GIANFRANCO LA GRASSA – STRATEGIE Per una teoria di fase (Manifestolibri)
INTRODUZIONE
Marx sostenne, nelle Tesi su Feuerbach, che i filosofi avevano sino a quel momento solo interpretato il mondo, mentre si trattava ora di cambiarlo. Althusser affermò che la teoria è una pratica teorica. In sostanza, è necessario non separare mediante un fossato incolmabile teoria e prassi, pensiero e azione. Il primo è sempre collegato alla seconda, anche quando questa sembra mancare. L’azione può essere via via ridotta fin verso lo zero, ma sussisterà sempre una sorta di suo “metabolismo basale”. Non si può vivere senza in qualche modo agire. L’azione è sempre individuale, ma si inserisce all’interno delle relazioni che gli individui hanno fra loro nella vita associata (laddove questa si è stabilita). Nelle società umane, tali relazioni si sono via via complessificate, dando vita a quelle che si possono denominare formazioni sociali (con la loro storia e cultura), in cui si distinguono, proprio in base all’uso del pensiero, diversi raggruppamenti, variamente strutturati seguendo differenti pratiche teoriche caratterizzate da specifici fasci d’osservazione. E’ quindi sempre possibile pensare l’azione di dati gruppi – partendo dai minori (perfino costituiti, in dati casi e per certi scopi, da singoli individui) e progredendo verso quelli sempre più numerosi – con la consapevolezza che la suddetta azione “collettiva” (composizione di molte individuali) è sempre comunque “impastata” di pensiero, mentre l’azione-azione è invece sempre individuale, apparentemente non-pensata, irriflessa, im-mediata.
Il pensiero è dunque stimolato dall’azione (pur quando questa sembra essersi azzerata) e influisce su di essa (anche se si trattasse di in-azione). Non può esservi però azione (o in-azione, con tutte le varie sfumature e gradazioni dall’una all’altra) se non attraversando il complesso di conoscenze, e sistemi di idee, che si sono già storicamente sedimentati. Ogni azione, individuale o “composta”, si apre perciò la strada all’interno di sempre più complesse formazioni culturali, un campo ormai sempre arato e coltivato, in cui germogliano e maturano numerose “piante”: le teorie, appunto, dalla più semplici e “ingenue” alle più riccamente articolate. Le teorie sono in definitiva l’aspetto condensato e “corposo” presentato da insiemi di azioni individuali mosse dai pensieri come loro “guide”; pensieri che si intrecciano e consolidano all’interno di formazioni sociali (e culturali) ormai da sempre variamente strutturate e costituite di molte parti interrelate, essendo resi edotti che la divisione in parti e le relazioni tra queste sono frutto dell’attività del pensiero stesso.
A partire da un dato livello di evoluzione e sviluppo delle formazioni sociali (del tutto recentemente comunque, già in pieno capitalismo), vasti insiemi di teorie sono divenuti, come si è detto spesso, “controintuitivi”, cioè non sono in definitiva più corrispondenti alla cosiddetta evidenza dei sensi. Credo di non sbagliare troppo se interpreto il problema non tanto, comunque non semplicemente, come una mancanza di evidenza “sensistica”, bensì quale complicatezza dei sistemi teorici, per valutare e usare i quali occorrono numerose conoscenze specialistiche, che non sono in possesso di chi non segue quel particolare ramo delle stesse; o, ancor più spesso, non ne segue alcuno. La stragrande maggioranza della popolazione, che pur è spesso interessata (e coinvolta) dalle ricadute “pratiche” di quelle conoscenze, non le possiede se non minimamente. Questo fatto ormai evidente, e del tutto irreversibile, non credo intacchi la sostanza dei ragionamenti fatti sopra intorno allo statuto delle teorie.
Secondo Althusser la filosofia è lotta di classe nella teoria (nella pratica teorica). Tale concezione è stata criticata perché sembra condurre all’identificazione della filosofia con l’ideologia. Francamente, non intendo dilungarmi sull’argomento che mi condurrebbe largamente “fuori tema”. Non sono però più molto d’accordo con le varie tesi che hanno per oggetto la “lotta di classe”; per il semplice motivo che ho criticato, e credo con dovizia di argomentazioni, la teoria marxista delle classi, fondata su una particolare concezione già da me più volte contestata.
