GOVERNO: STALLO POLITICO E STANGATE FISCALI di Osvaldo Pesce
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
I dieci esperti economisti e giuristi scelti da Napolitano come provvisori “negoziatori”, per ammissione estorta allo stesso Valerio Onida (costituzionalista), servono solo a coprire la situazione di stallo politico e istituzionale; devono rimasticare e cucire insieme le proposte dei partiti per riproporle ancora una volta, rappresentano il vecchio, non sono direttamente responsabili della situazione disastrosa in cui ci troviamo ma non sono certo loro a esprimere le nuove esigenze del paese.
Chi si compromette con questi vecchi partiti, PD PdL centristi, è destinato a morire.
Tutta la linea tenuta da Bersani non è volta al rinnovamento, né del partito né del governo o delle istituzioni: riproporre D’Alema o Prodi riporta al passato, e fa affondare il paese. Bersani continua a parlare a titolo personale, si ritiene ancora incaricato della formazione del governo; se ammettesse il fallimento sarebbe finito come figura politica, quindi intende prendere tempo e a ciò gli sono utili le due commissioni create da Napolitano, anche nella polemica interna al suo partito.
In questi giorni Renzi ha fatto dichiarazioni che si scontrano con la linea di Bersani, ma i suoi sostenitori sono funzionari e amministratori, “addetti ai lavori” che proprio per questa ragione non sanno andare in mare aperto e restano ancorati al PD; capiscono che non vogliono un perdente come Bersani ma non osano, non sanno, muoversi individualmente, si devono muovere in blocco, hanno interessi all’interno di un apparato. Se Renzi e il suo gruppo uscissero dal PD, non sarebbero in grado di fare il governo, e lui brucerebbe la propria immagine (ha bisogno di avere con sé tutto il partito o di rifugiarsi nella fronda interna).
Renzi distingue tra il PdL e Berlusconi, non intende trattare con quest’ultimo; ma senza Berlusconi anche il PdL non riesce a muoversi da solo, i tentativi di costruire qualcosa in questo senso sono falliti, i ”colonnelli” hanno perso i contatti con la base vivendo in tutt’altra realtà. Così pure è accaduto a Fini.
L’ipotesi di grande coalizione viene rigettata, a ragione, dal M5S. I cittadini che hanno sostenuto il M5S sicuramente si convincerebbero che una volta in Parlamento “sono tutti uguali”.
Il Movimento, oltre a non avere inevitabilmente esperienza sui meccanismi parlamentari, ancora non riesce ad esprimere soluzioni concrete ed efficaci soprattutto sui problemi del lavoro, sulla difesa degli apparati produttivi e sulle delocalizzazioni, problemi oggi diventati elementi prioritari e decisivi per i popoli italiano e europei, per un reale cambiamento di rotta nella politica economica.
Il M5S ha visto il marcio nei partiti che da anni occupano il Parlamento, ha visto il marcio in Parmalat, in Monte de Paschi, nelle Banche e nella Borsa, ecc. La gran parte della politica elettorale è stata incentrata giustamente contro la casta, i politici compromessi e cialtroni. Non ha però in modo altrettanto chiaro e deciso condannato e criticato i grandi capitali, la Confindustria. A differenza di Occupy Wall Street (in USA) che ha individuato come nemico principale l’1% della popolazione che detiene la maggior parte della ricchezza (e gli strumenti per assoggettare e corrompere i governi), anche la causa principale del soffocamento dei popoli nella crisi economica mondiale, il M5S si è scagliato contro la casta, i Fiorito e i Penati, ma non in modo deciso contro i Marchionne. Il M5S attacca la corruzione, ma non vede che il 10% della popolazione detiene oltre il 50% della ricchezza nazionale, condiziona l’occupazione, il tenore di vita dalla popolazione, le scelte economiche e speculative .
Nel frattempo le cose non stanno cambiando nel paese se non in peggio, con questo governo dimissionario ma non sfiduciato.
