GIANFRANCO LA GRASSA – CONTRO L’ideologia e la politica del capitalismo (sub)dominante

GIANFRANCO LA GRASSA
CONTRO – L’ideologia e la politica del capitalismo (sub)dominante
Introduzione di
Gianni Petrosillo
Gianni Petrosillo è Curatore del blog www.ripensaremarx.splinder.com e del sito www.ripensaremarx.it
In copertina: Goya, Il sonno della ragione genera mostri, (1797-1799).
Editore ©   2008
Sede operativa: via Messina 118 85100 Potenza Tel.-Fax 0971 469346 – 0971441708 – 339 1404153 e-mail: editricermes@tiscali.it
www.editricermes.it
4Impaginazione e copertina: Filippo ZOTTA
INDICE
Introduzione   pag. 7
Dall’epidermide alla struttura ossea   pag. 27
Razionalità Strategica e Razionalità Strumentale   pag. 57
Privato e Pubblico:
Ideologia e Forma del conflitto tra dominanti   pag. 77
(un piccolo saggio sulla struttura della formazione capitalistica)
Contro le quattro ideologie   pag. 123
Appendice a “Contro le quattro ideologie”   pag. 137
Contro il neoromanticismo economico (e sociale)   pag. 141
Punti da evidenziare   pag. 157
Spigolature   pag. 167
Sempre più “a sinistra”;
un errore che si ripete sempre   pag. 175
Cambiare passo   pag. 187
Ai comunisti   pag. 211
5

INTRODUZIONE
di Gianni Petrosillo
1. I saggi raccolti in questo libro sono il frutto di un lavoro teorico sviluppato da Gianfranco La Grassa lungo un arco di circa due anni, coinciso con l’apertura del blog www.ripensaremarx.splinder.com, nel gennaio 2006. Quando abbiamo deciso di registrare questo spazio telematico siamo stati animati dalla volontà di offrire, a molti più lettori, le lucide disamine che il sunnominato faceva circolare tra i “pochi” eletti della sua mailing list. Avevamo percepito che l’impianto categoriale fortemente innovativo, alla base delle sue analisi, riusciva ad ingrandire gli scarni “indizi stereoscopici” con i quali si manifesta il flusso direzionale della realtà, a fronte dei puri “ammassi ideologici” (le strocchiolerie sull’impero senza centro, le tesi imperialistiche d’antan riproposte con piccoli aggiornamenti, per non parlare delle propalazioni interminabili sulla teoria del valore e della trasformazione) spacciati dal circuito editoriale ufficiale come indagini rigorose sulle transizioni capitalistiche. Nel pensiero di La Grassa abbiamo invece trovato abbastanza materiale per tornare a riflettere sui “centri nervosi” della società attuale, rafforzando in noi la prospettiva politica di una critica più efficace alle sue dinamiche fondamentali. Si trattava, ancora una volta, di ricondurre il movimento apparente del capitale al suo movimento reale, o se si preferisce in ossequio al dettato leniniano, di fare analisi concreta della situazione concreta.
Successivamente, il gruppo di studio ha sentito l’esigenza di allargare il proprio campo d’azione a causa di uno strumento, il blog, rivelatosi tecnicamente angusto in quanto immerso nel flusso ridondante e anomicizzante della rete, strutturalmente inadeguata all’approfondimento e alla riflessione conoscitiva. Per mancanza di fondi e mezzi adeguati, abbiamo potuto per ora solo ordinare il materiale teorico in un contenitore meno precario come è quello di un sito (www.ripensaremarx.it) affiancando le tematiche qui trattate all’attività di informazione quotidiana (quest’ultima, seppur nella sua estemporaneità, è un valido banco di prova per seguire l’evolvere delle varie situazioni e per calare determinate assunzioni concettuali sull’immediatezza fattuale).
I due dispositivi hanno risposto, come si può ben capire, a funzionalità
ed urgenze diverse. Attraverso il blog abbiamo cercato di diffondere
le analisi sulle contingenze politiche, economiche, geopolitiche ecc.
7
ecc. più incalzanti, così come esse andavano dipanandosi nella sequela degli avvenimenti quotidiani ai quali è sempre difficile stare dietro. Con il sito, invece, si è puntato a raccogliere i saggi e le ipotesi teoriche di “fase storica” ponendoci come ambizioso obiettivo quello di costruire una “griglia” concettuale (a maglie larghe) da calare sull’articolazione capitalistica per indagare la quale occorrono più elevati livelli di astrazione speculativa. A due anni dell’avvio di questa esperienza possiamo dire con orgoglio di essere cresciuti e di aver fatto molti passi in avanti, sia per consensi raccolti sia in termini di avanzamento teorico il quale, almeno per il momento, ha retto all’urto validativo della “dura realtà”, confermando la giustezza di alcune previsioni di principio.
2. Nonostante la nostra piena adesione al tentativo “lagrassiano” di rompere gli schemi consacrati della tradizione marxista, con relativo abbandono delle rappresentazioni teoriche ormai inservibili alla comprensione dei cambiamenti in atto, non abbiamo mai pensato di dare vita ad un’ulteriore scuola di pensiero. Troppe tra queste hanno già calcato la scena delle lotte sociali, alcune perorando la “conservazione” dottrinaria, altre proponendo improbabili “palingenesi teoriche”, tutte col comune intento di tirare per la barba il fondatore della “Grande Impresa”, rivendicando la propria “quota di legittima” nella sua eredità storica al costo di un totale stravolgimento del suo pensiero. Noi non corriamo questo rischio perché di Marx e del marxismo prendiamo solo quello che ci serve senza porci il problema della lesa maestà.