Il Manifesto del 1848 uscì (in gennaio) proprio nell’anno dei grandi moti che evidenziarono l’ormai avvenuta decantazione, all’interno del vecchio Terzo Stato, di quelle che furono indicate come borghesia e proletariato. Poiché quei tumultuosi eventi rivoluzionari furono il punto di
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precipitazione di un processo già in corso da tempo, si può ben dire che Marx fissò fin quasi da subito l’esito di quest’ultimo in una brillante sintesi teorica, che ha poi influenzato il corso della storia politica successiva. Il proletariato fu sempre trattato indifferentemente come classe operaia e la borghesia fu di fatto considerata la classe capitalistica, intendendola quale classe dei proprietari (privati) dei mezzi di produzione. In definitiva, la teoria – che faceva di queste due classi le protagoniste dell’antagonismo, e della lotta che avrebbe provocato nuove trasformazioni in direzione della società detta comunista – fu formulata in base all’esplodere di processi rivoluzionari che resero più chiara ed evidente l’evoluzione sociale di cui uno degli episodi centrali (ma solo uno, per quanto del tutto saliente) fu la Rivoluzione francese del 1789. Sarebbe infantile pensare che Marx avrebbe potuto scrivere Il Manifesto venti, o anche solo dieci, anni prima (non sarebbe accaduto nemmeno se egli fosse nato ai primi dell’ottocento invece che nel 1818).
Perfino un genio non è in grado di immaginarsi il decorso degli avvenimenti storici; affinché una serie di idee sparse, in accumulo da molto tempo, precipiti in una più chiara e illuminante teoria sociale, è necessario un processo di decantazione e condensazione di tali avvenimenti che consenta di pensare quella data articolazione della società arrivata ad un punto di svolta della sua lunga evoluzione storica. Quando il punto di svolta arriva, un fascio di luce illumina il percorso teorico di dati pensatori, ma nel contempo li guida anche nella sistematizzazione – sempre provvisoria malgrado ogni apparenza – di uno specifico complesso di idee sulla “realtà” che, come ricordò lo stesso Marx, non deve essere confuso tout court con quest’ultima [nella Introduzione del 1857 egli scrisse che “il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso”.].
Un sistema teorico, per quanto provvisorio, è formato da ipotesi interpretative circa il decorso storico sfociato in quella specifica situazione della società, che si pensa strutturata in un certo modo e dotata di una sua peculiare dinamica. Marx indicò chiaramente che il “laboratorio” della sua analisi del capitalismo era l’Inghilterra, perché in questo paese più avanzato era il processo di formazione della società in oggetto. Egli affermò anzi che detto processo era qui giunto alla sua “classicità”; e si sbagliò poiché cristallizzò così un “modello di sviluppo” capitalistico, che era invece in pieno svolgimento e tutt’altro che ormai definito (e definitivo) nei suoi caratteri decisivi. Si è trattato di un grave errore, foriero di molto di quanto è seguito nel corso di un secolo e mezzo di “prassi comunista”. Pensando ad un modello di capitalismo ormai “classico”, Marx si comportò di conseguenza: dalle ipotesi interpretative del passato (formazione del capitalismo inglese dalla società precedente) passò direttamente alle ipotesi previsive dei suoi successivi sviluppi. Tale modo lineare di dedurre il futuro dal passato è causa di una serie di determinismi. Egli errò due volte: nel prevedere con eccessiva certezza il futuro in base all’interpretazione delle passate dinamiche sociali; nel non tenere conto che, per quanto riguarda sia l’interpretazione del passato sia la previsione del futuro, si formulano semplici ipotesi, da non confondere con la mera “riproduzione” della realtà concreta “nel cammino del pensiero” (come affermò nella già citata Introduzione del 1857).
3. Una teoria è dunque sempre di fase (per quanto più o meno lunga) poiché è parte di una strumentazione strategica utilizzata nel confronto e battaglia tra raggruppamenti sociali; tale strumentazione è generalmente in dotazione di particolari comparti di detti raggruppamenti, quelli appunto attrezzati alla lotta nel campo del pensiero, alla lotta ideologica. E che non necessariamente sono anche le “avanguardie” (o élites o come le si vuol chiamare) addette allo scontro più specificamente politico. Certi gruppi marxisti (in particolare comunisti) furono una “felice” sintesi di “avanguardia” politica e ideologica; con tutti i pericoli insiti in questa sintesi, che si sono infatti manifestati pienamente nel corso della seconda metà del XX secolo, fino all’indegna fine odierna, con la suddivisione in tante piccole “schegge impazzite” che suscitano un misto di rabbia e disprezzo per la loro ormai totale incapacità sia di agire che, ancor più, di pensare.
