EVASORI E GABELLIERI
La lotta alla evasione fiscale è stato l’inno di battaglia che ha unito e motivato, per oltre quarant’anni, le schiere militanti della sinistra e dei social-cattolici.
Dalla riforma tributaria del ’73, varata dopo quasi trenta anni di discussioni e sperimentazioni, l’enfasi messianica e la furia degli anatemi è cresciuta proporzionalmente sia al fallimento della costruzione di un sistema tributario legato all’accertamento attendibile del reddito personale e all’unificazione dei criteri di imposizione dei vari tipi di reddito, che al progressivo accrescimento della spesa pubblica, ormai cronico e non più legato alle particolari e straordinarie contingenze verificatesi, in altre occasioni, a partire dall’unità d’Italia.
Ma se nel primo decennio tutto sommato le critiche assumevano un carattere politico ed erano comunque inserite in un programma di riforme e di sviluppo, anche se parolaio e velleitario, dalla metà degli anni ’80 la tematica ha assunto sempre più toni moralistici ed etici, slegati dal contesto produttivo e sociale, di contrapposizione sterile tra interi gruppi sociali.
I conflitti degli anni ’70 furono in qualche maniera contestualizzati in un programma di cosiddette “riforme di struttura” tese a costruire un “nuovo modello di sviluppo”, termini chiave delle liturgie sindacali e del PCI di allora, fondato sulla programmazione concordata sostanzialmente tra una élite tecnocratica e le rappresentanze dei lavoratori dipendenti, inizialmente comprensiva anche di componenti più professionalizzate.
Più che di riforme, risoltesi praticamente in quella delle pensioni e del sistema sanitario nazionale, si parlò di investimenti e industrializzazione al Sud in una fase in cui l’intervento pubblico assunse già caratteri ridondanti, orientati in settori di base e secondari, finiti in gran parte dei casi miseramente o con l’assorbimento assistenziale di aziende decotte.
Furono progressivamente esclusi dall’orbita di comprensione il ruolo dei ceti intermedi autonomi professionalizzati e la piccola e media imprenditoria in via di formazione nel Centro-Nord e in alcune parti del Sud del paese.
A cosa sia servito il costante incremento di spesa pubblica, il progressivo indebitamento e appesantimento dell’imposizione fiscale, tra l’altro distribuito con sperequazioni macroscopiche, il blog lo ha segnalato più volte; l’argomento, però, meriterà analisi più approfondite, fondamentali per individuare quelle forze suscettibili di essere coinvolte in un progetto di ricostituzione e sviluppo della sovranità del paese.
Quello che mi preme sottolineare è che, man mano che il conflitto avesse assunto, nel corso degli anni, caratteri puramente redistributivi dei redditi e gli interventi pubblici, normativi e finanziari, abbiano scelto progressivamente l’arena indistinta del mercato come loro campo di azione, il tema dell’evasione fiscale ha assunto sempre più caratteri moralistici e fustigatori, propri di tribuni portati più a criminalizzare i bersagli che a risolvere un problema in un’ottica di gestione di risorse tese a potenziare il paese.
La cosa sorprendente è che questo approccio ha conquistato alla causa paladini del tutto inaspettati.
Ha iniziato la Marcegaglia un anno fa, hanno proseguito Berlusconi e Tremonti, entrambi folgorati sulla via di Damasco, stanno proseguendo ormai da mesi, oltre alla ovvia “La Repubblica”, le due testate istituzionali del Corriere e del Sole24ore; l’apoteosi maggiormente ispirata la raggiungerà l’attuale governo incaricato da Quirinale, Commissione Europea e Governo Americano.
Un problema politico e sociale sempre più ridotto ad una caccia mistificatoria e predatoria che prevede il sacrificio di capri espiatori, la vessazione atomizzata dei malcapitati in nome della salvezza e sopravvivenza di interi gruppi.
In questa ottica, quasi nessuno ha messo in relazione l’arretratezza e il carattere periferico di un sistema sociale e produttivo con l’insostenibilità di un sistema fiscale così esigente e la conseguente evasione fiscale.
Tragedie come quella di alcuni mesi fa a Barletta sono così l’occasione, per i sinistri dalla pancia piena e i benpensanti, per esecrare poeticamente i responsabili, essi stessi vittime del disastro. Così a Vendola, maestro cerimoniere in queste occasioni, non resta che girare elegantemente la testa altrove quando le stesse vittime, piuttosto che imprecare contro gli sfruttatori da costui additati, chiedono smarrite come faranno a tenersi il loro bel lavoro in nero per garantirsi la sopravvivenza.
Qualche volta è capitato pure che sindacati e aziende, specie nel settore tessile, alimentare, calzaturiero, avessero tentato di concordare un’applicazione graduale e progressiva del regime fiscale e contributivo senza predisporre alcuna garanzia almeno parziale di commercializzazione dei prodotti aziendali, con il risultato della scomparsa quasi totale di quelle pur precarie attività.
Alla stessa maniera, nessun solone pronto a pontificare sulla morale e sull’etica pubbliche, non si chiede come intere frotte di artigiani preferiscono rinunciare all’attività legalizzata, spesso nei cantieri all’aperto e rinchiudersi come malfattori al riparo delle mura per svolgere attività in nero di minore qualificazione e maggior rischio.
