FRATELLI D’ITALIA, L’TALIA S’E’ SPENTA di G.P.

Non darei troppo adito alle escandescenze di Bossi nè ai suoi sussulti antinazionalistici, con tanto di dito medio rivolto al "cielo romano" e a tutto ciò che esso rappresenta.

A Roma la Lega ha lasciato, tanti anni or sono, la sua purezza originaria, quell’istinto padano con il quale aveva saputo incarnare le istanze di rottura regionalistiche avanzate dalla parte più laboriosa del popolo del nord, in un momento storico in cui la corruzione del sistema politico e le connivenze consociativistiche dei partiti emergevano come sempre più intollerabili. 

La Lega seppe affermarsi sulla scena politica nazionale (erano gli inizi degli anni ’90) perchè in grado di catalizzare il malcontento generale dei produttori del Nord (tanto lavoratori che piccoli e medi imprenditori), riuscendo anche a tradurre tale insoddisfazione in slogan d’impatto ed in alcuni elementi di forte novità, incompatibili con le forme e i linguaggi, del tutto fossilizzati, di una Prima Repubblica ormai allo sfascio. Fu lo stesso La Grassa ad evidenziarlo, in un articolo di qualche tempo addietro, dovendo poi ricredersi rispetto a quella prima valutazione positiva, a causa dell’improvviso ammansimento del gruppo dirigente leghista, il quale non tardò a farsi incantare dalle sirene del riconoscimento sistemico-istituzionale.

La Lega era certamente un movimento nato dal basso che, con grande fortuna ed in tempi propizi (virtù e fortuna vanno sempre di pari passo), aveva saputo rompere l’oligopolio delle forze politiche preesistenti, portando sul tavolo del dibattito politico tematiche che non erano mai state all’ordine del giorno.

Non a caso, persino un federalista di spessore ed una testa pensante come Gianfranco Miglio, si avvicinò al movimento di Bossi (all’epoca Lega Lombarda) per collaborare al progetto federalista di costui. L’idillio tra lui e il “Senatur” però ebbe vita breve poiché l’ambizioso piano federale del professore comasco fu presto messo da parte dal partito del Nord, più propenso al piccolo cabotaggio e all’ottenimento di vantaggi immediati da esaltare dinnanzi al suo popolo.

L’aria della capitale si è dunque rivelata quasi subito fatale per il gruppo di comando leghista che ci ha messo davvero poco ad abituarsi allo sfavillio dei vituperati “palazzi romani”. E’ una legge storica ineludibile quella per cui le idealità potenzialmente rivoluzionarie di qualsiasi formazione politica sono destinate a spegnersi se non sono supportate, nella fase di consolidamento organizzativo, da un coerente progetto trasformativo della realtà sociale, soprattutto allorquando si mettono in moto i meccanismi di neutralizzazione sistemica.

Così l’entourage bossiano ha dovuto coprire tale perdita d’identità con un surplus ideologico assolutamente deleterio e di pura facciata.

Pertanto, non mi scandalizzo affatto per il vilipendio al tricolore o all’inno nazionale di Bossi, sia perché quest’ultimo è stato ormai abbondantemente inserito negli ingranaggi romani che dice di voler inceppare, sia perché la tanto decantata dignità nazionale svolazza al vento al pari dell’italica bandiera. E che dire poi del coro patriottico stonato dei troppi uomini valorosi solo a parole (i canti scaldano il cuore ma per far funzionare il cervello occorre ben altro) che si risvegliano solo se un esagitato minaccia la secessione?

Del resto, se Bossi è colpevole di aver offeso l’italico orgoglio, di cosa è responsabile allora tutta la marmaglia pseudodirigente di questo pauvre pays, la cui ispirazione di destra o di sinistra, riformatrice o conservatrice, liberale o socialdemocratica, non ha evitato il tracollo politico, sociale, economico del nostro sistema-paese; questo sì quotidianamente deturpato dagli omuncoli di infima caratura che si spacciano per protettori della patria? Ecco il termine giusto “Protettori” ma di un paese ridotto ad un bordello alle mercé del primo avventore. E quante forze politiche si sono distinte, in questi ultimi anni, dalla paccottiglia parlamentaristica che ha votato compattamente per operazioni militari a sostegno delle guerre degli altri che ci hanno resi più succubi di quanto già non fossimo?

Cerchiamo di essere franchi, irrita la retorica bossiana, ma ancor di più indispettisce il moralismo con il quale destri e sinistri ostentano indignazione, ben sapendo che il vero disprezzo per i valori nazionali deriva dalle loro non-scelte politiche che hanno eroso la nostra sovranità nazionale.

La verità è che alla retorica secessionista di Bossi si associa benissimo la retorica speculare dei portatori di questa finta croce nazionale, sempre pronti a dire signorsì allorquando il potente alleato d’oltreoceano scuote la ciotola piena di avanzi.