Evitare le guerre che non finiscono mai
[traduzione di Piergiorgio Rosso – pubblicato su autorizzazione di Stratfor: “Avoiding the Wars That Never End”]
La settimana scorsa il Presidente USA Barack Obama ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero trasferito la responsabilità primaria per le operazioni di combattimento in Afganistan all’esercito afgano nei prossimi mesi, un passo fondamentale verso il ritiro delle truppe americane. Sempre la settimana scorsa la Francia ha iniziato un intervento in Mali progettato per bloccare il controllo del paese da parte dei jihadisti e la creazione di una loro base operativa nella ex-colonia francese. I due eventi sono collegati al di là della questione dell’insorgenza islamista e segnalano un cambiamento geopolitico più vasto. Gli Stati Uniti non stanno solo smontando il loro impegno combattente; si stanno allontanando dall’idea che gli spetti la responsabilità primaria nel cercare di gestire il mondo per conto di se stessa, gli europei e gli altri alleati. Invece l’onere spetta a quelli che hanno interessi immediati da difendere.
Insicurezza al risveglio del 11/9
E’ interessante ricordare come gli Stati Uniti si sono coinvolti in Afganistan. Dopo l’11/9 gli Stati Uniti erano sconvolti e non avevano una chiara comprensione di al Qaeda. Non sapevano quali altre capacità aveva al Qaeda e quali fossero le intenzioni del gruppo. In mancanza di informazioni, un leader politico deve agire sulla base dello scenario più pessimista dopo che il nemico ha dimostrato intenzioni e capacità ostili. I possibili scenari andavano dalla possibilità che ci fossero altre cellule dormienti di al Qaeda negli USA in attesa di ordini, a quella che al Qaeda fosse in possesso di armi nucleari per distruggere delle città. Quando non sai cosa succede, è prudente, ma anche psicologicamente inevitabile, preparasi al peggio. Gli Stati Uniti avevano abbastanza informazioni per agire in Afganistan. Sapeva che al Qaeda operava in Afganistan e che distruggere la cellula principale rappresentava un passo utile per svolgere una qualche azione contro la minaccia. Però gli Stati Uniti non invasero immediatamente l’Afganistan. Lo bombardò estensivamente ed inserì a terra un numero limitato di forze, ma l’onere principale nel combattere i Talebani spettò alle forze anti-Talebane in Afganistan che stavano già resistendo ai Talebani e ad altre forze che potevano essere indotte ad agire contro i Talebani. I Talebani abbandonarono le città e si prepararono ad una lunga guerra. La cellula di comando di al Qaeda lasciò l’Afganistan e si spostò in Pakistan. Gli Stati Uniti raggiunsero immediatamente il loro obiettivo primario. Questo obiettivo non era impedire ad al Qaeda la possibilità di operare in Afganistan, un obiettivo che non avrebbe portato a nulla. Piuttosto l’obiettivo era ingaggiare al Qaeda e distruggere la sua struttura di comando e controllo in modo da disgregare la capacità del gruppo di progettare ed eseguire ulteriori attacchi. Lo spostamento in Pakistan come minimo fece guadagnare tempo, e considerata la continua pressione sulla cellula di comando, permise agli Stati Uniti di ottenere più informazioni sulle risorse di al Qaeda intorno al mondo. Questa seconda missione – identificare le strutture di al Qaeda intorno al mondo – richiese un secondo sforzo. Gli strumenti primari per identificarle erano le comunicazioni elettroniche e gli Stati Uniti hanno proceduto a creare un vasto meccanismo tecnologico progettato per intercettare comunicazioni e usare le comunicazioni intercettate per identificare e catturare o uccidere gli operativi di al Qaeda. Il problema di questa tecnica – in effetti l’unica disponibile – era che era impossibile monitorare le comunicazioni di al Qaeda senza monitorare quelle di chiunque altro. Se c’era un ago nel pagliaio, l’intero pagliaio doveva essere controllato. Questo costituiva un cambiamento radicale riguardo alla relazione del governo con le comunicazioni private dei cittadini. La giustificazione era che in tempi di guerra, in cui la minaccia agli Stati Uniti era sconosciuta e potenzialmente massiccia, queste misure erano necessarie. Questa azione non era la prima nella storia d’America. Abramo Lincoln violò la Costituzione in diversi modi durante la guerra civile, dal sospendere il diritto all’habeas corpus all’impedire al parlamento del Maryland di votare su una misura di secessione. Franklin Roosevelt permise all’FBI di aprire la corrispondenza dei cittadini e mise gli americani giapponesi in campi di internamento. Il concetto per cui le libertà civili devono essere protette in tempo di guerra non corrisponde a come storicamente gli Stati Uniti, e la maggior parte dei paesi, hanno agito.