In sostanza, non vogliamo entrare nella partita speculare tra ortodossia ed eresia in solidarietà antitetico-polare. Probabilmente, non abbiamo nemmeno le capacità necessarie per costituirci in scuola, ma ciò è un bene, in quanto è improcrastinabilmente giunta l’ora di decostruire i sedimenti dell’ hortus conclusus della “scolastica marxista” che hanno causato “afasia” categoriale ed autoreferenzialità elitaria, senza più il barlume di una prospettiva politica.
Eppure, le previsioni marxiane sulla formazione del soggetto rivoluzionario o sulla inevitabile estensione del modello capitalistico ottocentesco – improntato al vorticoso sviluppo industriale inglese(de te fabula narratur), quello che Marx aveva penetrato con grande intelligenza – non hanno retto alle incessanti trasformazioni degli ultimi 150 anni e più. Contro ogni evidenza, le operazioni di pedissequa applicazione del “Modello” ritenuto certamente infallibile, hanno causato un’ossificazione della teoria
8
generale, lasciandoci con pochi punti di riferimento e con un deposito inutile di previsioni “escatologiche”.
Lo scopo della teoria è quello di afferrare l’ “ordine dinamico” del mondo, che è irrimediabilmente altro da essa, per farne oggetto specifico del pensiero scientifico (a fini previsionali, di medio e lungo periodo), mettendo in conto da principio l’impossibilità di ottenere una teoria generale della storia e della società, valida per ogni stagione e per ogni formazione sociale. Questo assioma vale per tutte le scienze ad a maggior ragione per quelle sociali. Se proprio si deve tornare a Marx, lo si faccia almeno per gli aspetti ancora validi del suo modo di approcciarsi alla scienza, per ciò che in lui resta insuperato. Ad esempio, come fa Althusser in Lire le Capital, mettendo in evidenza il rapporto tra modo della conoscenza e totalità reale in Marx. Nell’introduzione del 57 il pensatore di Treviri aveva infatti precisato: “Il tutto quale appare nel pensiero, come tutto-dipenisero è un prodotto della testa pensante, che si appropria il mondo nel solo e unico modo che gli sia possibile”; da tale affermazione marxiana il filosofo francese ne tira le giuste conseguenze: “il pensiero [come pratica conoscitiva, aggiungerei] che qui è in questione non è la facoltà di un soggetto trascendentale o di una coscienza assoluta [altro che idealismo di Marx!], a cui il mondo reale si contrapporrebbe come materia; questo pensiero non è nemmeno la facoltà di un soggetto psicologico, benché gli individui umani ne siano gli agenti. Questo pensiero è il sistema storicamente costituito di un apparato di pensiero fondato e articolato nella realtà naturale e sociale” [sottolineature mie, G.P.].
L’urgenza è sempre quella di portare a compimento una pratica teorica che abbia incidenza sulle cose del mondo. Ciò implica che tale pratica non deve nemmeno lontanamente essere accostata alle azioni scriteriate e disordinate di chi si lancia nell’agone delle contraddizioni sociali confondendo epifenomeni e leggi generali. La pratica rivoluzionaria non è caos sociale (con buona pace dei nostri infrangitori di vetrine assicurate), ma è la più alta espressione della distruzione creatrice incarnata nella soggettività rivoluzionaria (come specifica costruzione politica) che preme per affermare l’ “ordine nuovo” del quale essa si fa portatrice.
Ed è questo il nostro obiettivo principale, dirigere a nuova fusione critica-teorica e critica-pratica, grazie ad un lavoro indagativo delle stratificazioni e segmentazioni sociali – esito specifico del movimento triadico del capitale (frammentazione-sussunzione-ricomposizione su nuove basi) – per ottenerne indicazioni politiche via via più stringenti.
9
In questa direzione ci interessa capire qual è l’alternativa accessibile, hic et nunc, per ridare fiato e consistenza all’azione dei dominati e alla loro funzione rivoluzionaria nella riconfigurazione “anglobalizzata” del capitalismo mondiale, quella che La Grassa ha definito, in altri scritti, la formazione sociale dei funzionari(privati) del Capitale. Ma non siamo disposti a giocare con i soggetti della trasformazione, inventandone uno dopo ogni fallimento (chi lo fa produce precisamente quella teoria cieca della quale parlavamo poc’anzi).
Riteniamo efficace l’ipotesi teorica lagrassiana perchè mette nel dovuto risalto le rotture verificatesi nel sistema capitalistico – di cui le crisi sono solo l’aspetto superficiale – in quanto prodotto del moto rivoluzionario interno con il quale esso rimette in discussione i suoi stessi fondamenti e ne supera i fattori limitanti.
La Grassa, è artefice di un vero e proprio “riorientamento gestaltico”, o meglio, parafrasando il linguaggio delle scienze cognitive, possiamo dire che egli spinge l’analisi critica oltre l’occlusione oggettuale (ideologica e strettamente fenomenica) che de-forma e obnubila i rapporti sociali capitalistici, captando dietro di essi “qualcosa” di più del semplice conflitto tra sfruttati e sfruttatori, tra Capitale e Lavoro. Più logicamente, di là dallo scontro nella produzione dove vige la classica articolazione tra proprietà (più o meno disseminata o socializzata nella forma azionaria), strati direttivi intermedi ed esecutori manuali (laddove possono esercitarsi pressioni puramente rivendicative sulla ridistribuzione della ricchezza estorta ai lavoratori nel processo produttivo), si erge il Conflitto Strategico Interdominanti (CSI), vero motore della ri/produzione sociale complessiva.