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Come ho sopra rilevato, i grandi movimenti del 1848 misero in evidenza l’ormai avvenuta scissione della formazione sociale in due classi che presero indubbiamente il davanti della scena: classe borghese (o dei capitalisti proprietari) – che appariva in tendenziale diminuzione numerica, e arricchimento individuale, grazie alla competizione concorrenziale che conduceva alla centralizzazione dei capitali – e proletariato (cioè classe operaia), che diveniva sempre più numerosa con apparente tendenziale emergenza del “lavoratore collettivo cooperativo” nella produzione (unione di braccio e mente, di esecutore e di dirigente, entrambi salariati). Grosso modo fino alla prima guerra mondiale, la struttura sociale fu contraddistinta, durante lo sviluppo capitalistico, dalle due classi in questione. Si trattava pur sempre di una semplificazione, che non provocò tuttavia troppi errori nell’individuazione dei principali antagonisti in lotta nella società. Il venir meno della centralità inglese, la crescita di altri poli capitalistici (nazionali), l’avvento dell’epoca dello scontro imperialistico tra di essi, mutò gradualmente la situazione. La vecchia borghesia entrò in fase di progressivo declino mentre cresceva di importanza quello che sarà poi un ben più aggressivo insieme di gruppi di “funzionari” del capitale, di agenti strategici in lotta per l’egemonia nella società; una lotta condotta anche all’interno delle varie formazioni particolari (paesi o nazioni), ma che si condensò principalmente nel reciproco conflitto tra queste ultime per la nuova supremazia mondiale, ormai persa dall’Inghilterra.
La classe operaia, pur ancora in crescita, divenne sempre più “codista” nei confronti dei dominanti imperialisti dei propri paesi. Per spiegare tale processo, senza abbandonare la teoria marxista tradizionale, furono escogitate alcune ipotesi ad hoc: il “tradimento” dei capi della socialdemocrazia (che ci fu, ma andava meglio spiegato nei suoi motivi strutturali e non solo personali) oppure la corruzione degli strati alti della “classe”, la cosiddetta aristocrazia operaia, favorita dalle (laute) briciole dello sfruttamento imperialistico (cioè del pluslavoro/plusvalore estorto alle masse lavoratrici dei paesi soggetti a dominio coloniale). Lenin arrivò fino all’affermazione di una tendenza tradunionistica (sindacale) di tale classe se lasciata alla sua spontaneità. In realtà, come una lunga storia successiva ha, a mio avviso, dimostrato ampiamente, esistono gli operai ma non la classe operaia nel senso marxista del termine (che implica una soggettività collettiva, dotata della sua bella “coscienza” come si trattasse di un individuo).
Il raggruppamento sociale, definito operaio, è infine divenuto una quota percentualmente decrescente della totalità sociale, comunque non certo una maggioranza (e in progressivo aumento) di quest’ultima. Inoltre, esso è ormai un coacervo di molti gruppi tendenzialmente differenziantisi; il lavoro salariato, i compiti eminentemente esecutivi, la più netta subordinazione nella gerarchia lavorativa, non implicano alcuna omogeneità né vera unità di interessi se non nella formazione ideologica, che ha indubbiamente funzionato a lungo per poi essere destrutturata nel corso dell’avanzata dei sistemi capitalistici. Infatti, malgrado le ripetute e fideistiche previsioni dei marxisti tradizionali, i rapporti di produzione del capitale non si sono trasformati in “catene” per lo sviluppo delle forze produttive, oltre un dato livello dello stesso. Le crisi capitalistiche, anche le più gravi, sempre interpretate da questi marxisti chiesastici quale annuncio dell’imminente fine dell’attuale struttura sociale e dell’inizio della rivoluzione, si sono in realtà dimostrate null’altro che gravi arresti della crescita con profonde modificazioni dei rapporti sociali, pur sempre però nell’ambito delle coordinate più generali del capitalismo: il mercato e l’impresa. I tentativi di uscire radicalmente da tali coordinate sono andati infine incontro, nell’unico esperimento tentato e ritentato in numerosi paesi per almeno settant’anni, al più clamoroso e definitivo dei fallimenti.
Di conseguenza, è ora di riconoscere senza più esitazioni che le previsioni tratte dalla teoria marxista in merito alle tendenze intrinseche alla dinamica del modo di produzione capitalistico non si sono realizzate. Il marxismo è stata un’importante teoria di una data epoca dello sviluppo capitalistico, ma è stato poi trasformato in teoria generale della storia di questa forma sociale; anzi, con il “materialismo storico”, si è preteso di fornire uno schizzo dell’intera evoluzione della società umana (e mi fermo qui, stendendo un pietoso velo sul “materialismo dialettico” e il tentativo di dare un’interpretazione unitaria e universale del movimento dell’intero Cosmo). Del marxismo si tenga
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conto della teoria del valore, in quanto svelamento della diseguaglianza sostanziale sottostante all’eguaglianza formale (ma reale) affermatasi al livello dello scambio mercantile. Tale svelamento ha però condotto a considerare il conflitto sociale (presunto antagonistico con tendenza al superamento del modo di produzione capitalistico in direzione di quello comunistico) nella sua semplificata forma dello scontro tra borghesia (proprietà privata dei mezzi produttivi) e lavoro salariato, eretto a classe, a soggetto capace di dirigere la trasformazione (transizione) dall’una all’altra società.
