Estratto da un lavoro in corso
Questo è l’ultimo paragrafo finora scritto del mio saggio in un nuovo libro (in preparazione con Petrosillo). Un saggio in due parti, in cui sto cercando di precisare – nei limiti delle mie possibilità e dell’epoca di transizione che stiamo vivendo – una “ristrutturazione” del pensiero marxiano, partendo da quelli che ritengo i suoi assunti principali e ancor oggi da riproporre. Assunti che, secondo il mio ormai ventennale (o quasi) convincimento, sono stati bellamente dimenticati o ancor peggio stravolti dalla quasi totalità dei marxisti successivi a Marx (me compreso per alcuni decenni). Questo libro non sarà finito se non fra qualche mese. Inoltre attendo prima la pubblicazione del volume su “Per la forza nuova” (sottotitolo, pur esso a due mani), che dovrebbe avvenire entro ottobre-novembre. Quest’ultimo non è un semplice testo di tipo teorico. Lo ritengo rilevante e quindi spero che l’editore mantenga i tempi. Poi nel nuovo anno dovrebbe apparire anche il libro cui appartiene il paragrafo qui presentato. Ricordo, come ultima notazione, che in facebook non appaiono i corsivi, che sono in discreto numero. Comunque credo che tutto sia egualmente comprensibile senza difficoltà; almeno per quelli che hanno dimestichezza con l’ambito teorico, quello marxiano in particolare.
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8. E allora veniamo al dunque. Bisogna restare fermi sull’idea che il cosiddetto mercato – per nulla libero, bensì subordinato alle complesse mosse dei diversi dominanti in conflitto per il massimo potere – è solo la “superficie” del movimento sociale quando sono cadute tutte le altre forme di predominanza fondate su rapporti di dipendenza personale: di schiavismo o servitù. Il problema è certo il controllo del plusprodotto che l’essere umano, unico fra gli animali, ottiene con la sua attività detta lavorativa; la caccia del leone alla gazzella o il becchettare degli insetti da parte degli uccelli, e via dicendo, non si definiscono lavoro. Restare alla “superficie” dell’interazione tra scambisti nel mercato – come fanno gli economisti, i sociologi, ecc. dei dominanti – è esattamente il modo di impedire ogni comprensione su chi effettivamente comanda nella società e su come avviene l’appropriazione del plusprodotto. Dobbiamo intanto capire che tale appropriazione non è il fine ultimo dei ceti dominanti in una data forma dei rapporti sociali. Lo scopo principale è appunto il mantenimento del predominio anche quando cadono le forme di dipendenza personale nella società moderna (detta capitalistica). Il plusprodotto resta certo uno strumento rilevante del predominio. Per affrontare i problemi relativi a quest’ultimo – e al suo mantenimento o rovesciamento in una data epoca storica – si deve anche passare per l’appropriazione del plusprodotto. Tuttavia “anche”, non esclusivamente o prevalentemente.
Una volta compreso il limite della centralità assegnata da Marx alla proprietà dei mezzi di produzione come carattere decisivo della dominanza, una volta appurato che non basta scindere proprietà e potere di disporre di detti mezzi tramite l’effettiva direzione dei processi produttivi (da parte dei manager, considerati allora i veri dominanti capitalistici), ho proposto da tempo, e lo ribadisco, di passare intanto alla centralità del conflitto per l’assunzione di una supremazia. Il conflitto ha certo un carattere di generalità, che tuttavia non cancella la differenza tra quello tra singoli individui all’interno di ogni dato gruppo sociale (di differenti tipologie e dimensioni, a partire dalla cosiddetta “famiglia”), quello tra vari gruppi sociali all’interno di una data popolazione considerata come qualcosa di unitario in base a date caratteristiche (prima fra tutte la lingua comune ai suoi svariati membri; ma non solo questa evidentemente, anche altre comunanze di tradizioni, abitudini di vita, forme di organizzazione specifica della vita associata, ecc.), infine quello tra diverse popolazioni di questo tipo che poi – a partire almeno da metà secolo XVII, dalla fine della “guerra dei trent’anni” – vengono definite nazioni e sono organizzate in quegli apparati, il cui complesso è detto Stato.