Il marxismo tradizionale si è fatto intrappolare negli interminabili discorsi, senza via d’uscita, sulla natura del pluslavoro (provenienza, distribuzione nello spazio sociale, forma specie-specifica), oppure, nei tentativi di tipizzazione schematica (il modo di produzione capitalistico), in funzione di “una dinamica comportante la formazione intrinseca delle condizioni di base della sua trasformazione” (La Grassa). La stessa ipotesi si è rivelata in seguito errata. In realtà, all’interno del processo produttivo non ha mai avuto luogo quella convergenza tra tecnici-ingegneri e giornalieri (ed anzi si è assistito ad una frammentazione vieppiù crescente, con stratificazione incessante di ruoli e di funzioni alle quali corrispondono differenziali di sapere e di reddito) sintetizzata da Marx con l’espressione di General Intellect. La contraddizione di “ultima istanza”, quella dalla
10
quale Marx ha fatto “deterministicamente” derivare la fine del capitalismo (è qui la sua previsione errata sul formarsi del soggetto rivoluzionario), era il risultato prossimo di una irricomponibilità tra potenza sociale della produzione e meccanismi di appropriazione privata del plusprodotto (tramite l’appropriazione del pluslavoro estorto ai lavoratori, nella forma del plusvalore). La formazione del lavoratore collettivo (ridotto ben presto, per esigenze di commissione politica, alla sola classe operaia) preludeva al parto ormai maturo della società comunista nelle viscere della vecchia formazione sociale. Questo fraintendimento è figlio di un errore interpretativo che i pensatori marxisti non hanno mai voluto rivedere per non rimettere in discussione un impianto teorico dato come eternamente valido.
Tanto gli economisti marxisti che la scolastica neoclassica hanno ricondotto il compito dell’impresa (costantemente confusa con la fabbrica) alla migliore combinazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) per l’economizzazione di risorse umane e materie prime nella esitazione di dati output. Poichè la fabbrica era concepita come la cellula fondamentale della società capitalistica se n’era derivato che lo scontro risolutivo doveva riguardare i soggetti direttamente implicati nel processo produttivo. La tendenza di fondo che dava riscontro a tale visione riduttiva era il trasformarsi del capitalista in un rentier disinteressato alla produzione con la conseguenza che, nel processo di lavoro, gli interessi del proletariato e quelli dello strato dei lavoratori cognitivi dovevano necessariamente convergere contro una proprietà ormai parassitaria e cedolare.
Come ben si sa la profezia non si è mai realizzata, proprio perché non si era compreso che nella produzione agiva una razionalità organizzativa di crescente stratificazione e gerarchizzazione dei ruoli e comunque del tutto secondaria rispetto al fondamentale conflitto strategico tra dominanti. La razionalità strumentale, quella che appunto è all’opera nella produzione risponde a criteri tecnici del tipo minimax, essendo compito specifico dello “strato” degli “implementatori” progettuali e della direzione esecutiva occuparsi degli esiti della stessa lavorando sulla combinazione dei fattori produttivi.
Lo strato dei tecnici e degli ingegneri nel fare ciò deve direttamente collegarsi, sebbene in maniera subordinata, alla catena di comando del management strategico, quello dal quale riceve non solo le risorse materiali e finanziarie, ma anche il piano degli obiettivi da raggiungere. Lo scopo è di conseguire la massima resa dai fattori produttivi, uomini + mezzi, per
11
assicurarsi beni e prodotti a prezzi competitivi da immettere sul mercato. I lavoratori subordinati, ultimo segmento della linea di comando, subiscono, come norme tecniche “naturalizzate”, le decisioni dello strato che dirige la produzione, senza avere consapevolezza del processo complessivo, poiché compressi nella esecutività di compiti parcellizzati, quest’ultimi incardinati nella stessa combinazione “macchinica”.
La visione globale del processo produttivo (i c.d. saperi produttivi), dal lato tecnico, fa parte pertanto del bagaglio specialistico ed esperenziale dei professionisti della tecnica. Si tratta degli stessi specialisti borghesi che Lenin voleva inserire nella gestione produttiva sovietica, ma coi fucili del proletariato puntati alla schiena. Questo chiarisce, contrariamente a quanto affermato dal marxismo economicistico, che il sapere produttivo (e lo strato tecnico-sociale che ne è depositario) non si omogeneizza né si diffonde capillarmente lungo i profili lavorativi, ma tende, invece, a radicarsi nella catena direzionale strategica che ha alle sue dipendenze la tecnocrazia ingegneristica.
Tuttavia, ed è qui che si rivela la mistificazione ideologica principale, l’aspetto “strumentale” è innalzato a copertura ideale che, ipertroficamente, ottenebra l’azione strategica degli agenti dominanti nella società. Per tale ragione il conflitto strategico resta “riparato” sotto la forma della razionalità economica. Ma la strategia per la predominanza non segue affatto i semplici criteri della massima profittabilità monetaria.
Secondo La Grassa occorre svelare in che rapporto stanno tra loro la razionalità strategica e razionalità strumentale. Mentre, come detto, la razionalità strumentale agisce a livello di processi produttivi orientandoli alla “performatività economica” (come combinazione ottimale dei fattori produttivi), la razionalità strategica è, invece, quel complesso di azioni orientate alla supremazia, messe in atto dagli agenti (gruppi) dominanti nella lotta per l’allargamento e la conquista di aree preferenziali e di sfere d’influenza, tanto nella formazione sociale dove direttamente operano che nell’articolazione “orizzontal-spaziale” nella quale si declina la formazione capitalistica globale.
Gli agenti strategici, al fine di approntare le strategie più efficaci per raggiungere gli obiettivi preposti, necessitano di ingenti risorse (denaro soprattutto, in quanto forma generale della ricchezza); il modo attraverso il quale si procurarono i mezzi per il conflitto proviene dagli esiti produttivi, industriali e finanziari, con i quali s’accende la concorrenza sui mercati. Risulta perciò indispensabile svelare, per quello che realmente è, l’ideologia
12
della razionalità strumentale, in quanto in essa viene a riflettersi l’immagine invertita della struttura capitalistica superficialmente esprimentesi nei meri rapporti di dominazione/subordinazione organizzati verticalmente. Tale specificità, non riscontrabile in epoche precedenti (ed in altri modi di produzione), poiché conseguenza diretta del trasferimento del conflitto politico nella sfera economica, è da intendersi come qualità “specialissima” della società modellata su rapporti di dominio capitalistici.