Oggi, una tale concezione è la nuova mistificazione (ideologica) da svelare; non certo meno grave di quella che nascondeva lo sfruttamento (estorsione di pluslavoro in forma di valore) dietro l’esaltazione della libertà ed eguaglianza esistente nello scambio di merci (mezzi produttivi in quanto capitale, da una parte, e forza lavoro, dall’altra). I lavoratori salariati, ormai suddivisi in molti gruppi, sono una parte della formazione sociale capitalistica e la loro lotta è la stessa di tutti gli altri comparti; un mezzo per attribuirsi fette maggiori della “torta” (reddito o prodotto nazionale). Il capitalismo non si è tuttavia andato unificando quale formazione sociale, internamente strutturata in base alla predominanza crescente di un modo di produzione capitalistico considerato in generale quale struttura tendenzialmente dicotomica: capitalisti-proprietari (in numero sempre minore) e operai salariati (Marx parlò spesso anche del lavoratore collettivo, dal dirigente all’ultimo livello esecutivo) in continua crescita.
Gli agenti capitalistici dominanti (o decisori) sono invece – proprietari o meno che siano, dirigenti dei processi produttivi o meno che siano – gli agenti addetti alle strategie del conflitto per la supremazia (i funzionari del capitale); i dominati (meglio dire: non dominanti o non decisori) non sono soltanto i salariati, ma un coacervo molto più complessamente articolato, in cui si ingrossano gli strati e i segmenti del lavoro non dipendente (“autonomo”). Del resto, gli stessi salariati, perfino se si vogliono considerare soltanto quelli situati nei ruoli più bassi (esecutivi) dei processi di lavoro, sono in via di differenziazione e non certo di omogeneizzazione.
Dopo la seconda guerra mondiale, iniziatosi l’impetuoso processo di “decolonizzazione” e di lotte di liberazione nazionale nei paesi detti sottosviluppati, una parte preponderante di marxisti (o di radicals) ha teorizzato una nuova fase di trasformazione rivoluzionaria “antimperialista” basata sullo scontro – sempre supposto antagonistico e frontale – tra primo e terzo mondo, tra l’insieme delle società a capitalismo avanzato e le masse proletarie e diseredate delle aree arretrate (Asia, Africa e Sud America). Pure queste tesi sono state messe in mora dallo sviluppo sempre più impetuoso di numerosi di questi paesi (in specie in Asia e oggi in Sud America) a partire dai due più popolosi (oltre un terzo dell’intera popolazione mondiale): Cina e India. Gli “irriducibili” non smettono di aggrapparsi alle contraddizioni (supposte crescenti e irrisolvibili) all’interno dei paesi in forte crescita, contraddizioni che contraddistinguono sempre processi del genere perché la rottura della situazione di stasi in un qualsiasi sistema (prendiamo come esempi il flusso circolare della teoria schumpeteriana o il “circolo vizioso della povertà” di certe teorie del sottosviluppo) avviene sempre in un certo punto o area e poi si espande all’insieme.
In realtà, il marxismo – avendo preso la transizione dal feudalesimo al capitalismo, avvenuta in Inghilterra (il “laboratorio teorico” privilegiato da Marx), come modello di ogni sviluppo capitalistico – non ha saputo individuare le trasformazioni di quest’ultimo né nel tempo né nello spazio. Nel primo senso, ha ignorato il passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale, cioè la sempre più netta evidenziazione della funzione del capitalista non quale mero proprietario (dei mezzi produttivi) ma come stratega del conflitto per l’egemonia nella società. In ambito spaziale, non ha tenuto conto – salvo Lenin, ma senza che quest’ultimo portasse la considerazione “pragmatica” a livello della teoria – del conflitto tra le principali formazioni particolari (paesi e nazioni divenuti potenze) per la supremazia nell’ambito della formazione mondiale o globale.
