GLI IDEOLOGI DEI DOMINANTI SERVONO A POCO
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L’articolo di Mauro è interessante per capire la mentalità degli economisti ideologi dei dominanti, in particolare di quelli liberisti. C’è tra essi gente che osa criticare Marx perché avrebbe dato esclusiva importanza al fattore economico. Ignoranti! Marx scrisse mille volte che il capitalismo, come ogni altra società umana, è una formazione di rapporti sociali, un fascio, una struttura, di questi rapporti. Avrà forse dato eccessiva rilevanza a quelli esistenti nella sfera della produzione (sociale), quindi economica; mettendo in rilievo che, nella formazione capitalistica, si tratta di produzione generale di merci, duplicata quindi dal fenomeno del denaro che dà vita a tutte le varie distorsioni finanziarie, già da Marx illustrate poco dopo metà ottocento mentre gli ideologi al servizio del capitale aspetteranno decenni e decenni prima di accettare l’idea della crisi e, in particolare, della funzione dell’apparato finanziario in essa.
Del resto, Marx non poté completare il piano della sua opera che prevedeva l’analisi delle classi sociali e dello Stato. Il vero limite di Marx, quindi, non è affatto l’economicismo – deviazione di rozzi fintomarxisti successivi – bensì quello di aver pensato il modo di produzione capitalistico in generale, mentre in effetti stava analizzando quello particolare inglese (d’altra parte in pratica l’unico sviluppato nell’epoca in cui visse, studiò e scrisse), le cui caratteristiche pensò fossero quelle generali di ogni sviluppo capitalistico futuro, in estensione al mondo intero.
Ben diverso l’atteggiamento dei liberisti che vedono lo sviluppo del capitalismo, grazie al solo mercato lasciato libero di “fare i suoi giochi”, come del tutto armonico, salvo frizioni e disarmonie occasionali e temporanee; uno sviluppo in cui ogni settore costituisce lo sbocco di ogni altro settore, la crescita di ognuno d’essi incrementa il mercato per tutti gli altri. Insomma, l’azione della ben nota “legge degli sbocchi” di Say, secondo cui l’offerta crea la sua propria domanda. I keynesiani furono indubbiamente più fini e accorti, non uscendo però dall’economicismo poiché quel deus ex machina che è lo Stato, nella sua azione anticrisi, si limita all’erogazione di spesa (“pubblica”) che deve aggiungersi alla carente domanda “privata” (consumi più investimenti). Mentre lo Stato, per un non economicista, ha ben altre funzioni! E i marxisti, da Marx a Lenin a Gramsci, le hanno pensate con maggior realismo rispetto agli economi(ci)sti liberisti e keynesiani.
Sia pure con una certa visione sempre limitata alla sfera economica, fu comunque List a capire – assai meglio di Ricardo – che lo sviluppo, in epoca capitalistica, dipendeva dall’industria; e che l’industria nascente, in paesi rimasti indietro rispetto al paese della prima rivoluzione industriale, era sfavorita (oggi diremmo in termini di innovazioni e di economie di scala: interne ed esterne) rispetto all’Inghilterra. Bisognava imporre dazi doganali, quindi accettare prezzi più alti dei prodotti industriali all’interno del paese per un periodo transitorio; altrimenti non restava altra prospettiva se non quella di lasciarsi invadere dai prodotti inglesi, rinunciando ad uno sviluppo industriale autoctono e dunque anche alla propria indipendenza. Si studi bene il perché della guerra di secessione negli Stati Uniti, dopo decenni di frizione tra i liberoscambisti (esportatori di cotone del sud) e gli industriali del nord che ottennero dallo Stato federale dazi doganali sui prodotti importati. I sudisti temevano ritorsioni dall’estero sul cotone, ma protestavano anche per i più alti prezzi dei beni industriali americani. Se non avesse vinto il Nord (lasciando perdere i “grandi ideali” antischiavisti, la solita mascheratura ipocrita), gli Usa non sarebbero mai diventati quella (super)potenza che ha caratterizzato e condizionato gran parte della storia del novecento (e ancora oggi).
Altro autore chiave è Schumpeter. Sempre con una certa limitazione economicista, ma comunque anni luce avanti rispetto agli armonicisti del “libero mercato”, fu egli, con la sua visione di distruzione creatrice (non assolutamente creazione distruttiva, che alcuni superficiali credono sia la stessa cosa: cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto invece cambia totalmente), a rappresentare un vero avanzamento scientifico. Lo sviluppo non ha nulla di armonico né tanto meno di continuo e progressivo. Nemmeno dipende dallo stimolo della domanda, che è fenomeno derivato, non causa ma effetto. Occorre innovare, soprattutto aprendo nuovi fronti nella produzione più ancora che scoprendo nuove tecnologie da impiegate nei settori produttivi della precedente rivoluzione industriale.