Uscire dalla “gabbia d’acciaio” del modo di produzione e ragionare sulla “complessificazione” della(e) formazione(i) sociale(i), tanto in orizzontale (segmentazione delle formazioni) che in verticale (stratificazione tra gruppi dominanti e crescente frammentazione sociale), è l’unico modo per ricominciare a studiare seriamente i rapporti a dominanza ed orientare, con più profitto, una pratica sociale tendenzialmente trasformativa. Ma qual è lo spazio oppositivo che si dà ai dominati se i capitalisti hanno il pieno controllo delle condizioni soggettive e oggettive del lavoro e se il conflitto determinante è quello tra gli agenti strategici capitalistici?
Certo, per i dominati esistono delle possibilità di incidenza sui processi reali solo se lo scontro tra i dominanti si fa “esuberante”, con presupposti di “sfondamento” negli anelli deboli di tale catena di dominio, così come è accaduto con la Rivoluzione Russa del ‘17. Tuttavia, la fase attuale non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella imperialistica concretatasi nella prima guerra mondiale. All’epoca Lenin aveva compreso che l’impianto teorico marxista non era in grado di leggere il fenomeno della differenziazione e dello scontro tra capitalismi (gli Stati in conflitto per le aree d’influenza) e agì per correzioni pratiche successive, tanto che Gramsci parlò di una vera e propria rivoluzione contro il Capitale di Marx.
Egli non si liberò dell’ortodossia marxista, così come era stata elaborata da Engels prima e da Kautsky dopo, ma piegò lo schema teorico classico ad esigenze di contingenza rivoluzionaria.
Malgrado gli intralci a cui abbiamo accennato, Lenin adeguò la concreta prassi rivoluzionaria alle tesi dello sviluppo ineguale dei capitalismi, all’anello debole della catena imperialistica, alla necessaria alleanza operai-contadini nella Russia agricola (senza la quale la rivoluzione sarebbe stata impossibile dato il labile strato operaio russo).
Per questo diviene oggi fondamentale non farsi irretire troppo dal discorso sul modo di produzione (legato alle forme classiche di merce e impresa, in quanto sostrato economico che regge la competizione tra paesi in quella specifica sfera), poiché esso non spiega la complessità dell’azione
13
posta in essere dagli agenti strategici (solo limitatamente assimilabili tra loro) nella lotta per la supremazia a livello globale. Non sarebbe certo un male se la teoria della lotta di classe riuscisse a specificare e ad integrare l’articolazione verticale, nell’ambito di ciascuna formazione sociale, con lo scontro spaziale tra capitalismi in perenne competizione. In termini logici, dimensione temporale e dimensione spaziale stanno ovviamente insieme, sono sullo stesso livello ipotetico-teorico, ma per cogliere al meglio i salti e le rotture cui ha dato seguito il capitalismo occorre riposizionare al centro dell’analisi l’articolazione spaziale a livello mondiale e il conflitto interdominanti, tanto all’interno che all’esterno di ogni singola formazione sociale. Chi si ostina a ragionare in termini di lotta tra sfruttati e sfruttatori come snodo decisivo per venire a capo delle principali contraddizioni del sistema pretende che la realtà si adegui ai propri desideri, non rendendo affatto un utile servigio ai dominati. E’ improduttivo continuare a discettare sui movimenti di resistenza del terzo mondo quali piazzeforti avanzate per la riscossa delle classi sfruttate. Queste tesi hanno avuto il loro massimo fulgore (e qualche risultato effettivo) nella fase delle lotte di liberazione nazionale, laddove i margini d’azione dei popoli vessati dall’ingerenza coloniale si erano ampliati per il sostegno dell’URSS a tali rivendicazioni, ma riproporre oggi l’idea dell’accerchiamento dell’occidente sviluppato da parte del terzo mondo vuol dire non aver capito granché sulla “complessificazione” capitalistica. Questi rigurgiti resistenziali si fanno virulenti (basti guardare a paesi come l’India o la Cina che hanno settori agricoli ancora trainanti) perché le classi dirigenti di quelle formazioni hanno imboccato la via dello sviluppo ad ogni costo, determinando stravolgimenti sociali radicali contro i quali si oppongono i gruppi stritolati da tale “progressione”. La situazione e’ esattamente paragonabile a quella europea nella fase di massima espansione industriale che determinò la dissoluzione della società e degli stili di vita contadini.
3. Contrariamente a ciò che si può pensare, per indagare l’attuale configurazione sociale, abbiamo bisogno di ben altri strumenti a partire da quelli che mettono meglio in evidenza il conflitto tra agenti dominanti per il controllo delle aree strategiche su scala mondiale.
Se vogliamo dipanare al meglio la/e struttura/e della/e formazione/i sociale/ i nel campo capitalistico odierno, tenendo in debito conto le differenze organiche tra queste, dobbiamo dirigere l’indagine su livelli conoscitivi distinti (stratificazione e segmentazione) e concentrarci sulle connessioni
14
(tra paesi e gruppi di paesi) agenti nell’ambito di quella formazione che un po’ impropriamente continuiamo a declinare al singolare (società capitalistica, anziché società capitalistiche).