Quegli stessi soloni e maneggioni hanno acconsentito e stanno ancora perseverando nel liquidare il patrimonio industriale strategico del paese, ponendo le condizioni per una ulteriore precarizzazione del sistema.
In nome del mercato riescono tuttalpiù a modificare i criteri di erogazione degli incentivi alle aziende per il loro ammodernamento e la loro ricapitalizzazione senza distinguere tra settori maturi e trainanti.
Lo scotto da pagare sarà il sacrificio di quei settori in grado di garantire la forza e la potenza di un paese e lo sviluppo stesso di quei settori complementari.
Alesina e Giavazzi ci dicono, d’altronde, candidamente che “Enel, Eni, Finmeccanica o le mille municipalizzate – Iren, Acea, Hera, A2A – sono aziende strategiche, ci spiace ma sono ambizioni che oggi non possiamo permetterci”.
Ripropongono la stessa politica fallimentare di venti anni fa, conoscendone esattamente l’epilogo.
Monti, Passera, destra, centro e sinistra non hanno da offrire al paese nessuna prospettiva di sviluppo e di dignità; non possono chiedere ai milioni di componenti dei settori parassitari ed arretrati quei sacrifici e quello spostamento di risorse necessari a ricostruire la forza e la sovranità di un paese; a maggior ragione si guardano bene dal raccogliere le forze necessarie a resistere all’assalto dei predatori; sono pronti invece a spalancare loro ancora di più le porte di casa nella speranza di salvare la propria e di aggregarla al servizio dei dominanti.
Per fare questo devono illudere e procrastinare la condizione di almeno una parte di questi ceti, sacrificare il resto e scagliarli contro quelli produttivi residui.
Sarà consentito, così, ai grandi evasori speculatori di continuare nelle loro rendite predatorie a scapito della comunità; dovranno salvaguardare il più possibile il fardello dell’attuale struttura statale e amministrativa aumentando l’imposizione fiscale diretta ed indiretta a scapito dei servizi erogati, favoriranno l’erosione del patrimonio accumulato del paese senza alcuna prospettiva di sviluppo e reinvestimento.
È il contenuto scellerato dell’accordo che ha visto come ultimo e determinante protagonista la gerarchia della Chiesa Cattolica con il quale si è detronizzato, con la sua stessa complicità, il Governo Berlusconi.
Il vessillo sbandierato dai soliti paladini sono la patrimoniale e la lotta all’evasione fiscale.
In nome dell’attacco ai grandi patrimoni, la prima si risolverà in un salasso dei ceti medi e medio-bassi, i meno attrezzati a spostarsi nei paradisi fiscali.
In un paese che anche in regime di dazi e barriere si è sempre dimostrato un colabrodo, figuriamoci in un regime europeo di assoluta libertà dei flussi di merci e finanziari all’interno e all’esterno della comunità cosa può provocare il continuo annuncio di patrimoniali se non l’esodo impressionante di patrimoni e capitali all’estero.
La lotta all’evasione fiscale nasconde, in realtà, nella gran parte dei casi, dietro l’aura di nobiltà della causa, un sistema vessatorio di esazione, estorsioni di penali e aggravi vari su vere o presunte infrazioni emerse con colpevole ritardo e attribuite molto spesso con la consapevolezza che i costi degli eventuali ricorsi superano i benefici legati agli eventuali riconoscimenti delle ragioni delle opposizioni.
Basterebbe leggere il contenuto di tanti decreti ingiuntivi e accertamenti fiscali per verificare la pretestuosità e la rozzezza delle contestazioni, l’approssimativa preparazione dei funzionari, l’interesse legato alle incentivazioni economiche agli esattori più solerti a riscuotere; si comprenderebbe la logica retrostante di tanta parte di questi provvedimenti.
È il modo di atomizzare un conflitto che rischierebbe, altrimenti, di diventare esplosivo.
Del resto la miseria e la povertà senza prospettive possono tuttalpiù spingere a proteste, rivolte e sommosse utili a sterminare i facinorosi, anche se la capacità di adattamento al peggio dell’animo umano è pressoché inesauribile, specie se il tempo trascorso dalla dilapidazione del patrimonio di conoscenze e di dignità di una popolazione è sufficientemente lungo da rendere impossibile la rapida ricostituzione di una comunità dignitosa.
Le rivoluzioni ed i rivolgimenti hanno, del resto, avuto maggiore probabilità di successo quando l’oppressione fiscale e la dipendenza strategica hanno rischiato di pregiudicare radicalmente le prospettive di quei ceti e quelle classi produttive, delle élites tutti desiderosi di mantenere e rafforzare le proprie prerogative e le proprie capacità.
Se dovessero combinarsi i due fattori destabilizzanti, la strada sarebbe ancora più facile.
Occorrebbe, però, che Sarkozy, Obama, Merkel, Erdogan ed quant’altri cominciassero a litigare ancora più vivacemente, non solo con le parole, ma nemmeno soltanto a colpi di spread.
Il primo ed il secondo sembrano già abbastanza sicuri di sé per compiere qualche passo falso. Speriamo