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4. Il marxismo è dunque fondamentalmente una teoria (di fase) che ha scambiato la parte (l’Inghilterra) per il tutto. I successivi adattamenti, le varie ipotesi ad hoc escogitate (in quest’ambito, a mio parere, l’unico vero grande innovatore fu Lenin) non hanno potuto sanare il difetto “di fabbrica”. E’ dunque comprensibile che il “motore” del marxismo abbia fatto cilecca, e si sia “rotto” durante la sua “corsa” alla rivoluzione durante il XX secolo. L’errore spaziale è dipeso in larga parte da quello temporale. La mente umana, del tutto comprensibilmente del resto, tende a proiettare nel futuro quanto ha appreso dal passato. Tuttavia, quest’ultimo è noto, pur se viene via via “conosciuto” (approssimativamente e mai in modo esaustivo) mediante ipotesi di tipo interpretativo, che reggono anche – magari inconsapevolmente – l’intera ricerca degli storici, che spesso credono ingenuamente di “rilevare fatti”. Il futuro è invece ignoto, e viene “conosciuto” mediante ipotesi previsive. Si tratta dunque di una conoscenza sui generis giacché il futuro è aperto ad un ventaglio di possibili direttrici di evoluzione; mentre, in ogni caso, il passato è ormai precipitato nel già definito, pur se mai definitivamente conosciuto. Sul passato non siamo più in grado di agire, dobbiamo limitarci ad interpretarlo; la previsione è invece foriera di azione (quand’anche si tratti di in-azione in quanto effetto della credenza in una assoluta predestinazione o nel determinismo tipico del marxismo chiesastico). E tale azione (o in-azione) si inserisce via via nell’insieme (indefinito) degli eventi potenziali e lo “sventaglia” appunto secondo direttrici ancora ignote nel momento presente.
Ripeto che è per noi naturale, e talvolta perfino obbligato, proiettare nel futuro la “conoscenza” (quella che noi pensiamo essere tale in base alle ipotesi interpretative) del passato. Dobbiamo però mantenere la consapevolezza che passato e futuro sono fra loro “dissimmetrici” e il presente – essendo il punto d’interruzione e di “cambio di simmetria” fra i due differenti decorsi degli eventi – deve dunque servirci, in ogni successivo suo “presentificarsi”, per un continuo lavoro di affinamento e adattamento delle ipotesi previsive formulate in base a quelle interpretative. I marxisti (quelli non religiosi e dogmatici) l’hanno fatto, ma sempre mediante le cosiddette ipotesi ad hoc che sono un escamotage per non abbandonare le vecchie formulazioni, tentando ogni volta di adattarle ai nuovi processi evidenziatisi. E’ una modalità di procedere che, fino ad un certo punto, è giustificabile o almeno comprensibile. Giunge però il momento in cui simile atteggiamento comporta la sclerosi più totale del pensiero con conseguenze disastrose sul piano dell’azione. Questo momento non è solo giunto, ma passato ormai da molti e molti decenni.
L’evoluzione della società capitalistica non ha seguito gli schemi previsti in base al concetto di modo di produzione capitalistico, costruito in seguito alle analisi compiute da Marx in quel “laboratorio” rappresentato dall’Inghilterra. Si è accumulato un ritardo enorme, che sarebbe vano pensare di colmare in un batter d’occhi. Nemmeno chi avesse il genio di Marx potrebbe assolvere un simile compito. Tanto più che – rivelatasi fallace la previsione della vocazione rivoluzionaria della presunta classe operaia; rivelatasi altrettanto illusoria quella delle masse proletarie (diseredate) dei paesi detti sottosviluppati, che si presumeva fossero irreversibilmente sfruttate secondo modalità coloniali, o a queste simili, dalla classe capitalistica di quelli avanzati, con laute briciole per la loro classe operaia – ci si è trovati in un’epoca di vera impasse della lotta sedicente antimperialistica, per non parlare di quella anticapitalistica ormai al lumicino. E’ necessario compiere alcune mosse strategiche per riprendere la strada. Per parafrasare Althusser, diciamo che la teoria è strategia di lotta nel pensiero, tesa a introdurre tramite quest’ultimo, sia pure con molte mediazioni (spesso talmente complicate da apparire a lungo ineffettuali), elementi attivi (o in-attivi) che andranno a coagularsi in futuro lungo una delle direttrici secondo cui evolverà l’attuale formazione sociale.
Il libro, che queste righe introducono, è una delle tappe della mia linea di ricerca di nuovi orientamenti; esso rappresenta precisamente una mossa strategica alla ricerca della possibile teoria di fase (magari di non lunga durata) in grado di superare l’impasse, in cui è ormai entrato da tempo il vecchio marxismo, orizzonte teorico da cui provengo. L’elemento più caratteristico di tale mossa è l’aver posto in primo piano il conflitto tra dominanti per la supremazia, con particolare riferimento – nella presente fase storica – a quello che si manifesta tramite lo scontro tra potenze
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(formazioni particolari, che sono tuttora paesi e nazioni). All’interno di queste formazioni particolari, per lo meno nell’area delle società a capitalismo avanzato, si ha la netta sensazione che – tra le ristrette couches superiori e le minime quote di veri “diseredati” – il grosso della società sia costituito da un articolato insieme di “ceti medi”, suddivisi in numerosi strati con livelli di reddito assai differenziati.