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Qui si constata l’effetto, al livello del pensiero teorico, della seconda rivoluzione industriale, che vide la vera fusione tra scienza e tecnica. Non la mera tecnoscienza, come certi sciocchi (alcuni di presunta estrema sinistra, in realtà sicofanti a pieno servizio ideologico dei dominanti) affermano. Quel che conta è l’alternarsi di periodi di “industria normale” (per parafrasare Kuhn) e altri di rottura rivoluzionaria, che è scientifica e produttiva insieme, con apertura di completamente nuove frontiere industriali e inizio di un nuovo periodo di sviluppo (non mera crescita quantitativa, ma trasformazione anche qualitativa).
All’inizio della “distruzione” (ecco perché essa viene prima della creazione mediante innovazione) non si ha tuttavia sviluppo, bensì crisi; comunque difficoltà, almeno stagnazione e incertezza (ancora una volta si vede il riflesso teorico nel pensiero di una realtà di fase: la grande depressione più che ventennale di fine ottocento, epoca di grande trasformazione strutturale del capitalismo!). Non sto qui a discutere come la concezione schumpeteriana, pur per altri versi in linea con il pensiero liberista dominante, abbia messo in crisi i marxisti dogmatici e chiusi in se stessi, che mai hanno capito veramente le innovazioni di prodotto, quindi le grandi rivoluzioni anche scientifiche, cadendo poi preda, nello sconforto della giusta e severa sconfitta subita, delle banali critiche alla scienza e delle elucubrazioni sul “nefasto” dominio della Tecnica. Non più seguaci di Marx, che non ha vissuto la seconda rivoluzione industriale ma ammirava le conquiste del capitalismo innovativo. Il vero marxista è quello che “fuoriesce dal marxismo” (il marxismo degenere di questi fasulli); che è poi quello che, facendomi un onore, simili “sbandati” imputano al sottoscritto.
In ogni caso, la distruzione che dà avvio all’innovazione (quest’avvio è logicamente concomitante alla fase distruttiva) non comporta subito sviluppo e non ha nulla a che vedere con un aumento della domanda (meno che mai di prodotti di consumo). Si accresce la produttività del lavoro (il che comporta solitamente, finché non si ha rilancio dello sviluppo, maggiore disoccupazione) e spariscono vecchi settori. Non mi sembra però, se non ricordo male, che il grande economista austriaco fosse consapevole che il trasferimento di credito (da parte dell’apparato bancario e finanziario) dai vecchi ai nuovi settori innovativi non è un processo liscio, con al massimo alcuni ritardi dovuti ad “imperfezioni del mercato”. Si tratta di un processo legato alla lotta tra strategie politiche di gruppi dominanti; e da qui nascono molte distorsioni con crescita abnorme della finanza, che l’ideologo di tali dominanti interpreta come carenza di etica, ingordigia eccessiva, insomma tendenza alla “truffa”, di cui si ritengono responsabili i soli finanzieri (chissà perché si comportano così in ogni occasione del genere, ripetutasi decine di volte almeno dal 1820 in poi).
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In tutto quanto precede manca una considerazione decisiva, mai fatta dal marxismo (nemmeno da Marx, in ogni caso attento ai rapporti sociali) né tanto meno dagli ideologi dei dominanti, economicisti allo stato puro (anche i keynesiani lo sono, giacché parlare dello Stato in termini di semplice spesa “pubblica”, che sopperisce alle carenze della domanda “privata”, non cambia di una virgola il loro decisivo economicismo).
Non esiste IL CAPITALISMO, bensì un sistema mondiale e dunque spaziale, articolato in diverse formazioni particolari capitalistiche. E, prendendo in considerazione il tempo oltre che lo spazio, vi è trasformazione da una certa formazione capitalistica ad un’altra. Esistono dunque I CAPITALISMI, anche non volendo al momento considerare la possibilità che, pur sussistendo le forme economiche generali dell’impresa e del mercato (sempre eguali? Non credo proprio), si tratti di diverse formazioni sociali successive, comunque divise in dominanti (decisori) e dominati (non decisori). L’errore capitale, e autodistruttivo, del marxismo è stato di teorizzare che, dopo il capitalismo e tramite una transizione caratterizzata dalla lotta del proletariato (o classe operaia, intesa quale lavoratore collettivo cooperativo), si sarebbe formata una società di tipo comunistico, priva cioè del predominio di dati raggruppamenti sociali su altri. Comunque, al momento, propenderei per la successione di differenti CAPITALISMI. Atteniamoci a questo. Non si possono correggere d’un
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colpo tutti i gravi errori commessi: dai marxisti non meno che dagli economi(ci)sti (e sociologi) dei dominanti.
