Grande Gioco sul Tetto del Mondo di A. Lattanzio


È imminente, secondo Oscar Ugarteche, economista peruviano presso l’Instituto de Investigaciones Económicas de la UNAM, in Messico, il fallimento del Carlyle Capital Corp, la banca d’investimenti delle famiglie Bush e bin Ladin, che acquista imprese del settore della difesa, delle telecomunicazioni e del trasporto di petrolio. Una sua filiale, il Carlyle Capital Corp. è un fondo di creato il 26 agosto 2006, ad Amsterdam, per acquistare i titoli ipotecari statunitensi approvati dal governo degli Stati Uniti. Ma a metà marzo 2008, la Carlyle Capital è fallita, non potendo coprire pagamenti per 16 miliardi di dollari. Ciò è dovuto, detto ‘in soldoni’, è che il governo federale USA non aveva le risorse finanziarie di budget, necessarie a coprire le ipoteche assicurate. Ciò significa che i fondi garantiti dalle autorità federali statunitensi potranno fallire.
L’ 11 marzo 2008, Washington aveva annunciato un’iniezione di 200 miliardi di dollari verso il mercato creditizio. Operazione di un’ampiezza mai avuta prima d’ora. L’unico effetto di tale operazione che si è registrato, è stata una battuta d’arresto per 24 ore, nella discesa degli indici della borsa valori di New York. Difatti la banca d’investimento Bear Stearns, la più vecchia del mondo ed una di quelle più grandi, è fallita egualmente. Le sue azioni, che valevano 170 dollari l’una, nel luglio del 2006, ora costano 2 dollari ognuna.
La FED, per la prima volta dagli anni ’30, è dovuta intervenire per salvare ka banca: costo dell’operazione, altri 30 miliardi di dollari. La Bear Stearns era il primo investitore in obbligazioni ipotecarie. La FED ha aiutato i creditori a riprendersi i prestiti, ma non può fare nulla verso gli investitori.
Continua l’economista peruviano:
“Tra gennaio e marzo, c’è stato un totale di 386 milioni di azioni trattate ogni giorno con gli investitori che uscivano dal mercato, lasciando solo quelli che non potevano uscire, perché erano sopraesposti o perché non si erano spiegati il crollo. Si anticipa che la borsa perderà il 40% del suo valore di capitalizzazione fino a quando si stabilizzerà, momento che nessuno conosce. Nel frattempo ci sono quelli che sembrano annegare. I fallimenti bancari e la recessione concomitante comporteranno problemi di credito al consumo, che non sono ancora percepiti.”(Fonte: http://ripensaremarx.splinder.com/post/16415335/)
Il mercato statunitense è sempre più in affanno. Wall Street si trova a fronteggiare continue crisi bancario-finanziarie, e quasi tutti gli economisti parlano di un imminente ‘tsunami finanziario’ mondiale, che sconvolgerà soprattutto le piazze borsistiche occidentali, provocando un consequenziale rallentamento delle economie dell’OCSE.
A fronte dell’instabilità bancaria e finanziaria di Wall Street, City e delle piazze annesse, si registra l’espansione delle economie russa, cinese e indiana, e la contemporanea ripresa di parecchie nazioni latinoamericane, come Argentina, Brasile e Venezuela. L’amministrazione Putin, grazie soprattutto all’aumento dei prezzi energetici (petrolio, gas); ma anche dei minerali, metalli e oro, ad esempio, ha potuto costituire un Fondo di Stabilizzazione, che nel marzo 2007 già contava 108 miliardi di dollari, mentre un altro fondo, il Fondo per il Wealfare, veniva costituito dall’amministrazione Putin. Tale fondo, avrebbe a disposizione, indicativamente, 20 miliardi di dollari. La Federazione Russa si è dotata, in tal modo, di uno scudo contro le crisi finanziarie, che come già detto, appaiono imminenti.
La crescita delle economie della Federazione Russa, della Repubblica Popolare Cinese e dell’Unione Indiana, coniugata al controllo statale esercitato sul relativo sistema bancario-monetario, permette, a questi stati-continente, non solo di dotarsi di un sistema difensivo finanziario. Ma permette loro di effettuare massicci investimenti nei settori strategici. Investimenti che inevitabilmente, data l’atmosfera vigente negli affari internazionali, in una massiccia corsa al riarmo (nel caso della Russia) o a dotarsi, ex-novo, di un deterrente strategico sufficientemente persuasivo.
