Fibrillazioni
L’editoriale di Angelo Panebianco e la lettera di Valerio Onida sul Corriere di mercoledì 28 meritano qualche considerazione. Il primo sostiene la necessità del rientro della Magistratura in un ruolo istituzionale più equilibrato rispetto agli altri poteri; il secondo auspica la formazione di partiti impegnati nella stesura di programmi, piuttosto che nella ricerca e nella proclamazione di un capo cui assoggettarsi, in questo facilitati dall’attuale legge elettorale.
Non sono esempi particolarmente brillanti e autorevoli di giornalismo, pur nella disarmante sciatteria dell’informazione quotidiana, sia negli argomenti, ormai ritriti e banali che nel pathos letterario; né, per altro, gli autori, nella fattispecie, sembrano avere l’intenzione di rappresentarlo.
Risulta paradossale, come condizione propedeutica di ogni possibilità di riforma, la richiesta, da parte di Panebianco, di dimissioni di Berlusconi, della principale vittima designata, cioè, di venti anni di inchieste più o meno fondate, ma sempre, comunque, mediaticamente enfatizzate ed orchestrate.
Il Cavaliere è certamente vittima soprattutto della propria incapacità e dell’ambiguità e limitatezza del proprio programma e schieramento politico; chiedergli di uscire di scena e offrirsi, quindi, come vittima sacrificale per placare la sete di sangue delle belve e consentire successivamente agli inservienti del circo di recintare meglio le gabbie sembra un insulto alla logica. Quegli stessi inservienti, infatti, vivono in quelle stesse gabbie e possono sopravvivere solo continuando ad offrire carne e sangue altrui alle fiere.
Berlusconi dovrebbe abbandonare il governo, con ogni sollecitudine, per ben altri motivi. L’uscita per cause giudiziarie non farebbe che accentuare l’ulteriore aggressività dei settori militanti della magistratura e la loro influenza tra i partiti, in una situazione ancora peggiore rispetto a quella dei primi anni ’90, l’epoca di Tangentopoli, dei governi tecnici e delle svendite e privatizzazioni.
Panebianco fa risalire al 1985, l’anno cruciale in cui Cossiga impedì al CSM di censurare l’operato del Governo Craxi, l’inizio dello scontro tra potere politico e giudiziario. In realtà, già da allora, la caratteristica non fu quella di uno scontro frontale tra i due poteri, ma lo stesso pervase all’interno entrambi. Già con la questione morale posta da Berlinguer si posero le premesse per un massiccio ingresso nella scena politica di un buon numero di magistrati. La stessa lotta al terrorismo e, successivamente, alla mafia spinse ad aumentare significativamente i poteri discrezionali di indagine e repressione dei magistrati; la continua riproposizione di emergenze servì a consolidarli e protrarli indefinitamente.
Il vero punto critico di non ritorno fu raggiunto quando si saldarono le capacità di potere e l’esercizio fattone da alcuni settori con gli interessi corporativi dell’intera categoria.
L’anno cruciale, di svolta, fu il 1987, quello del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, sulla riforma delle competenze del CSM e sulla separazione delle carriere.
Fu il campanello di allarme, seguito alla gestione disastrosa e arbitraria di processi come quelli di Tortora e Valpreda, che indusse alla difesa corporativa autoreferenziale non solo delle competenze dei magistrati ma anche delle prerogative economiche, di incarichi collaterali, consulenze e sviluppo professionale.
La stessa Magistratura, più che una istituzione gerarchizzata, è un ordinamento che riconosce la responsabilità e l’autonomia operativa dei singoli magistrati, in ciò favorendo le possibilità di costruzione di legami individuali delle singole figure con esponenti di altri apparati e centri di potere nazionali ed esteri.
Un terreno di coltura ottimale, quindi, per avviare e gestire uno scontro all’interno dello stato e tra gruppi in competizione, specie in momenti di transizione.
Quel momento arrivò, per l’Italia, nei primi anni ’90, a seguito della caduta del muro di Berlino. Questo blog ne ha discusso ampiamente, collocandolo correttamente nel contesto internazionale e nelle caratteristiche originali assunte dall’interventismo americano rispetto alla fase bipolare.
L’attacco, allora, non fu condotto dalla magistratura nel suo insieme e nemmeno in maniera consapevole da tutti i singoli magistrati protagonisti, come la primitiva retorica complottista berlusconiana delle toghe rosse tende a presentare per ovvie ragioni.
Un giudice, per operare, deve essere raggiunto o cogliere in qualche maniera una prima informazione, deve disporre di un apparato informativo ed investigativo di carattere militare con una propria autonomia operativa, deve muoversi in un contesto politico, di informazione e sociale favorevole.
Negli anni ’90 erano presenti tutte le condizioni per sferrare gli attacchi e quello che in precedenza si dimostrò un conflitto sordo legato prevalentemente a motivi istituzionali e di difesa corporativa si trasformò nell’arma letale in grado di decapitare un intero ceto politico e destabilizzare continuamente la situazione del paese.
Non va dimenticato che se le attenzioni morbose erano rivolte costantemente verso le prodezze reali o millantate del Cavaliere, non si disdegnava, episodicamente, qualche puntatina in campo politico avverso e amico, giusto per ricordare su quali binari si dovesse correre.