Il periodo di cui parlano solitamente i liberisti, con le loro fisime sull’armonia del mercato, è quello monocentrico, in cui nello spazio del capitalismo mondiale predomina una certa formazione particolare, che normalmente “definisce” anche uno dei CAPITALISMI storicamente esistiti ed esistenti: ad esempio, nella prima metà dell’ottocento, fu centralmente preminente l’Inghilterra (formazione del capitalismo borghese); mentre il “campo occidentale” dopo il 1945 (e l’intero mondo dal 1989-91 fin verso il 2003) su dominato dalla formazione particolare Usa (dei funzionari del capitale). L’armonia è tutt’altro che completa anche in tali fasi di monocentrismo, ma si verificano crisi minori definite “recessioni” e la cosiddetta anarchia mercantile (un ben altro disordine invero, non solo dei mercati) è contenuta. Lo è per due semplici motivi che elenco in ordine di importanza crescente: a) il paese centrale predomina nella ricerca scientifica d’avanguardia (quella detta in modo becero tecnoscienza) e nei settori produttivi che sono ad essa strettamente collegati; b) anche per merito del punto precedente, ma non certo solo per questo, il paese centrale estende la sua sfera di influenza politica (con le dovute propaggini militari e “belliche” in senso ampio: servizi segreti, corruzione di capi politici in altri paesi, finanziamenti ad organizzazioni politiche o sedicenti culturali in questi paesi, opportuna eliminazione di avversari, terrorismo su altri, ricatti, minacce, e via dicendo) a un’area sempre più ampia del mondo.
Solo apparentemente si tratta di situazione armonica e stabile, poiché sussistono squilibri continui, soprattutto in aree più lontane (e diverse per strutture sociali, culturali, ecc.), da dove partono i segnali della lotta (multipolare e poi policentrica), di cui Lenin, intuitivamente, parlò come di “legge dello sviluppo ineguale” dei vari capitalismi (delle diverse formazioni particolari). Quando si entra in un’epoca del genere, l’armonicista liberista, consapevole o meno che sia, diventa strumento ideologico dei dominanti centrali (oggi quelli statunitensi). Ma anche il keynesiano non è molto migliore (talvolta ancor più sottilmente falsificatore). La spesa pubblica, di cui egli è sostenitore, serve solo a sancire la sedicente “divisione internazionale del lavoro” a tutto vantaggio dei predominanti centrali, la cui spesa statale serve a ben altro che alla semplice domanda (“pubblica” in aggiunta a quella “privata” deficitaria); essa è indirizzata al dominio, sempre più pervasivo, di aree mondiali tendenzialmente sempre più vaste mediante le operazioni politiche e “belliche” già sopra accennate.
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Arriviamo allora al dunque del discorso. E’ fasullo il ragionamento del liberista, di cui tratta Mauro Tozzato, il quale si chiede – credo con sincera sorpresa ma con grande ignoranza dei problemi – come si possa pensare alla guerra quale risoluzione di una crisi tipo 1929. Intanto, è ormai assodato anche empiricamente che tale crisi non fu in ogni caso risolta dalla spesa pubblica del New Deal né tanto meno dal “libero mercato” (della forza lavoro, il cui salario sarebbe dovuto diminuire fino al limite della sua bassa produttività marginale, come chiedeva l’esimio prof. Pigou). Il Pil statunitense oscillò in situazione di tendenziale stagnazione (questa fu l’epoca in cui iniziarono ad essere formulate varie teorie stagnazioniste di lungo periodo) fino alla guerra. Bisogna però non farsi ingannare da un fatto del tutto contingente: gli Usa non subirono tutte le immani distruzioni delle altre potenze belligeranti. Non è questo il problema. Se pure gli Usa – per una maggior vicinanza al teatro bellico – avessero subito le forti distruzioni degli altri paesi, senza dubbio il loro Pil ne avrebbe risentito per un certo periodo postbellico. Tuttavia, il compito della guerra – “continuazione della politica con altri mezzi” – è ben diverso: essa deve regolare definitivamente i problemi sorti in un’epoca policentrica.