Tali segmenti (da intendersi, altresì, quali portatori di differenziali di potenza e di performance economiche) sono il precipitato di rapporti di forza direttamente scaturenti dal confronto/scontro tra “classi” dominanti che si articolano in orizzontale (il motore del dinamismo geopolitico della formazione mondiale capitalistica), ma che hanno una propria specificità nei fattori storici, sociali, culturali ecc. ecc. Questi “zoccoli” imprimono una precisa direzione al corpo sistemico e determinano le caratteristiche di principio di ciascuna formazione nazionale.
Si può discutere di formazione sociale generale perché, come indica La Grassa nei saggi qui pubblicati, la sua natura è pur sempre capitalistica, ma quest’ultima viene a combinarsi con caratteristiche sociali divergenti a seconda dei diversi contesti nazionali. Ne deriva che la razionalità strategica è sempre polivalente, oltre che differentemente orientata (sulla base di tali fattori autoctoni) a seconda dei rapporti di forza a livello mondiale. In tal senso parliamo di predominanza (per il paese centrale, ovvero quello che momentaneamente esprime la massima concentrazione di potere), di subdominanza (per gli interi con un livello inferiore di forza economica, militare ecc. ecc.) o addirittura di dipendenza piena (per le nazioni senza alcuna autonomia).
Ai fini dello sviluppo della propria potenza, gli Stati, coordinandosi con i gruppi dominanti espressione della propria “morfologia” capitalistica, tanto finanziari che industriali, danno vita a strategie multivalenti di tipo militare, economico-industriale, tecnologico-scientifiche, atte a garantire la conservazione o l’allargamento delle proprie sfere d’influenza.
Con ciò, si comprende che i settori dominanti di altri interi che intendono mettere in discussione tale preminenza devono riorganizzarsi all’interno (al fine di disporre di maggiore autonomia decisionale in termini di razionalizzazione politica, produttiva, finanziaria, militare) e all’esterno (assicurandosi un flusso continuo di approvvigionamenti, risorse energetiche, materie prime, equipaggiamenti in senso lato), per conquistare spazi di manovra più ampi (anche stringendo accordi con altri paesi).
Le risorse in questione, siano esse naturali, industriali, o derivanti da specifici know how (frutto a loro volta di intensi processi di accrescimento tecnologico-scientifico) sono il primo step per estendere il proprio “spazio vitale” e per promuovere l’esercizio della potenza, con un’azione
15
coordinata sia nella sfera economica (la “forma” che nel capitalismo modella di sé tutte le altre, quella che prende il davanti della scena) sia, soprattutto, in quella politica (nella quale si opera secondo i crismi della massima strategicità).
Per intenderci, si possono invadere i mercati altrui con grandi quantità di capitali e con prodotti qualitativamente migliori, ma poi bisogna essere in grado di mantenere tale supremazia con mezzi più politici (diplomatici e non).
Basti osservare l’atteggiamento degli Usa nei confronti di quei paesi che si riaffacciano sullo scacchiere internazionale con velleità di riequilibrio degli assetti del potere mondiale. Ad esempio, nei confronti della Russia gli Usa alternano la diplomazia (ciò che nel linguaggio geopolitico viene indicato con il termine soft power) – coinvolgendola nella partnership integrata degli organismi internazionali o, più strumentalmente, nelle proprie strategie militari di autodifesa – con la deterrenza militare (hard power). Nel ‘99, quando la potenza russa era ancora alle prese con la ricostruzione interna dopo la dissoluzione del sistema sovietico, l’esercito statunitense destabilizzò militarmente uno dei paesi della sua cintura protettiva con l’appoggio logistico e militare dei governi di tutta Europa (Italia in testa). Oggi gli americani, di fronte alle politiche di recupero militare e industriale della Russia putiniana, provano ad isolare il paese con lo strumento delle “rivoluzioni colorate” con le quali si portano le classi dirigenti dei paesi dell’ex blocco sovietico sotto l’influenza ideologica e politica di Washington.
Un discorso a parte merita invece il vecchio continente e, all’interno di questo, gli anelli più deboli della catena capitalistica europea. Mentre tutti i segnali vanno nella direzione di un rinvigorimento del policentrismo che rimette in discussione il monocentrismo, fondato sull’egemonia Usa, l’Europa sta invece assumendo un ruolo decentrato, rinunciando alla sua storica autonomia con gravi conseguenze per i popoli che ne fanno parte. Paesi come la Cina, l’India e la medesima Russia, stanno inaugurando una fase di contrapposizione meno velata (di policentrismo dichiarato) sul piano mondiale, mentre l’Europa, scegliendo di porsi a rimorchio del carro statunitense, potrebbe ben presto trovarsi invischiata nell’arretramento geopolitico americano. L’Italia appare come il paese più debilitato e corrotto dell’Ue, integralmente in balìa dei dominanti statunitensi sul piano finanziario e industriale. Questa situazione sta, altresì, determinando lo sfilacciamento del nostro tessuto connettivo sociale, alla
16
mercé di politicanti profittatori che mettono in prima istanza la propria sopravvivenza all’ombra dei gruppi economico-finanziari (sia italiani che stranieri); il reiterarsi di questa situazione causerà inevitabilmente il dissestamento del nostro sistema-paese sempre più affossato dalle dispute tra bande “delinquenziali” economico-politiche che puntano al drenaggio delle risorse nazionali.