Alcune condizioni, oggi, sono venute a cadere, soprattutto una opinione pubblica molto meno accondiscendente; altre continuano a perpetuarsi, soprattutto la fragilità di un ceto politico di scena, ancora più degradato rispetto a quindici anni fa e incapace di creare un qualsivoglia embrione di blocco sociale organizzato.
In queste condizioni, la difesa delle prerogative e degli interessi di un intero corpo dello stato può tranquillamente perpetuarsi in simbiosi con i programmi di rapina e asservimento del paese.
L’ultimo esempio di diffusione delle intercettazioni, iniziate con l’illustrazione analitica delle prodezze presidenziali, il parcheggio in penombra delle prodezze dei “politically correct” e proseguite con le rivelazioni delle attività, con tanto di nomi e cognomi di funzionari stranieri di primo piano, più o meno coperte delle nostre uniche due aziende strategiche, lascia letteralmente di stucco.
Non so se il gioco stia sfuggendo di mano, se l’obbiettivo di distruggere un personaggio ormai annichilito e consenziente a tutto debba comportare il sacrificio irresponsabile dei residui interessi strategici del paese o se su tutto prevalga una strategia in qualche maniera pianificata da registi hollywoodiani. Potrebbe essere un pot-pourri delle tre combinazioni.
Sta di fatto che il paese appare ormai sprofondato in una guerra per bande e in gruppi con nessuna capacità non dico egemonica, ma di una qualche autorevolezza.
Il Corriere sembra essere l’emblema di questa situazione.
Di fronte alla assoluta fedeltà atlantica e benpensante garantita nella maggior parte degli articoli, è affiorata qui e là, ad opera soprattutto di Mucchetti, la preoccupazione sul futuro del paese in uno scenario, guarda un po’, di conflittualità tra stati e di minaccia al residuo patrimonio industriale cui reagire con comportamenti, secondo i giornalisti, semplicemente un po’ più avveduti ed eticamente corretti.
È stata, però, una meteora illusoria.
Il rientro fedele nei ranghi è avvenuto rapidamente; forse perché l’odore di sangue della preda è più forte e la fiera sta per essere spinta nell’arena.
Dal giornale del conformismo borghese non ci si può attendere altro.
Quello che preoccupa è lo scoramento, la disperazione e la rabbia di quei ceti produttivi un tempo sostenitori attivi di Lega e PDL.
Si passa dal “faremo da soli”, al flirt disamorato con le componenti avverse al Cavaliere.
Si punta ai mercati, con la valigetta in mano, ma si chiede di sacrificare la residua grande industria, si accettano bellamente le compatibilità dettate da FMI, Comunità Europea, per conto di Francia e Germania e supervisione di Stati Uniti.
Si parla delle magnifiche sorti e progressive del mercato e si punta alle rendite delle privatizzazioni dei servizi pubblici. La gran parte non ha capito che la torta, se uscirà dal forno, è già stata spartita.
Siamo ancora agli inizi.
Quando, nei mesi prossimi, usciranno i piani dettagliati dei tagli di spesa e di ulteriore tassazione mascherata da eliminazione delle detrazioni il parossismo inconcludente e suicida giungerà al culmine.
Chi ha compreso meglio l’antifona è stata la Chiesa Cattolica, soprattutto la sua ala temporale, i vescovi.
Deboli nel consenso ideologico, si stanno ponendo il problema della formazione di un nuovo gruppo dirigente del paese e, nell’immediato, quello della salvaguardia massima possibile delle proprie fonti ricavate dalle attività del terzo settore, quello più abbarbicato alle pubbliche risorse; con ciò stanno condannando definitivamente il PD ai margini dello scenario e proponendosi come fedeli alleati della fazione americana di Obama.
Così, le risorse drenate con tre manovre consecutive, anziché essere dirottate nei settori strategici e verso i ceti produttivi sono finite, nella quasi totalità, nelle rendite speculative.
I prossimi passi saranno, probabilmente, i tagli indiscriminati agli stipendi pubblici e ai servizi alla persona e le soperchierie di natura fiscale.
Il mostro creato in quarant’anni, fatto di prebende ad personam, concesse spesso anche per finalità lodevoli, ma con modalità distorte, rimarrà appena intaccato nella sua struttura.
Altro che antitesi tra capi e programmi di partito.
Ci vogliono capi e programmi di partito che sappiano riprendere il filo dell’interesse e della sovranità nazionale, della costruzione della forza necessaria ad evitare di nascondersi dietro le scelte altrui e utile a costruire, soprattutto in Europa, le alleanze necessarie a reggere l’urto del multipolarismo incipiente e soprattutto della attuale potenza dominante.
Su quello, discriminare i consensi e le adesioni.
L’equipaggio della nave sgomita e si pesta per consegnare vele, carburante e munizioni alla filibusta; urla e si accapiglia per guadagnarsi la comprensione; i più temerari pensano di partire all’assalto sulle scialuppe.
Il Corriere, diligentemente, propone di correre in soccorso del vincitore, senza farsi spiazzare ingenuamente da Sarkozy e Cameron; ha capito che i posti riservati ai paggetti si riducono sempre più; non ha capito che si riducono perché il numero delle signorie e dei pretendenti al rango regale sta aumentando e lo spazio dell’impero è destinato ad assottigliarsi.
Abbagliato dalla stella più vicina, non scorge le altre in avvicinamento; la sua polvere servirà a costruire altri pianeti.
Il classico atteggiamento utile a scatenare gli istinti peggiori dei tiranni predoni e dei loro kapò.
C’è modo e modo anche di esser servi e satelliti.