GLI ECHI DELL'IMPERIALISMO (di G. Gabellini)

E' prassi comunemente accettata quella di inquadrare l'arco temporale che va dalla seconda metà del Ventesimo Secolo all'inizio della Prima Guerra Mondiale come "Età dell'imperialismo"; definizione che rispecchia assai fedelmente l'atteggiamento tenuto da tutte le principali potenze mondiali dell'epoca.

Allora, mentre Italia, Germania, Belgio, Olanda e Portogallo insinuavano massicciamente la propria presenza solo ed esclusivamente all'interno del continente africano, le più duttili e ambiziose Francia e Gran Bretagna estendevano le loro aree di influenza anche verso regioni remote come l'Asia sud – orientale e l'Oceania; mentre gli Stati Uniti – in aperta contraddizione con i principi stabiliti dai padri fondatori – invadevano Filippine, Messico e Cuba, il Giappone rifilava una sonora batosta all'ostile Russia zarista, cui contendeva la Manciuria, e otteneva il controllo della Corea. Ma nel Settecento le cose erano forse andate diversamente? Nel 1746 i francesi avevano issato la propria bandiera su Madras, nel 1757 le armate inglesi di Watson e Clive erano entrate trionfanti a Calcutta, nel 1796 gli olandesi avevano occupato Ceylon. Non esisteva base portuale o scalo commerciale asiatico che non fosse stato posto sotto il controllo delle nazioni europee. L'Ottocento non vide, dunque, null'altro che il rafforzamento, da parte delle potenze imperiali, delle proprie posizioni ottenute nel secolo precedente. Nel momento in cui la Russia spediva i propri Cosacchi verso i ricchi territori del Caucaso e dell'Iran, la Gran Bretagna puntellava la propria presenza in India e ridimensionava gli aneliti indipendentisti dei Boxers cinesi, l'Olanda reprimeva nel sangue le insurrezioni indonesiane, la Francia si appropriava dell'Algeria e il Portogallo si aggiudicava il predominio sulle aree minerarie dell'Angola. Il vero mutamento avvenuto con la cosiddetta "Età dell'imperialismo" fu il sorpasso della politica propugnata da Otto Von Bismarck, fondata sul mantenimento di un saldo equilibrio di forze in chiave decisamente antifrancese (si pensi alle amputazioni territoriali imposte dal Trattato di Francoforte), ad opera dell'ambiziosissimo Kaiser Guglielmo Secondo, che intendeva affermare l'indiscutibile predominio tedesco su tutte le altre potenze. Quella sorta di fragile equilibrio coatto promosso da Bismarck, che aveva portato le potenze europee a sanare in sede diplomatica eventuali contenziosi, lasciò piuttosto repentinamente il posto ad un brutale scontro concorrenziale tra imperi, impegnati a contendersi reciprocamente il predominio sul resto del mondo. Ciò si verificò, ad esempio, in Siam (l'attuale Thailandia) nel 1893, dove Francia e Gran Bretagna si guardarono in cagnesco, in Sudan, a Fashoda, dove le armate di "Sua Maestà" interruppero senza troppi fronzoli la marcia delle truppe francesi che stavano risalendo il Nilo, in Camerun, dove a vedersela con la Gran Bretagna fu il neonato Impero Tedesco. Anche la spedizione inglese contro i boeri stanziati in quelle due aree – Transvaal e Orange – corrispondenti grosso modo all'attuale Sud Africa si iscrive a pieno titolo nel novero degli scontri imperialistici, in cui il successo britannico garantì all'esercito di "Sua Maestà" la possibilità di conquistare le ingenti risorse minerarie presenti nell'area e di aggiudicarsi preziose posizioni di vantaggio rispetto all'agguerrito concorrente tedesco che già da tempo aveva messo gli occhi sulla regione. Tuttavia la cosiddetta "Età dell'imperialismo" non vide solo occupazioni territoriali a fini di sfruttamento delle risorse e relativi regolamenti di conti tra potenze, ma significò anche l'installazione di numerose compagini di emigranti europei nei territori colonizzati. In paesi come Kenya, Libia, Algeria, Rhodesia e soprattutto Sud Africa nutrite schiere di commercianti, artigiani, industriali in cerca di fortuna piazzarono le proprie imprese nelle colonie con la prospettiva