In questo senso non c’era niente di eccezionale nella decisione di controllare le comunicazioni per trovare al Qaeda e fermare gli attacchi. Diversamente come si poteva trovare l’ago nel pagliaio? Analogamente la detenzione senza accuse formali non era eccezionale. Sia Lincoln che Roosevelt vi ricorsero. Tuttavia la guerra civile e la II.a guerra mondiale erano diverse dal conflitto in essere, perché la loro fine era evidente e decisiva. La guerra sarebbe finita in un modo o nell’altro e così anche la sospensione dei diritti. Diversamente da quelle guerre, la guerra in Afganistan era estesa indefinitamente per il cambiamento di strategia dal distruggere la cellula di comando di al Qaeda al combattere i Talebani per costruire una società democratica in Afganistan. Con il secondo passo l’esercito americano cambiò le sue priorità ed aumentò massicciamente la sua presenza, mentre con il terzo la data della fine della guerra si allontanò indefinitamente. Ma c’era un’altra più vasta questione. La guerra in Afganistan non era la guerra principale. L’Afganistan era il paese dove al Qaeda era acquartierata l’11/9/2011. Il paese non era essenziale per al Qaeda e creare una società democratica – se mai possibile – non avrebbe necessariamente indebolito al Qaeda. Anche distruggere al Qaeda non avrebbe impedito a nuove organizzazioni islamiche o a singoli dal sollevarsi.
Un nuovo tipo di guerra
La guerra principale non era contro uno specifico gruppo terrorista ma contro un’idea: la tendenza radicale nell’islamismo. La gran parte dei musulmani non è radicale, ma ogni religione con un miliardo di aderenti avrà la sua quota di estremisti. La tendenza c’è ed ha profonde radici. Se l’obiettivo della guerra diventava la distruzione di questa tendenza radicale, allora non sarebbe mai stato raggiunto. Mentre il rischio di attacchi poteva essere ridotto – ed in effetti non ci furono altri 11/9 negli Stati Uniti nonostante ripetuti tentativi – non c’era modo di eliminare la minaccia. Non importa quante divisioni sarebbero state schierate, non importa quanti sistemi di intercettazione elettronica sarebbero stati creati, essi possono solo mitigare la minaccia, non eliminarla. Per cui quella che alcuni chiamarono la Lunga Guerra, di fatto diventava la guerra permanente. I mezzi con cui la guerra era perseguita, non potevano portare alla vittoria. Potevano però sbilanciare completamente la strategia americana, impegnando enormi risorse in missioni che non erano chiaramente connesse con la prevenzione del radicalismo islamico. Crearono anche una situazione in cui delle intrusioni emergenziali su parti critiche del Corpo dei Diritti – come la necessità di ottenere manleva per certe azioni – diventavano una componente permanente. Una guerra permanente provoca misure temporanee permanenti. Il punto di rottura si ebbe secondo me nel 2004. Più o meno a quell’epoca al Qaeda era ormai incapace di portare attacchi agli Stati Uniti nonostante diversi tentativi. La guerra in Afganistan aveva sloggiato al Qaeda e creato il governo Karzai. L’invasione dell’Iraq – qualunque sia stata la motivazione per farla – aveva prodotto chiaramente un livello di resistenza che gli Stati Uniti non potevano contenere se non facendo accordi con i suo nemici in Iraq. A quel punto si doveva fare un radicale ripensamento sulla guerra. Non si fece.