Quest’ultima nasce dalla non accettazione di un certo numero di potenze di continuare ad essere subordinate ad un centro del sistema mondiale; per cui nemmeno accettano più di sviluppare solo i settori delle passate distruzioni creatrici (rivoluzioni industriali), lasciando alla potenza già centrale
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tutti i settori d’avanguardia (o d’eccellenza). Si accentua soprattutto la contestazione dei tentativi compiuti dal centro allo scopo di espandere e/o intensificare le sue sfere d’influenza. Si manifesta allora, come fenomeno di superficie, la cosiddetta “anarchia mercantile” (che prende inizio dalla sfera finanziaria) con il prodursi di vere crisi e non più recessioni; tuttavia, ancora semplice sintomo (e non aggravantesi d’un colpo solo, quale crisi definitiva come pensano i fintomarxisti) dell’approssimarsi della necessaria “resa dei conti” per la supremazia. Un approssimarsi che nulla ha a che vedere con la nostra vita individuale o di una generazione; si tratta di un’epoca storica di durata non precisabile, spesso molto lunga e con tante giravolte da far magari perdere il senno ai frettolosi.
La seconda guerra mondiale non risolse la crisi del 1929 in senso direttamente economico. Quella crisi fu uno dei segnali (“il terremoto di superficie”) della necessità – per il sistema nel suo complesso, in cui almeno 5-6 potenze, se non più, non riuscivano ormai a convivere perché ognuna tendeva a uscire dall’impasse (non semplicemente economica) a detrimento delle altre – di un definitivo regolamento dei conti, iniziato nel 1939. Ne risultò un bipolarismo zoppo e spurio, che ebbe infine effetti di cristallizzazione storica; il vero risultato, legato alla reale sconfitta di Inghilterra e Francia oltre che della Germania e del Giappone, fu invece l’assetto monocentrico di quel campo che, contro tutte le attese dei comunisti, si dimostrò quello veramente dinamico nel cinquantennio successivo. Se anche gli Usa, magari situati geograficamente in modo meno vantaggioso, avessero subito le distruzioni degli altri paesi, l’esito complessivo non sarebbe stato diverso; al massimo ci sarebbe voluto più tempo da un punto di vista meramente economico (non per quanto riguarda l’evoluzione della potenza).
In conclusione: dire che la crisi del 1929 fu risolta dalla guerra e non dal New Deal è un modo abbreviato per dare degli asini ai presunti scienziati dei dominanti, agli statalisti (della spesa, cioè della mera domanda “pubblica”) non meno che ai liberisti delle “armonie” universali (servi di dominanti centrali che vogliono perpetuare il loro prepotere “pagando” le varie “quinte colonne”, sia politiche che ideologiche, all’interno dei paesi governati dai subdominanti). La crisi è un sintomo – e quanto più grave e reiterata è, e soprattutto se poi diventa stagnazione, tanto più il sintomo indica l’avvicinarsi dell’effettiva bufera – che non sussistono più le presunte “armonie” legate alla “divisione internazionale del lavoro” propugnata dalle varie ideologie del “libero commercio internazionale”, implicanti il predominio di un paese (formazione particolare) nello spazio della formazione mondiale, con anche una specifica articolazione – appunto spaziale – dei vari settori produttivi nati nelle diverse fasi di distruzione creatrice, cioè nell’ambito di successive ondate innovative di prodotto connesse agli sviluppi della scienza nei suoi periodi “non normali”, “rivoluzionari” (nell’accezione kuhniana).
Capito, cari neoliberisti; e anche cari neokeynesiani? Non che i rimasugli di un marxismo chiesastico siano migliori. E “Dio ci salvi” dai più innocui ma anche più infantili di tutti: i nuovi utopisti, i nuovi sognatori dei “tempi in cui Berta filava”. Noi procediamo da tutt’altra parte rispetto agli economicisti e ai semplici sognatori “idealisti” (proprio tutti in buona fede?). Gli assetti e i sommovimenti della politica sono il pane della nostra analisi. Le strutture e forme economiche sono importanti nella nuova epoca storica caratterizzata dal(i) capitalismo(i); non sono tuttavia quelle dominanti come pensano liberisti, keynesiani e fintomarxisti. LA POLITICA AL POSTO DI COMANDO. Non sono certo il primo a sostenerlo, ma continuo a ricordarmelo; e a trattare la politica come luogo del realismo e della fase, non come regno della nullità sognante i “grandi principi” dell’Umanità e dell’Etica.
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