Si assiste, così, al notevole aumento delle spese per la difesa da parte di Beijing e di New Delhi. La
Repubblica Popolare Cinese sta realizzando una nuova classe di sottomarini lanciamissili balistici a
propulsione nucleare (SSBN) Tipo 094, Classe Jin, che saranno dotati di 12/16 pozzi per il lancio di missili strategici balistici sublanciati a testata nucleare multipla (SLBM). E sui tavoli dai progettisti, si lavora sulla nuova classe di SSBN Tipo 096, dei battelli dotati ognuno di 24 pozzi per SLBM. Mentre prosegue la costruzione della nuova base per missioni spaziali, nell’Isola di Hainan; mentre la cosmonautica (o Taikonautica) cinese sta rapidamente colmando decenni di ritardi in tale campo. Difatti, quest’anno dovrebbe essere effettuata, da parte di un taikonauta cinese, la prima passeggiata nello spazio, mentre verrà inviata sulla Luna una seconda sonda cinese.
Neanche l’India riposa sugli allori. Il DRDO, cioè il dipartimento della ricerca scientifica del ministero della difesa indiana, ha effettuato una serie di test riguardanti diversi sistemi d’arma strategici:
– il 6 Dicembre 2007, nel poligono dello stato di Orissa, veniva testato con successo il Il primo sistema anti-missile indiano, intercettando un bersaglio sia ad una quota di eso-atmosferica di 45/50 km, che a una quota endo-atmosferica di 15/20 km.
– Il 26 Febbraio 2008 l’India ha condotto il suo primo test di un missile nucleare navale (SLBM), che K-15 sarà “integrato” su un SSBN che l’India sta costruendo con l’assistenza francese.
– Il 6 Marzo 2008 la marina Indiana testava, con successo, un missile cruise pesante BrahMos-2: Una “missione assai importante, poiché stabilisce la capacità di attacco mare-terra del formidabile sistema d’arma. É stato il 15.mo lancio riuscito successivo del missile BrahMos, sviluppato congiuntamente da India e Russia.”
Si tratta di successi impressionanti. Che si coniugano con una politica di collaborazione tecnico-militare perseguita dai vertici strategici indiani. L’industria indiana stipula contratti di collaborazione con ditte statunitensi, francesi, ucraine, israeliane e soprattutto russe. La partnership militar-tecnologica russo-indiana è centrale nel rapporto tra i due stati-continente. Una relazione, che nonostante alcune non secondarie perturbazioni, prosegue solida, come dimostra l’indizione, in India, dell”Anno della Russia’. Rapporto, che nonostante la stipulazione dell’accordo nucleare con gli Stati Uniti, non muterà orientamento. Anzi, probabilmente si avrà un rafforzamento nel processo d’avvicinamento tra le tre capitali eurasiatiche (Mosca, Beijing e New Delhi).
Infatti l’India ospiterà, quest’anno, la seconda manovra militare congiunta con la Cina, dimostrando che i due vicini continuano a tessere i legami. Mentre sul ‘fronte occidentale’, si registrano ‘perturbazioni ed impasse’: ad esempio il nuovo governo Australiano ha ritirato il contratto per vendere uranio all’India, destinato al programma indiano per l’energia nucleare, che venne firmato dall’ex premier John Howard nell’agosto 2007. Questa decisione è stata presa dal nuovo governo del Primo Ministro Kevin Rudd, del Labor Party australiano. Evidentemente gli USA, tramite la longa manus di Canberra, ha trovato un modo per non fare applicare l’accordo stipulato con New Delhi, l’anno scorso. Le centrali atlantiste rimangono preoccupate per il crescente rafforzamento militare e strategico dei giganti eurasiatici.
Come suscita forti preoccupazioni, presso le cancellerie occidentali, il successo cinese in terra africana. Oramai Beijing ha ‘espugnato’ tutte le piazze più importanti dell’Africa. Ha stretto relazioni economiche con la Nigeria, l’Angola, il Sud Africa, il Congo e l’Etiopia. Nonché strette relazioni militari con il Sudan e lo Zimbabwe. L’attivismo cinese suscita preoccupazione, costernazione e reazioni stizzose presso sia i ministeri che le ONG occidentali, consapevoli della capacità cinese di soddisfare, rapidamente ed efficacemente, le richieste dei paesi africani sia in materia di infrastrutture, che in materia di prestiti finanziari (che la Cina devolve senza contropartite politiche e a tassi e condizioni assai più favorevoli che non le istituzioni occidentali). All’occidente è rimasta l’arma spuntata della propaganda hollywoodiana, della disinformazione marca C(IA)NN e la sovversione.
