale” (Ed. Einaudi, 1970, pp. 535-6) c’è un’altra bella notazione che riguarda più indirettamente il problema:
“La confusione tra guadagno d’imprenditore e salario di sorveglianza o di amministrazione [direi meglio: anche di direzione, ndr] è derivata originariamente dalla forma antagonistica che assume, rispetto all’interesse, l’eccedenza del profitto sull’interesse. Essa è stata in seguito sviluppata nell’apologetica intenzione di rappresentare il profitto non come plusvalore, ossia come lavoro non pagato, ma come salario del capitalista stesso per il lavoro reso”.
La teoria neoclassica è al proposito molto chiara perché fa (più scopertamente però) del profitto la remunerazione dell’imprenditore (non necessariamente proprietario) per la capacità di combinare i fattori produttivi (terra, capitale e lavoro); e qui per capitale s’intende non il rapporto sociale bensì appunto le cose, gli strumenti di produzione. Schumpeter vi aggiunge una notazione ancora più fondamentale e che maschera meglio il problema del pluslavoro/plusvalore: il profitto nasce dall’innovazione dell’imprenditore (sempre non il semplice proprietario) che rompe con la routine (in cui non ci sarebbe profitto). Del resto tutti gli anticapitalisti odierni, che soprattutto insistono sulla degenerazione della società per cui la finanza predomina sul fenomeno produttivo, restano di fatto entro quest’ottica. L’imprenditore che combina bene i fattori produttivi (abbassando i costi di produzione e dunque i prezzi con vantaggio dei consumatori) o che innova (con nuovi beni che ampliano la gamma dei bisogni soddisfatti) è in fondo un capitalista utile; il finanziere è un parassita che gli succhia il sangue.
Siccome adesso, secondo i critici che così interpretano le crisi economiche e in particolare quella del 2008 e tuttora in atto, è la finanza a provocare simili fenomeni, l’anticapitalismo si riduce all’attacco a quest’ultima, che rappresenta una vera distorsione del capitalismo; per alcuni è rimediabile, per altri annuncia invece la maturità e senescenza del capitalismo vicino alla morte. Tutte teorie da combattere poiché paralizzano la necessità di battere le strategie degli agenti capitalistici che, lottando per la supremazia (sia all’interno dei paesi che tra paesi), portano alla guerra e alla distruzione di strutture sociali, da cui poi nascono a volte le rivoluzioni. E, se ci si vuol preparare a queste ultime, si deve comprendere bene dove si situa la vecchiezza della teoria marxiana (e del marxismo) e apportarvi gli opportuni rivoluzionamenti.