Una prova ne è la questione dei pagamenti dovuti dalla pubblica amministrazione alle imprese creditrici: il parlamento li ha votati all’unanimità, Confindustria e associazioni artigiane e commercianti insistono, il governo vara il decreto legge per la prima rata (40 miliardi, in due anni, su 91) entro metà maggio. A maggio scatta però il controllo della Commissione europea per chiudere la procedura di deficit eccessivo contro l’Italia: il deficit di bilancio con quei pagamenti arriva al 2,9%, si rischia di sforare ed essere sanzionati, pena un’altra “manovra correttiva”. I 91 miliardi sono stati calcolati dalla Banca d’Italia (al 31 dicembre 2011) con un’indagine a campione solo sulle aziende con più di 20 addetti, escludendo però quelle che operano – ampiamente – nei servizi sociali e sanitari. Il debito effettivo sarebbe di almeno 120-130 miliardi di euro (CGIA di Mestre), più probabilmente 150 (Grilli, ministro del Tesoro).
I politici vociferano in coro che questi soldi andranno alle imprese, e si emetteranno appositi titoli di stato solo per i crediti acquistati dalle banche, che però sospettiamo saranno ingenti. Secondo il presidente dell’Abi, il decreto “ha riconosciuto, come avevamo sollecitato, l’estrema importanza, necessità ed urgenza del pagamento dei debiti della PA verso le imprese come premessa della ripresa economica e occupazionale”. Diversa la valutazione del presidente di Reteimprese: “Il provvedimento del governo dimostra che non si è ancora compreso che il sistema delle imprese del terziario di mercato, dell’artigianato e dell’impresa diffusa è al collasso” e ignora “i due elementi fondamentali per rispondere alle emergenze delle imprese: immediato sblocco e disponibilità delle risorse e modalità semplificate di accesso”. Ancora una volta si vuole dare questi fondi alle banche e non alle imprese.
Comunque i soldi li metteranno i cittadini. Tra maggio e luglio il fisco preleverà altri 40 miliardi circa: a maggio la prima rata della tassa rifiuti, che l’anno scorso aveva avuto aumenti intorno al 30% (2 miliardi circa); a giugno la prima rata dell’IMU, con possibili addizionali comunali (11,6 miliardi almeno), e per le imprese saldo 2012 e acconto 2013 dell’IRES (8 miliardi) mentre per imprese, artigiani, commercianti e autonomi – oltre che per i comuni cittadini – c’è il saldo e acconto dell’Irpef (14,4 miliardi almeno), con possibile aumento dell’aliquota per le regioni, oltre ai versamenti a INPS e Camere di commercio (circa 4.500 euro i commercianti, più di 7.000 euro gli artigiani, più di 25.000 euro le piccole società); a luglio, oltre la seconda rata della tassa rifiuti (altri 2 miliardi), scatta l’aumento dell’IVA dal 21 al 22% su prodotti di largo consumo, un ulteriore aggravio per il costo della vita (entro fine anno 1 miliardo e 800 milioni), in attesa della stangata di dicembre per la costituenda TARES (sempre se passa il rinvio a fine anno). I soli tributi locali hanno inghiottito il piccolo incremento dei redditi (2,1%), lo dice lo stesso Ministero dell’economia, mentre la pressione fiscale nel 2012 era già al 44%, il livello più alto dal 1990 (e questo lo dice l’Istat). Il rincaro degli affitti, causa l’IMU, delle tasse locali e di acqua e luce, sommato al calo dei consumi, rischia di far chiudere altre 150 mila attività commerciali e artigiane (CGIA di Mestre).
La precarietà economica intanto uccide, ultimo caso quello di Civitanova Marche.
Si prospetta infine un tracollo dello stato sociale: per quanto riguarda la sanità pubblica, nella sola ‘ricca’ Lombardia dal 2011 al 2015 si prevede un taglio di 22 miliardi, un terzo della spesa complessiva.
Occorre costruire un progetto politico urgente per rilanciare l’economia creando posti di lavoro (in particolare per i giovani) e colpendo delocalizzazioni e rendite finanziarie, per ridurre le tasse sul lavoro, le pensioni e le famiglie e ridare fiato ai consumi di base, per tagliare i costi della politica e gli sprechi nella spesa pubblica e rilanciare lo stato sociale, per cambiare le regole europee sul debito degli stati e consentire investimenti nel trasporto pubblico, nell’energia, nella difesa del territorio ecc.
Milano, 7 Aprile 2013