Se ogni conflitto mira comunque all’assunzione di una supremazia – e presuppone quindi sempre che ci debba essere un vincitore e un vinto, uno che prende il sopravvento e uno che viene assoggettato; assai più raramente annientato completamente, cancellato dalla “Storia”, obiettivo che in genere non soddisfa pienamente le esigenze di chi vince – è ovvio che esso deve essere condotto seguendo una serie di mosse tese a dare infine “scacco matto” all’avversario. Possiamo definire questa serie di mosse nel loro insieme una strategia; e l’espletazione di quest’ultima da parte di vari gruppi in conflitto per la supremazia è in definitiva la politica (in corsivo per distinguerla da una delle tre “sfere” sociali già indicate, che consta di apparati vari). La politica, con connessa serie di mosse strategiche, viene attuata dai soggetti in conflitto in ognuna delle tre “sfere” sociali: in quella economica (ad es. tra imprese), in quella politica (tra diversi gruppi, ad es, partiti, lobbies, ecc. che tendono ad assumere il governo di una data formazione sociale), in quella culturale (tra i portatori di diverse correnti ideologiche). Nell’epoca moderna, le “tre sfere” riguardano quelle formazioni sociali “particolari” dette Paesi, Nazioni, in definitiva Stati. Ed è tra questi che ormai da qualche secolo si sono scatenati i conflitti più violenti per l’assunzione di una supremazia su larga scala nel mondo.
Se noi leggiamo i libri di storia, ci troviamo in presenza di continui conflitti tra vari gruppi dominanti nelle più diverse “comunità” sociali; quelle che, come appena detto, sono già da un bel po’ di tempo i paesi o gli Stati, ecc. Le rivolte degli strati sociali subordinati nelle diverse “comunità” (e negli Stati della modernità) sono soltanto episodiche. E ben poche di esse conducono poi all’effettiva rivoluzione che rovescia il vecchio assetto del potere di certi gruppi dominanti; anche quando ciò infine accade, si verifica poi sempre il consolidarsi di nuovi gruppi al vertice della società “rivoluzionata” con caratteri ed esercizio della politica differenti rispetto a quelli in uso presso i dominanti ormai spazzati via, ma sempre con la finalità della preminenza nel nuovo organismo sociale, nella nuova forma dei rapporti sociali.
Vorrei fosse chiaro che generalmente, almeno per un buon periodo di tempo, i gruppi dirigenti delle effettive rivoluzioni – perché senza chi le dirige, le rivolte vengono soffocate nel sangue – non sono affatto assetati di potere, non sono soltanto biechi individui che hanno approfittato di quell’occasione per assurgere al potere. Nient’affatto, essi sono all’inizio intenzionati – anche perché influenzati da fortissime convinzioni ideologiche – a conseguire ben altri ideali di maggior “equità sociale”. Poi però si impone la necessità di un’organizzazione funzionante e capace di riprodurre i pur nuovi rapporti sociali con un minimo di ordine, senza caos e anarchia. E l’abbiamo già ripetuto tante volte: “l’orchestra non suona senza il direttore”. Pian piano, dirigi oggi e dirigi domani, vengono avanti quelli che si assuefanno al potere; e la loro azione “distende” di nuovo la società “in verticale”, con gruppi che ascendono alla posizione di dominanti e le cosiddette “masse” che, pur spesso godendo di condizioni di vita migliori rispetto a precedenti epoche storiche, si dispongono negli strati dei dominati. L’organizzazione delle nuove società si irrigidisce e inizia una nuova epoca che durerà ….quel che durerà. Perché alla fine sempre le “classi” dominanti mostreranno l’incapacità di assicurare la riproduzione della società nella situazione di continua evoluzione tipica dell’essere umano che abbisogna, periodicamente, di radicali mutamenti delle forme dei rapporti sociali; e si imporranno dunque nuovi rivolgimenti con nuovi gruppi dirigenti degli stess