Le magre speranze per un riequilibrio dello strapotere americano vengono allora da due paesi (a prevalente modo di produzione capitalistico) portatori di strutture sociali differenziate (formazioni), quali sono quella russa e quella cinese (e in subordine anche quella indiana). Questi due paesi, pur esprimendo profili di stratificazione sociale non paragonabili alla formazione occidentale (con una forte centralizzazione politica che domina l’economia), sembrano gli unici in grado di opporre (sia militarmente che economicamente) un freno all’attuale predominio USA. Ancora non sappiamo quando potrà verificarsi un reale scontro tra questi giganti (né proviamo ad azzardare sulle fogge, più o meno cruente, che questo conflitto potrà assumere). Ciò che è sicuro è che l’Europa rischia di trovarsi tra l’incudine ed il martello, con uno scivolamento verso un maggior servilismo nei confronti del paese centrale (nel breve periodo) o con l’incorporazione nella sfera d’influenza russa o cinese (in uno scenario futuro molto più lontano, ma non impossibile). Ci sarebbe il tempo per mutare la propria strategia e per cercare nuove alleanze con questi paesi emergenti, ma per ora non sembra che ciò possa concretizzarsi a causa dell’incompetenza e del codinismo di quasi tutte le classi dirigenti europee. Il ritorno di un minimo di equilibrio internazionale e l’apertura di una nuova fase policentrica sono un auspicio da rincorrere, almeno per frenare il dominio incontrastato degli Usa e per favorire, nella eventuale nuova situazione, la riorganizzazione dei dominati.
4. Stando così le cose è difficile accettare i falsi discorsi sulla presunta fine del ruolo degli Stati nell’era della globalizzazione. Evidentemente, l’opera di depistaggio messa in atto dai circoli intellettuali assoggettati serve solo a nascondere quanto lo Stato svolge ancora a sostegno degli assetti capitalistici. Da questo punto di vista i meccanismi ideologici sono sempre all’opera e da ogni parte degli schieramenti politici, tanto di destra che di sinistra, si tenta di presentare quello come un organo neutrale al servizio della collettività. In molti scritti La Grassa ha chiarito quale mistificazione si celi dietro il chiacchiericcio querulo sulle funzioni
17
statali nell’organizzazione della vita collettiva. In un’epoca come la nostra dovrebbe essere chiaro come non sia la forma pubblica o privata di determinate imprese (che forniscono beni e servizi) a dover attirare l’attenzione critica, quanto le modalità di esplicazione di certe funzioni e dei fini a queste corrispondenti. Certo, ci sono servizi che non dovrebbero essere privatizzati (per una sostanziale unicità che non ne rende contendibile l’erogazione, se non al prezzo di un peggioramento del servizio ai cittadini, si pensi alle reti stradali o ferroviarie) ma non sta qui il problema che più ci interessa.
Il riferimento alla proprietà diviene specioso quando è utilizzato dai gruppi politici (soprattutto di sinistra) per dare una parvenza di contemperamento degli interessi collettivi ad operazioni di puro accaparramento delle risorse nazionali. Se guardiamo a quello che è accaduto in Italia sotto i vari governi appoggiati dalla sinistra si noterà quanto ci sia di falso nell’ideologia statalista. Non da ultimo le mosse del governo Prodi per favorire enti e fondi partecipati dal Tesoro con i quali si sono assecondate alcune banche e imprese private. Questo misunderstanding regge anche al cospetto dei sedicenti comunisti perché la statalizzazione viene da questi confusa e identificata con la socializzazione dei mezzi di produzione. L’aspetto fondamentale non riguarda però la forma giuridica della proprietà, ma la disponibilità sui mezzi ricadente in capo ad individui e raggruppamenti (proprietà privata) o ad organi direttamente ricompresi nello Stato (proprietà pubblica). In quest’ultimo caso, il potere di disposizione su tali mezzi passa per il controllo degli apparati statali (ai cui vertici siedono “insiemi” di potere) da parte degli agenti dominanti in tale sfera. Ciò significa che, dietro la coltre ideologica dell’armonizzazione degli interessi collettivi (la quale fa apparire lo Stato come un tutto organico), si scatena una lotta senza quartiere per il controllo delle risorse di sua pertinenza. Pertanto, quando ci si riferisce alla proprietà, sia essa privata o pubblica, ciò che deve essere messo in risalto non è il titolo che giustifica il possesso, ma la capacità di mettere in attività i mezzi, di combinarli efficacemente per uno scopo e di agire strategicamente per mantenerne il controllo o espandersi nelle direttrici d’interesse strategico. Questo si presenta con molta più evidenza nelle imprese private dove agiscono “drappelli” di controllo i quali, benché non direttamente proprietari (o in possesso di pacchetti azionari di minoranza) hanno nella propria disponibilità risorse e mezzi di produzione, attraverso i quali muovere i propri “eserciti” (trattandosi d’imprese il riferimento è in senso lato). I gruppi di tal genere
18
sono solo limitatamente interessati ai problemi tecnico-produttivi o allo stato complessivo dell’azienda (l’esempio Telecom è emblematico in tal senso, difatti, il gruppo di comando bancario, Intesa-Mediobanca, ha opposto una serie di veti incrociati alla nomina dei vertici aziendali per ragioni che andavano oltre le esigenze di mercato). Per quel che concerne lo Stato il discorso diventa più complesso. Quest’ultimo viene continuamente descritto quale strumento neutrale (non dipendente da rapporti di classe a dominanza) volto a legare corpi e attività sociali. Secondo tale impostazione, lo stesso avrebbe un ruolo di redistribuzione della ricchezza prodotta, funzionale ad un calmieramento dell’anarchia dei mercati, esito della competizione intercapitalistica. In pratica, lo Stato farebbe da contraltare all’egoismo individualistico che genera ricchezza nella competizione sul mercato, ma che dà pessimi risultati quando si tratta di beni e servizi d’interesse collettivo. L’organismo statale allora sopperirebbe a queste carenze dell’intrapresa privata per finalità di benessere generale. Le cose ovviamente non stanno affatto così, perché caratteristica precipua degli apparati statali è l’esercizio della forza e il mantenimento dell’ordine sociale.