Questa definizione di ceti medi è tuttavia un concetto-ripostiglio. D’altra parte, il Terzo Stato pre e post-rivoluzione del 1789 non era in fondo anch’esso un concetto del genere? Solo il 1848 (gli eventi immediatamente precedenti e susseguenti a tale data) decantarono, e dunque chiarirono, la sua effettiva strutturazione interna, dando modo a Marx di distinguere tra borghesia (classe capitalistica) e proletariato (classe operaia), e di criticare così aspramente le varie tesi del “socialismo romantico” (alla Sismondi, ad esempio) che pensavano si potesse arrivare ad una società (degli “eguali”) composta in grande prevalenza di piccoli proprietari produttori di merci. I vari Sismondi erano appunto prigionieri di concetti-ripostiglio, poiché obnubilati da quanto tuttavia era possibile riscontrare effettivamente nella società di allora: la presenza di una cospicua massa di artigiani e contadini piccolo-proprietari. Il processo rivoluzionario di metà ottocento consentì di ottenere una migliore visibilità dell’inevitabile processo di polarizzazione tra proprietà capitalistica e lavoro salariato.
Solo un “idealista” può credere che Marx abbia scoperto la “divisione in classi” del capitalismo semplicemente perché dotato di una maggiore intelligenza rispetto ai Sismondi, ai Proudhon, ai socialisti ricardiani, ecc. Nessuno mette in dubbio anche la genialità di Marx; ma fu favorito dall’essere nel “posto giusto” al “momento giusto”. Fino a quando non si produrrà qualcosa che assomigli al 1848 – pur se la storia non si ripete nelle medesime forme, lo sappiamo a memoria – è vano pretendere di cogliere l’effettiva strutturazione in verticale della società attuale, e la linea divisoria tra dominanti e dominati (in antagonismo secondo nuove forme) che si andrà affermando. Per il momento – poiché si pone il problema di una teoria di fase che nel contempo sia anche una teoria di transizione – mi limito al lavoro che sto compiendo da alcuni anni (come minimo dal 1996).
Mi dispiace rilevarlo: in sostanziale solitudine (a parte Costanzo Preve, che “agisce” sul piano prettamente filosofico), ho proposto di ri-partire da Marx, senza però semplicemente ri-leggerlo (né farne ulteriori letture “sintomali”, ormai fuori tempo massimo); ho invece sostenuto la necessità di uscire dal marxismo, pur prendendo le mosse da esso. Mi sono opposto, per quel che potevo, alla patetica deriva della sedicente Marx renaissance che, del “povero” rivoluzionario, tenta di fare un’icona inoffensiva, buona per la discussione di tesi di laurea (o di dottorato) o comunque di filologia marxologica. Nel migliore (o peggiore?) dei casi si rende il “nostro” o fondatore di una dottrina dogmatica (con i suoi “misteri gaudiosi”) o costruttore di una visione detta scientifica del mondo (talvolta dell’intero Cosmo) o anche semplicemente dell’economia (o dell’intera società) capitalistica; o infine un filosofo della reificazione e alienazione umana.
Una vera “mostra dell’antiquariato”; con la quale, per quanto mi concerne, ritengo inutile ogni e qualsiasi ulteriore interlocuzione. Lo ripeto: Marx ha svelato la diseguaglianza nell’ambito produttivo (implicante una nuova forma di estrazione del pluslavoro, processo tipico di ogni società storicamente esistita da millenni) mascherata dall’ eguaglianza esistente nel mondo degli scambi mercantili; un’eguaglianza che comunque implica la liberazione degli individui da rapporti di schiavitù o servaggio, rendendoli così tutti venditori di merci. Solo che la maggioranza di questi non ha altra merce da vendere se non la propria capacità lavorativa; essa torna quindi, in altra guisa, a doversi sottomettere, nei fatti, a chi ha il potere di controllo dei mezzi e delle organizzazioni produttive. Siamo debitori verso Marx di questo disvelamento, del suo puntuale attacco all’ipocrisia capitalistica della libertà e dell’eguaglianza puramente formali.
Egli è però caduto in pieno nell’ideologia del predominio della razionalità strumentale (del minimo mezzo o del massimo risultato) nella società capitalistica. Questo “svarione” (che si coglie con il solito “senno di poi”, ma in ben pochi intendono oggi coglierlo!) è innanzitutto responsabile
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della convinzione che tale “ultima” (Marx presumeva che fosse l’ultima; è fuori di ogni dubbio!) formazione sociale divisa in classi dominanti e dominate, fra loro in netto antagonismo, preparasse le condizioni (materiali e sociali) della futura trasformazione in direzione del comunismo; una società che avrebbe dovuto conservare la razionalità del minimax, come mezzo di sviluppo impetuoso delle forze produttive per giungere al famoso “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Inoltre, se ci si pensa un po’, ci si rende conto che simile “ideologia” è quella che ha precipitato il marxismo, da una parte, nell’economicismo (con l’enfasi posta sui processi economici in quanto predominanti su tutti gli altri; per cui l’economia avrebbe dettato le sue leggi ad ogni altra sfera sociale) e, dall’altra, nella sua speculare antitesi con tutte le chiacchiere sull’alienazione e la reificazione, sulla riduzione dell’uomo a merce (quasi ridiventasse schiavo) e altre futilità del genere.