Il ripensamento radicale non doveva essere fatto sull’Iraq o sull’Afganistan ma piuttosto su cosa fare circa una minaccia permanente portata agli Stati Uniti, ma in effetti a molte altre nazioni, dalla rete globale degli islamisti radicali pronti ad effettuare attacchi terroristici. La minaccia non sarebbe sparita e non poteva essere eliminata. Allo stesso tempo non minacciava l’esistenza della repubblica. Gli attacchi del 11/9 furono atroci ma non minacciarono la sopravvivenza degli Stati Uniti nonostante il costo umano. Combattere la minaccia richiedeva un grado di proporzionalità tale per cui la lotta potesse essere mantenuta su base permanente, senza che diventasse l’unico obiettivo della politica estera o della vita interna americana. La mitigazione era l’unica possibilità; la minaccia doveva essere sopportata a lungo. Washington trovò il modo di ottenere questo bilanciamento nel passato, anche se a fronte di minacce di tutt’altro genere. Gli Stati Uniti emersero come grande potenza nei primi anni del secolo XX.o. In quegli anni combatté tre guerre: la Prima Guerra Mondiale, la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda incluso Corea, Vietnam ed altri minori impegni. Nella Prima e Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti lasciarono che gli eventi prendessero il loro corso ed, in Europa in particolare, attese finché le potenze europee raggiunsero un punto in cui non potevano più risolvere la minaccia dell’egemonia della Germania senza l’aiuto degli USA. In entrambe le occasioni intervenne pesantemente in guerra solo tardi, nel momento in cui la Germania era stata sfiancata dalle altre potenze europee. Dovrebbe essere ricordato che il principale impulso americano nella Seconda Guerra Mondiale non avvenne che nell’estate del 1944. La strategia americana era di aspettare e vedere se gli europei riuscivano a stabilizzare la situazione da soli, usando la distanza per mobilitarsi il più tardi possibile ed intervenire decisamente solo nel momento critico. I critici di questo approccio, in particolare prima della Seconda Guerra Mondiale, lo chiamavano isolazionismo. Ma gli USA non erano isolazionisti; erano coinvolti in Asia in quel periodo. Piuttosto si considerarono come l’attore di ultima istanza, capace di agire nel momento decisivo con forze soverchianti dato che la geografia aveva dato agli Stati Uniti l’opzione del tempo e delle risorse.
Durante la Guerra Fredda gli USA modificarono la strategia. Continuavano a dipendere dagli alleati, ma stavolta si posero come l’attore primario. In parte questo poteva vedersi nella strategia nucleare americana. Come anche in Corea ed in Vietnam, dove gli alleati giocarono un ruolo sussidiario, ma lo sforzo primario era americano. La Guerra Fredda fu combattuta sulla base di principi diversi che non le due guerre mondiali.
Nella guerra contro l’islam radicale fu applicata la strategia della Guerra Fredda, in cui gli USA – a causa del 11/9 ma anche a causa di un orientamento che si poteva trovare in altri interventi – erano il primo attore. Gli altri alleati seguirono la guida degli Stati Uniti e diedero quel tanto di supporto che si sentivano di dare. Gli alleati potevano ritirarsi senza minare sostanzialmente la guerra. Gli Stati Uniti invece no. L’approccio nella Guerra USA-jihadisti era completamente opposto a quello usato nelle due guerre mondiali. Questo si poteva capire, considerato che era stato provocato da un evento catastrofico ed inatteso, la risposta al quale derivava da una mancanza di informazioni. Quando il Giappone colpì Pearl Harbor le emozioni furono almeno altrettanto intense, ma la strategia USA nel Pacifico fu misurata e cauta. E le possibilità del nemico erano comprese molto meglio.