Lo Stato è il luogo dove il potere coercitivo delle classi dominanti si trova massimamente concentrato per esigenze di riproduttività sistemica complessiva. La sua capacità coercitiva è data dagli arsenali militari e dalla possibilità di manovrare gli eserciti, i cosiddetti “corpi” speciali di uomini in armi pronti ad intervenire nelle situazioni di minaccia sociale. E’ da sciocchi continuare a tenere bordone all’edulcorazione ideologica che descrive lo Stato quale strumento di amministrazione degli affari generali di un popolo. Quando Lenin parlava dello Stato come “comitato d’affari” della borghesia, coglieva un aspetto liminare del problema, ma ne tralasciava uno di gran lunga più decisivo. Il capitalismo è un sistema fortemente dinamico che integra in sé la logica del combattimento, della prevalenza, dell’annientamento così come essa si esprime nel conflitto tra gli agenti dominanti. Ciò determina che gli accordi tra gruppi dominanti, anche quando sono inevitabili per non mettere a repentaglio la tenuta dell’ordine costituito, hanno natura instabile. Qualsiasi equilibrio tra gli attori in campo è sempre il risultato dell’estrinsecazione di rapporti di forza, i quali possono giungere a momentanea stabilizzazione, ma solo come conseguenza dei cedimenti di alcuni gruppi che sottostanno all’avanzamento di altri. Poiché non v’è mai staticità sistemica e le posizioni di dominanza salgono e scendono lungo una scala di differenziali
19
di potere, altri gruppi tenteranno la salita scontrandosi con quelli che occupano “zone” di privilegio, minacciando i precedenti accordi. Quando il “comitato” si forma è perché è stato raggiunto un bilanciamento provvisorio tra gli strati dominanti la cui permanenza dipende da vari fattori e dal tipo di assetti che ne sono scaturiti. Il precipitato (in senso “chimico”) di questo scontro interdominanti è all’origine della sedimentazione in apparati dello Stato la cui omogeneità è solo apparente. Tale entità, dunque, si divide in apparati articolati, in quanto risultato di una lotta “di potere tra poteri”, dove in filigrana si staglia sempre lo scontro tra agenti strategici nella sfera politica. Chi propaganda la favola dello Stato ente super partes, aduso al temperamento e alla ricomposizione degli interessi tra le classi sociali, è pienamente invischiato in tale lotta o è al servizio ideologico dei decisori strategici.
Il grande capitale, come affermato da La Grassa, necessita di apparati coercitivi che si attivano quando l’ideologia non è più sufficiente a ricomporre le principali contraddizioni derivanti dalla divisione in classi della società. Esso, in quanto rapporto sociale che genera costantemente subordinazione e sottomissione, si serve dei “distaccamenti (o corpi) speciali di uomini in armi” con il compito di assicurare la costante riproduzione di detti rapporti di forza.
Ma la funzione coercitiva dello Stato mostra il suo vero volto solo quando lo spazio ideologico della ricomposizione per via egemonica (la gramsciana “egemonia corazzata di coercizione”) non “tiene”, ed allora accade che vengono mobilitati gli eserciti, la polizia, e i corpi armati pronti ad intervenire all’interno e all’estero dello spazio statale.
5. Chiarito questo punto diviene difficile credere alle sirene delle classi dominanti e all’opportunismo dei sedicenti partiti “popolari”, i quali continuano a perorare l’intervento statale nell’economia allo scopo di riparare i guasti del liberismo sfrenato.
Più precisamente la coppia ideologica pubblico/privato diviene il feticcio preferito per il “rimpallamento” ideologico tra parti in causa, si tratti di partiti conservatori o di quelli sedicenti progressisti. Anche i rimasugli comunisti non sono alieni a tale sceneggiata, tanto che dai loro ranghi si sente spesso proporre la statalizzazione delle imprese come soluzione ai licenziamenti e alla crisi del settore privato. Addirittura, nel recupero della sfera pubblica su quella privata si vedono i prodromi di un nascente socialismo, a perpetrazione di quella confusione centenaria tra
20
socializzazione delle forze produttive e statalizzazione delle stesse.
Il problema del pubblico e del privato non è né un problema “transizionale”, né una questione di forma giuridica. La Grassa dà qui una diversa lettura delle forme della proprietà che possono essere spiegate solo attraverso la lente dei flussi conflittuali, quelli dello scontro strategico tra agenti dominanti.
In particolare, l’autore si concentra sulla scarsa attenzione manifestata dalle correnti variamente riconducibili al marxismo e dalle scuole liberiste e neoliberiste nei confronti dei cosiddetti saperi strategici che sorreggono il conflitto interdominanti.
Tanto l’ideologia di sinistra (neo-keynesiana) che quella di destra (liberista), restano ingabbiate in una visione fortemente anacronistica (da primo stadio del capitalismo), con conseguente appiattimento dell’analisi sulle funzioni di redistribuzione della ricchezza sociale da parte di un ente “imparziale” come lo Stato, nel primo caso, o nella direzione di una fantomatica mano invisibile riequilibratrice del mercato, nel secondo.
Entrambe queste ideologie, non prendono in considerazione la politicità del conflitto strategico che penetra le diverse sfere sociali: quella economica, quella politica (con le sue propaggini militari) e quella ideologico-culturale. La caratteristica precipua del capitalismo deriva dal conflitto politico tra agenti decisori che si incunea direttamente nella sfera economica innescando una spinta centrifuga atta a “spezzare la produzione in tanti organismi separati” (La Grassa), determinando, al contempo, la frammentazione dell’intero corpo sociale e la sua stratificazione in classi o gruppi nient’affatto omogenei.
Le ideologie in questione si sono invece disinteressate dello iato esistente nel capitalismo tra conflitto strategico per il dominio (che comporta un confronto/scontro tra gruppi di agenti strategici nella formazione nazionale e in quella globale) e razionalità strumentale (trasformazione di dati input in dati output in rispondenza alle leggi dell’efficienza economica).