5. Il disvelamento, ormai indispensabile, dell’ideologia che predica la predominanza della razionalità del minimo mezzo (o massimo risultato) implica la comprensione che quest’ultima è invece puramente strumentale (come ben sostenne Weber), ed è dunque subordinata all’azione strategica, alle sue finalità di conflitto per conseguire una supremazia. Questo conflitto è politico in qualsiasi sfera sociale (economica, politica, ideologico-culturale) si esprima, pur se viene svolto con modalità particolari (e con diverse “ampiezze d’orizzonte”) nelle differenti sfere. Non è sempre predominante quella economica (che si tratti della produttiva o della finanziaria), cioè gli agenti strategici (imprenditori) che confliggono in essa; la situazione è più complessa e aperta a molte soluzioni in congiunture diverse. Inoltre, non c’è – in nessun ambito della società – la tendenziale formazione di un unico centro di comando, perché la lotta per il predominio contraddice sempre, e con forza preponderante, ogni forma di centralizzazione definitiva, che non ha quindi alcuna possibilità di realizzarsi.
E’ dalla fine dell’ottocento che i marxisti sono ossessionati dalla centralizzazione dei capitali; perfino oggi, questi “attardati” sono affascinati dai nuovi processi di centralizzazione, che ancora una volta sono l’apparenza (ma reale, esattamente come l’ eguaglianza nel “regno dello scambio” criticata da Marx, che non negava minimamente la sua sussistenza; solo appunto limitata a quel “regno”). La centralizzazione è la forma dell’alleanza, dell’unione, che sempre esiste in ogni congiuntura di acutizzazione dello scontro per la supremazia. Pensare alla lotta di “ognuno contro tutti” è un’altra apparenza reale, un’altra “distorsione ideologica”. L’aspetto dominante è l’alleanza (o l’unione, anche ottenuta con subordinazione di uno più debole ad uno più forte) in vista dello scontro; e quanto più acuto si fa quest’ultimo, tanto più crescono le alleanze (o la forma di subordinazione appena considerata), che appaiono, in campo economico (produttivo o finanziario), come fusione, incorporazione, ecc. di imprese, cioè in definitiva come centralizzazione (monopolistica) dei capitali.
La centralizzazione dei capitali non è però l’unica forma delle strategie di lotta attuate dagli agenti dominanti, strategie implicanti l’alleanza che è il mezzo precipuo usato nella lotta in questione. Conflitto, e alleanze in quanto mezzo di conflitto, sono all’ordine del giorno anche nelle sfere politica e ideologico-culturale della società; e si ampliano al di là della struttura interna da cui è caratterizzata ogni formazione particolare, poiché riguardano, con effetti ancora più rilevanti, queste varie formazioni nell’ambito di quella mondiale, dove si combatte per assumere una preminenza globale, complessiva. Mai completamente, esaustivamente, raggiunta, pur se esistono epoche monocentriche – in cui si ha la relativa preminenza di una formazione particolare; ad es. l’Inghilterra fin dopo la metà ottocento, e gli Stati Uniti in seguito alla seconda guerra mondiale e poi al crollo del “socialismo reale”, preminenza tuttora non nettamente intaccata – ed epoche policentriche, in cui si scatena lo scontro tra potenze per una nuova supremazia. Secondo le ipotesi da me fatte anche in questo libro, ci si sta appunto avviando verso il policentrismo, non però per il momento realizzatosi.
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In definitiva, il conflitto tra agenti (strateghi) dominanti capitalistici, avente come scopo la preminenza, investe ogni ambito sociale; non c’è più posto per il banale economicismo, ma nemmeno per il semplice rovesciamento di quest’ultimo in altrettanto banale predominio degli apparati politici o ideologico-culturali. Non affronto qui il tema, che si trova esposto anche nel presente testo e, in genere, in tutti quelli che vado elaborando da anni. Ricordo solo che il problema dell’articolazione delle varie sfere sociali – cioè dei gruppi di agenti strategici dominanti in esse attivi – va risolto tenendo conto delle epoche mono o policentriche (e delle fasi di passaggio dalle une alle altre); nonché della strutturazione sociale interna delle diverse formazioni particolari nelle epoche in oggetto, strutturazione anche legata alla funzione che queste diverse formazioni svolgono nell’ambito della configurazione assunta dalla formazione mondiale in specifiche congiunture delle suddette epoche.