Un passo indietro da poliziotto globale
Gli Stati Uniti non possono combattere una guerra contro l’islamismo radicale e vincerla, di sicuro non possono essere l’unico attore in una guerra condotta principalmente nell’emisfero est. Ecco perché l’intervento francese in Mali è particolarmente interessante. La Francia mantiene degli interessi nelle sue ex colonie imperiali in Africa. A nord del Mali c’è l’Algeria, dove la Francia ha investimenti energetici significativi; a est del Mali c’è il Niger, dove la Francia ha una partecipazione significativa nell’estrazione di minerali, in particolare uranio; e a sud del Mali c’è la Costa D’Avorio, dove la Francia gioca un ruolo di punta nella produzione di cacao. Il futuro del Mali interessa alla Francia molto di più di quanto interessi agli USA. La cosa più interessante è l’assenza degli USA dai combattimenti, anche se forniscono informazioni ed altro supporto, come la mobilitazione di forze di terra da altri stati africani. Gli Stati Uniti non stanno agendo come se questa fosse la loro lotta; stanno agendo come se questa fosse la lotta di un alleato, che potrà eventualmente aiutare in extremis, ma non quando l’assistenza americana non è necessaria. E se i francesi non riescono a organizzare un operazione efficace in Mali, allora ben poco aiuto potrà darsi. Questo cambiamento di approccio è evidente anche in Siria, dove gli Stati Uniti hanno sistematicamente evitato tutto quello che va oltre un’assistenza limitata e coperta, e in Libia, dove gli Stati Uniti sono intervenuti dopo che francesi e inglesi avevano lanciato un attacco che non potevano mantenere. Quello fu un punto di svolta a mio parere, considerato il risultato insoddisfacente. Invece di accettare un impegno esteso contro i radicali islamici, gli Stati Uniti fanno in modo che il peso si sposti sulle spalle di quelle potenze che hanno interessi diretti in quelle aree. Cambiare strategia è difficile. Non è agevole per nessuna potenza riconoscere di essersi sopravvalutata, come gli Stati Uniti hanno fatto in Iraq ed in Afganistan. E’ ancora più difficile riconoscere che gli obiettivi posti da G.W.Bush in Iraq e da Obama in Afganistan mancavano di coerenza.
Ma chiaramente la guerra ha fatto il suo corso e ciò che è difficile è anche evidente. Noi non elimineremo la minaccia dell’islam radicale. L’impegno di forze contro obiettivi non ottenibili torce la strategia nazionale e cambia il tessuto della vita interna. Ovviamente la sorveglianza deve rimanere contro l’emergenza di un organizzazione come al Qaeda, che dispone di obiettivi globali, operativi sofisticati e disciplina organizzativa. Ma ciò è cosa diversa dal rispondere ai jihadisti in Mali, dove gli Stati Uniti hanno interessi limitati e risorse minori.
Anche accettare una minaccia permanente è difficile. Mitigare la minaccia del nemico, invece che sconfiggere il nemico del tutto va contro l’istinto. Ma non è del tutto alieno alla strategia americana. Gli Stati Uniti sono coinvolti nel mondo e non possono seguire il detto dei padri fondatori di stare fuori dalle lotte europee. Ma gli Stati Uniti hanno l’opzione di seguire la strategia americana seguita durante le due guerre mondiali. Gli Usa furono pazienti, accettarono i rischi e spostarono il peso sulle spalle di altri, e quando agì, lo fece per necessità, con obiettivi chiaramente identificati alla portata dei mezzi. Aspettare fintanto che non c’è altra scelta se non andare in guerra non è isolazionismo. Far sì che siano gli altri a sopportare il rischio primario non è disimpegno. Intraprendere guerre che sono circoscritte non è da irresponsabili.
Il pericolo maggiore delle guerre sta in quello che possono indurre nella propria società, mutando gli obblighi dei cittadini e rimodellando i loro diritti. Gli Stati Uniti lo hanno sempre fatto in guerra, ma quelle guerre avevano sempre un termine. Condurre una guerra che non ha una fine, rimodella la vita interna permanentemente. Una strategia che obbliga ad impegnarsi ovunque rende esausto un paese. Nessun impero può sopravvivere all’imperativo di una guerra permanente che non si può vincere. E’ affascinante vedere i francesi alle prese con il Mali. E’ ancora più affascinante vedere gli USA augurare loro il meglio e starsene fuori. Ci sono voluti 10 anni ma ora vediamo il sistema americano stabilizzarsi, mitigando le minacce che non possono essere eliminate e rifiutando di essere trascinato dentro lotte che può lasciar gestire ad altri.