di mettervi definitivamente le radici. Dai loro ex connazionali europei, questi nuovi coloni erano guardati con disprezzo, e considerati come reietti incapaci di portare avanti le proprie attività in madrepatria, ma nelle terre in cui si erano da poco insediati essi la facevano da padroni, tanto che ben presto cominciarono a considerarsi africani a tutti gli effetti. Per questo motivo è stata proprio battezzata con il nome di "afrikaans" la lingua parlata dai coloni olandesi che avevano iniziato a stanziarsi lungo le terre contigue al Capo di Buona Speranza. La crisi del colonialismo e la speculare celebrazione dell'inedita ideologia decolonizzatrice mise improvvisamente in scacco le prerogative di questi "padroni", che temevano di esser travolti dalla straripante volontà di riscatto delle popolazioni indigene. In alcuni casi, la guerra risultò un fattore cruciale nella risoluzione di questa spinosa questione. Una volta richiamate in patria le guarnigioni di stanza nelle colonie africane, anche i residenti italiani di Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia tolsero, seppur con maggiore gradualità, il disturbo. Ma in altre colonie le cose andarono diversamente. In Algeria l'elevato numero di residenti francesi spinse la madrepatria ad optare per una soluzione anacronistica, ovvero quella di rifiutare la decolonizzazione laddove tutte le altre potenze imperiali avevano rimosso i propri picchetti dalle colonie. Nel 1945 ebbe luogo una prima insurrezione dei nazionalisti algerini e nel 1954 una seconda, durante la quale si verificarono numerosi attentati e svariate azioni di guerriglia. L'opinione pubblica francese si spaccò a metà, tra quanti sostenevano la necessità di mantenere una linea dura contro i rivoltosi del Fronte Nazionale Algerino e quanti consideravano invece maturi i tempi per riconoscere la legittimità delle rivendicazioni algerine e concedere l'indipendenza alla colonia. L'intensità dello scontro fu tale da seppellire la Quarta Repubblica sotto la valanga di contraddizioni e divisioni che covavano in seno alla società francese, che si vide costretta a richiamare un uomo di stato del calibro, dell'autorevolezza, del carisma e dello spessore di Charles De Gaulle per recidere il nodo gordiano della questione algerina. Costui prese atto che la Francia si stava letteralmente dissanguando per portare avanti una logorante battaglia di retrovia contro i mulini a vento che stava risultando in tutto e per tutto controproducente in relazione ai propri interessi, e con un colpo di spugna concesse l'indipendenza all'Algeria. In pochi mesi quasi tutti i francesi residenti nello stato nordafricano intrapresero un controesodo verso la madrepatria. E senza essere mai realmente riassorbiti, a causa del disprezzo nei loro confronti ostentato dai propri "connazionali" e in virtù della loro condizione di "estranei in patria"; uno sradicamento affine, sotto diversi aspetti, a quello di cui furono vittime le popolazioni stanziate nei Sudeti costrette ad emigrare una volta riconfigurati i confini nazionali tedeschi all'indomani della sconfitta ottenuta nella Seconda Guerra Mondiale. Nelle aree controllate dai britannici i coloni poterono contare sul supporto dei governi che si successero a Londra fino alla crisi di Suez, vicenda che ridusse in polvere i sogni imperiali inglesi. Da quel momento in poi l'influenza di Londra nelle vicende africane diminuì a dismisura, e portò i rivoltosi kenyoti Mau – Mau a insorgere contro la casa – madre, che in breve si vide costr