Dato questo quadro, è chiaro che qualsiasi analisi teorica che prescinda da tali elementi – 1. l’articolazione spaziale dei gruppi dominanti nelle formazioni particolari; 2 lo scontro tra gruppi dominanti all’interno di una nazione o di un’area ad omogeneità culturale – sarà incapace di cogliere la vera natura del capitalismo. Secondo La Grassa, alcune correnti teoriche che inizialmente si erano presentate come rivoluzionarie e antiborghesi, hanno trascurato il punto 2, tanto da ritrovarsi alleate con il grande capitale (i cosiddetti rivoluzionari dentro il capitale) favorendo uno sbocco
21
imperialistico della crisi sociale (fascismi). Le altre (quelle comuniste) non hanno colto il punto 1, convinte che, dalla impossibilità del Capitale di ricondurre a sintesi la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e irrigidimento dei rapporti di produzione, sarebbe maturata, nelle viscere stesse della vecchia formazione, la nuova società a modo di produzione socialista. In quest’ultimo caso, la mancata realizzazione dell’iniziale previsione ha dato adito allo scivolamento verso forme di natura statalistica di tipo lassalliano (statalismo autoritario) o di tipo simil-keynesiano (statal-riformismo).
Le correnti fasciste e comuniste si sono fatte la guerra per un’epoca molto lunga, ma poi sono inesorabilmente collassate lasciando un vuoto politico che è stato immediatamente occupato dalle attuali correnti di “destra” (propugnatrici del neoliberismo della globalizzazione) e di “sinistra” (sostenitrici del neokeynesismo sociale), depositarie di una “simmetricità ideologica” nella reiterazione di certe mistificazioni. La seconda, come già detto, è “immemore” di quello che rappresenta lo Stato in una società divisa in classi e continua a caldeggiare, non si sa quanto in buona fede, un improbabile intervento del pubblico a favore dei settori più deboli (welfare, politiche assistenziali ecc. ecc.). L’anacronismo di tale prospettiva è evidente se si ragiona nell’ottica dell’attuale monocentrismo e della riterritorializzazione capitalistica, con l’esaurimento della logica dei blocchi contrapposti che imponeva politiche espansive della domanda al fine di sottrarre le classi subalterne occidentali all’influenza dell’Unione Sovietica
I liberisti, ormai trasversali agli schieramenti partitici, premono invece per una riduzione della spesa statale e per l’eliminazione dei lacci e dei lacciuòli all’intrapresa privata, ignorando che senza lo Stato “di classe”, con i suoi apparati coercitivi e ideologici, tutto il sistema finirebbe per scollarsi.
Quindi, a ben vedere, il campo sociale attuale sarebbe diviso in quattro ideologie, due ormai consumate dal processo storico (comunista e fascista) e due assolutamente egemoniche, quali quella liberista (prevalentemente di destra) e quella statal-keynesiana (prevalentemente di sinistra).
Il consiglio di La Grassa è quello di liberarsi di tutte queste ideologie inadatte a far avanzare l’indagine sulla società attuale. Soprattutto, occorre convincersi che il nucleo principale di una nuova teoria anticapitalistica deve risiedere nella comprensione del conflitto strategico interdominanti che trapassa le sfere sociali (nelle quali viene divisa artificiosamente
22
la formazione capitalistica) e pone l’accento soprattutto su quelle che un tempo erano descritte come meramente “sovrastrutturali” (politica e ideologico-culturale). Indubbiamente non si tratta di cercare la completa trasparenza sociale, bensì di superare i mascheramenti che impediscono di avere un quadro più chiaro dell’oggetto di studio.
6. Per concludere questa introduzione, nella quale ho trattato alcuni dei temi affrontati nei vari saggi qui pubblicati, vorrei fare qualche riflessione sullo stato odierno delle forze antisistemiche.
Oggi si continua a credere che i fallimenti del passato siano per lo più conseguenza dei tradimenti delle classi dirigenti del movimento operaio e della deriva burocraticistica di queste, ma si tratta della solita “Grande Illusione” con la quale si copre lo “spaesamento” teorico e l’inadeguatezza del modello categoriale di riferimento.
Per porre fine all’“orgia” dei tradimenti ci si è richiamati al “vero comunismo”, al necessario ritorno ad un passato incorrotto del movimento operaio, alla “genuinità” della classe (in sé o per sé) che tornerà al suo inevitabile destino rivoluzionario perché la Storia lo richiede.
Nel frattempo, la prospettiva di Marx è stata sommersa da una pletora di ideologie che nulla hanno a che spartire con il suo pensiero scientifico. La critica rigorosa al sistema ha lasciato il posto a varianti utopiche dal gusto cristianeggiante, ambientalista, o peggio ancora, decrescentista.
L’annuncio in pompa magna di tali cambiamenti di direzione è sempre un riflesso condizionato che risponde alla deriva moderata delle sinistre istituzionali. Con ciò si alimenta un circolo magico che, in breve tempo, riporta tutto al punto di partenza, favorendo l’inclusione dei sedicenti “rinnovatori” nei meccanismi “remunerativi” della politica istituzionale (le svolte governative dei vari partiti comunisti in Europa attestano quello che sosteniamo). Insomma, si va sempre più a sinistra per ritornare sempre più indietro.
Per queste ragioni è forse giunto il momento di lasciare al proprio destino il comunismo e, soprattutto, i comunisti. Non si vuole certo rinnegare un passato glorioso che ha dato a milioni di donne e di uomini la speranza di poter realizzare un mondo più libero ed egualitario di quello attuale. Ma le speranze non bastano più, occorre rimettersi sulla strada della scienza per una ricostruzione teorica meno approssimativa di quella attuale.
23