6. Questo libro è appunto retto dalla concezione che fa del conflitto tra agenti strategici (i funzionari del capitale) per la preminenza l’aspetto centrale e decisivo – “in ultima istanza”, come si era usi dire un tempo – del processo che va strutturando i rapporti della formazione capitalistica (avanzata) nella nostra epoca; anzi, forse già dalla cosiddetta epoca dell’imperialismo. Non traggo qui le conseguenze di tale impostazione, che sono illustrate nel testo. Ribadisco solo, una volta di più, che si tratta della proposta di una teoria di fase, la cui utilità “si prova” anche nel campo delle possibili politiche (considerate nei loro aspetti più generali) da attuare in un’epoca di prevista accentuazione policentrica del confronto-scontro tra più formazioni particolari in via di diventare potenze. Per questo motivo, il libro prende l’avvio dalle radicali critiche di List alla teoria ricardiana del commercio internazionale, quest’ultima essendo costituita da un insieme di tesi prevalentemente economiche, che sfociava in proposte politiche di appoggio (“scientifico-ideologico”; e non sembri un bisticcio di termini) alla predominanza centrale inglese. Non si tratta evidentemente di riproporre oggi, al seguito dell’economista tedesco, politiche doganali protezionistiche in funzione anti-Usa (la nation prédominante odierna), ma certamente di contrastare l’ideologia della globalizzazione (sostenuta anche da finti “estremisti” di sinistra), che è la nuova mistificazione dei sostenitori della centralità statunitense.
Questo libro è contro la globalizzazione perché è appunto contro questa centralità preminente; mentre assume una posizione decisamente favorevole ad accelerare l’avvento di una nuova fase policentrica. Anzi – poiché tale processo è già in fase di avvio per merito primario di Russia, Cina e India, alla faccia di tutte le falsità predicate circa la fine delle funzioni degli Stati nazionali – ci si spende (pur se in campo teorico) affinché in alcuni paesi europei, fra cui questa “povera” Italia oggi alla retroguardia in quanto mera pedina dei giochi geopolitici americani, diventino egemoni forze capaci di battersi per una autonoma politica policentrica. Non si crei l’illusione che quest’ultima possa affermarsi nell’intera Unione Europea, perché ci si farebbe promotori di una nuova mistificazione ideologica; però dovrebbe divenire l’orientamento politico prevalente, in ambito economico e internazionale, di almeno alcuni paesi di questo continente oggi allo sbando e succube degli Usa.
Essendo quelli proposti nel libro – a seguito di elaborazioni che hanno ormai una storia più che decennale, un cui frutto è già stato pubblicato dalla Manifestolibri (Gli strateghi del capitale) – i “mattoni” per la costruzione di una teoria di fase, la si smetta di obiettare che manca il grande confronto-scontro tra dominanti e dominati. Io agisco – nell’ambito del pensiero e della lotta che in questo si svolge tra strategie teoriche differenti – in un’area di capitalismo avanzato, in una formazione particolare fra quelle denominate società dei funzionari (strateghi) del capitale. In quest’area, e in quella costituita dalle formazioni particolari in ascesa quali nuove potenze (ad est), si nota con una certa chiarezza l’avvicinamento ad una situazione di sempre più marcato policentrismo, di scontro geopolitico. E’ invece ancora abbastanza confusa la strutturazione dei rapporti sociali all’interno delle diverse formazioni particolari in oggetto.
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La vecchia ideologia del conflitto capitale/lavoro (salariato, cioè dipendente) – che si presumeva antagonistico e potenzialmente rivoluzionario – funziona sempre peggio; tutti quelli che ancora l’abbracciano continuano a dividersi e spezzettarsi senza sosta, a litigare (spesso solo sui “simboli” del passato) con sempre maggiore acrimonia; troppo spesso, l’uno affibbia all’altro l’epiteto di traditore, che talvolta è “fenomenicamente” giustificato ma non spiega nulla di sostanziale. E’ ora di cambiare strada; non però diventando “idealisti assoluti”, non fantasticando sulla possibilità “soggettiva” di superare l’immaturità della nuova strutturazione sociale in gestazione. Siamo grosso modo (mi si passi questo “civettare” con il passato) al 1830; il ’48 è ancora piuttosto lontano. Continuiamo a seguire il processo di maturazione, ma intanto “radiografiamo” l’ “embrione” nelle “posizioni” che andrà assumendo nella sua evoluzione entro il suo proprio “grembo”: rappresentato dalle formazioni particolari della società dei funzionari strategici del capitale. Basta con le ripetizioni scolastiche del vecchio marxismo. Basta però anche con le invenzioni (pure ideologie di consolazione) che non fanno avanzare di un solo passo.
E adesso, chi ne ha voglia legga questo libro.
Marzo 2008
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