etta a concedere loro, anche in virtù della scarsa presenza di coloni europei, l'indipendenza (1963). Un discorso diverso va invece formulato per quanto riguarda la Rhodesia, colonia britannica che contava ben 250.000 cittadini di origini europee assai restii ad accettare il repentino processo di decolonizzazione avviato delle vecchie potenze imperiali. Il suo leader, il bianco nazionalista Ian Smith, decise di gettare il guanto di sfida ad Harold Wilson, primo ministro inglese, dichiarando unilateralmente l'indipendenza della Rhodesia nel maggio del 1964. Wilson si oppose e decise di risolvere la questione in sede ONU. Smith non si lasciò intimorire e si decise ad alzare il tiro, proclamando la Repubblica. L'ONU riconobbe le ragioni inglesi e dispose un embargo alla Rhodesia che la flotta britannica si prese la briga di garantire. Isolata in sede internazionale e minacciata dallo scoppiare di un'imminente guerra civile, la Rhodesia si vide messa alle strette. Per preservare i privilegi dei coloni europei Smith andò progressivamente irrigidendo le proprie posizioni, fino a dichiarare uno stato di "apartheid" affine a quello proclamato dal governo nazionalista sudafricano all'indomani delle elezioni del 1948; si trattò di un clamoroso e altrettanto raro esempio di suicidio politico. Un paese come la Rhodesia, la cui economia era imperniata sull'agricoltura e sull'estrazione delle ingenti risorse minerarie presenti nel suo sottosuolo, non poteva resistere a lungo in stato di embargo, costretta, inoltre, a devolvere buona parte del proprio bilancio per preservarsi dalla guerriglia, che comunque non tardò a verificarsi in tutta la sua efferatezza. Stritolato da tali circostanze e dalle reiterate pressioni britanniche ed internazionali, Smith capitolò e la Rhodesia divenne, nel 1988, Zimbabwe. Pochi anni dopo, il primo presidente nero Robert Mugabe diede il via a numerose riforme finalizzate all'accentramento dei poteri e alla formazione di un sistema politico basato su un partito unico. La brutale "apartheid" e i dissidi intestini alla comunità nera avevano sfibrato un paese vittima di colossali e anacronistiche inadeguatezze, proprie di una comunità bianca razzista e in tutto e per tutto avvinghiata ai propri privilegi, che non seppe leggere per tempo il flusso degli eventi, e di una comunità nera eternamente divisa da lotte intestine tra tribù interessate ognuna a imporre il proprio predominio sulle altre. Una storia simile ma molto più radicale si era verificata nel vicino Sud Africa, dove il regolamento di conti tra le varie etnie avvenne con modalità ben più sanguinose. In sostanza, il buon esito della spedizione contro i Boeri aveva posto la Gran Bretagna nelle condizioni di predisporre una unificazione dei territori di Transvaal e Orange sotto la neonata "Unione Sudafricana" (facente parte del "Commonwealth"), amalgamando i coloni anglosassoni con quelli olandesi. Tuttavia l'identità di tali coloni si era formata attorno alle tradizioni culturali e religiose dei protestanti olandesi e cementata attraverso le numerose guerre intraprese dopo il loro arrivo; prima contro le popolazioni indigene, poi contro le armate inglesi durate la Guerra dei Boeri poi contro le colonie tedesche stanziate a nord. Si trattava di una nazione composta da una nutrita minoranza bianca (più di due milioni e mezzo a fronte di una popolazione totale di circa tredici milioni, al 1951) di nazionalisti che avevano speso anni ed anni sotto le armi, che si sentivano "padri della patria" e che di conseguenza non accettavano di dividere il potere con la popolazione nera. Scelsero la via più facile e immediata, ovvero quella della separazione forzata, della vera, famigerata "apartheid" progettata sulla falsariga del modello imperante nelle nazioni meridionali degli Stati Uniti fino agli anni Sessanta. Se le scelte politiche fatte dal leader nazionalista rhodesiano Ian Smith erano sembrate immediatamente anacronistiche, quelle dei bianchi sudafricani parvero autolesioniste, poiché operate nel momento in cui l'ideologia decolonizzatrice stava raggiungendo la sua massima popolarità, che vedeva gli Stati Uniti iniziare a tendere, seppur molto timidamente, la mano ai neri e la Gran Bretagna ripiegare la bandiera "civilizzatrice" che aveva sventolato per ammantare con una coltre di nobiltà le proprie imprese imperiali. Niente da fare, gli ostinati bianchi sudafricani fecero orecchie da mercante di fronte ai continui richiami internazionali e tirarono dritti per la propria strada, disinteressati delle polarizzazioni estremistiche che una politica simile avrebbe inevitabilmente fomentato in seno alla società sudafricana. Terrorismo e repressione tennero banco per numerosi anni a seguire, specchio del crescente consenso che le fazioni oltranziste erano riuscite ad ottenere a causa di questa sconsiderata linea politica. Ci volle la lungimiranza di un brillante avvocato del Transvaal perché la miope comunità bianca sudafricana si accorgesse della nudità del re; che si accorgesse, cioè, del colossale discredito internazione che i governi di Pretoria erano riusciti a tirarsi addosso perseverando con quella "apartheid" propugnata con inaudita ostinazione per decenni e del fatto che tirando dritti con una politica incentrata sulla "segregazione" l'intero Sud Africa sarebbe prima o poi annegato in un bagno di sangue. Tale avvocato si chiamava Frederik Willem De Klerk, e dopo esser riuscito nell'arduo tentativo di aprire gli occhi ai propri compatrioti dispose che il leader rivoluzionario nero Nelson Mandela venisse immediatamente scarcerato. Era il 1990. Per la prima volta un boero ed un indigeno compresero l'urgenza di evitare il vicolo cieco cui li avrebbe inevitabilmente condotti la "apartheid". Gettandosi alle spalle un durissimo passato fatto di becero razzismo e inaudite prevaricazioni, costoro dimostrarono di aver recepito una dura lezione della Storia, che imponeva loro di mettere da parte gli opposti estremismi covati (nel caso di Mandela, più che legittimamente) in gioventù e di prendere atto che, a quel punto, la segregazione si era rivelata una strada suicida ma una vendetta dei neri non avrebbe risolto niente. Per governare il paese occorreva che i bianchi superassero la forma mentis adottata durante la "apartheid" e che i neri si servissero della loro collaborazione. Ma la Storia, ovviamente, non è stata rose e fiori. Il Sud Africa guidato da Mandela è stato un disastro assoluto; un paese caduto nelle mani delle cavallette finanziarie del Fondo Monetario Internazionale, in cui si sono rinfocolati vecchi odi tribali sfociati in numerosi conflitti tra poveri – neri contro neri – che hanno ricacciato gli strati delle popolazioni meno abbienti a livelli se possibile peggiori a quelli relativi all'epoca della "apartheid". Ma non è il solo Sud Africa ad aver imboccato questo oscuro tunnel; il giovane Zimbabwe, nato dalle ceneri della Rhodesia coloniale, versa ancora oggi in condizioni peggiori, mentre un'ampia gamma di nazioni centro africane sono tuttora scosse da ciclici scontri civili intertribali o interetnici. Si potrebbe affermare che i coloni bianchi delle varie Algeria, Rhodesia, Sud Africa, Libia, Etiopia e così via, furono le vittime immolate sul patibolo dell'imperialismo, e piacerebbe poter affermare che funsero da indispensabili agnelli sacrificali, scannati per gettare le basi di una nuova Africa riscattata dopo secoli di sofferenze inenarrabili. Ma la realtà è differente. L'Africa versa oggi nelle medesime acque in cui aveva navigato in epoca immediatamente precoloniale, dilaniata da interminabili guerre e bibliche carestie. Le ipocrite potenze occidentali, dopo aver scorrazzato allegramente per il Continente Nero, si sono abbandonate a un poco credibile
senso di colpa e si sono ritirate di colpo, piantando baracca e burattini e riconsegnando l'Africa ai suoi pittoreschi leaders ammaestrati in tempi sacri come Oxford o Princeton e alle sue amare condizioni precoloniali – spesso aggravate da una scellerata e crudele gestione in cui gli occupanti, come nel caso di Re Leopoldo in Congo, hanno deciso di privilegiare determinate etnie a discapito di altre, gettando benzina sul fuoco degli atavici rancori reciproci che covavano tra le varie tribù – limitandosi a lavare saltuariamente la coscienza con qualche "generosa" donazione a questo o quell'istituto di beneficienza.