I dati, qui sopra appena accennati, forniscono il quadro che spiega le ragioni dell’impennarsi dell’attivismo occidentale, in generale, e statunitense, in particolare. Spiega la decisione con cui si è stabilita la nascita del ‘Kosova’, a sprezzo delle norme internazionali. Tale quadro spiega, inoltre, quella serie di esplosioni ‘popolari’, o pseudotali, che hanno interessato negli ultimi giorni paesi come l’Armenia o la Cina. Difatti le rivolte a Erevan e a Lhasa, hanno seguito modalità
standardizzate. Effettuate per altro, da soggetti assai legati agli ambienti strategici occidentali. In Armenia è il caso dell’ex premier Ter Petrosian, che ha provocato scontri e agitazioni contro il legittimo governo armeno. La causa scatenate è stata la sconfitta elettorale subita dal politico filoocidentale. Si tratta di giocare quelle carte già usate nelle elezioni ucraine, e di riprendere il ‘gioco’ partito da Tbilissi, nel tentativo di porre il Caucaso e la zona caspita sotto la tutela delle forze politico-strategiche atlantiste. L’azione perturbatrice di Ter Petrosian si pone a cavallo della proclamazione dell”indipendenza’ del Kossovo e le rivolte ‘spontanee’ in Tibet. E non è un caso che Ter Petrosian, così come il Dalai Lama, dopo aver provocato scontri e rivolte contro le autorità governative, ricerchino l’intervento di organismi internazionali, ma controllati da Washington, che interferiscano negli affari interni della CSI e della Cina Popolare.
Si delinea l’intento, da parte delle forze centrali strategiche atlantiste, e delle loro ‘longae mani’ locali, non tanto di danneggiare il quadro socio-politico degli stati-target; ma piuttosto si deve registrare il tentativo di delegittimare le autorità locali (cinesi, armene o altre), sottoponendole al vaglio di forze esterne, regolarmente occidentali, e statunitensi per la precisione. Quindi, tramite il pretesto di un arbitraggio da parte di rappresentanti internazionali, i centri strategici atlantisti possono condizionare il controllo territoriale delle regioni ed aree di loro interesse, sottraendone la gestione ai legittimi governi.
Deve essere notata la consequenzialità, cronologica e geografica, tra la proclamazione dell’indipendenza kosovara e le esplosioni di violenza a Lhasa. Che idealmente (ma soprattutto strategicamente) si vanno a saldare con le abortite sortite ribellistiche, di parte, dei monaci buddisti in Myanmar, esplose l’anno scorso. Si ha così, una ideale striscia di zone di conflitto, che attraversa quasi per intero il continente eurasiatico. Dal Myanmar al Kosovo.
L”indipendenza’ del Kossovo è convenientemente tutelato dalla base militare dell’US Army, Camp Bondsteel; peraltro situata a pochi chilometri dallo snodo tra i corridoi energetici che vanno da Vargas a Valona e da Salonicco-Istanbul a Vienna, via Belgrado. Washington, giocando il pedone kosovaro, cerca di imporre una pesante tutela sull’indipendenza energetica dell’Europa. Operazione che viene abbondantemente favorita dal sonnambulismo politico-strategico delle capitali europee. Sebbene la Francia persegua una sorta di sua ‘guerra al terrorismo parallela’ e la Germania, tramite il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, cerchi di fare della Russia il suo alleato centrale. “La Russia è e resta un indispensabile partner strategico se vogliamo assicurare la pace in Europa”, ha detto Steinmeier. “Ma non solo noi abbiamo bisogno della Russia – anche la Russia ha bisogno di noi.” La Germania, forse anche per sfuggire alla morsa atlantista, persegue l’obiettivo a medio termine si instaurare una nuova partnership con la Russia. “Accettiamo la proposta del neopresidente Medvedev, di una partnership con la Russia – è nel nostro e nel loro interesse.” Ha detto Steinmeier.
Dall’altra parte dell’arco di crisi artificiose, si pone la questione tibetana, che Washington utilizza allo scopo di creare instabilità tra i giganti, in fase di riavvicinamento, indiano e cinese. Ma gli Stati Uniti non vedrebbero di certo, di cattivo auspicio, l’instaurazione a Lhasa di un governo amico, che permetterebbe al Pentagono e alla CIA di installare proprie base militari e spionistiche sull’altopiano himalayano, potendo così controllare il centro geografico dell’area eurasiatica, nonché di puntare una ‘pistola nucleare’ alle nuche di New Delhi e di Beijing.
Quest’arco di crisi, suscitato da ciò che appaiono essere, comunque, i sussulti della politica dei neoconservatori statunitensi. Una politica aggressiva, ma impantanata, e forse in fase di esaurimento (vedasi il caso oscuro e poco chiaro delle dimissioni dell’Ammiraglio Fallon, già responsabile della principale regione militare statunitense: il CentCom, che si occupa delle operazioni in Medio Oriente ed Asia Centrale). Ma se, invece, dovesse riuscire il piano neoMackinderiano, dei vertici politico-strategici di Washington, Londra e Tel Aviv, di installare dei governi amici (o meglio fantoccio) in Armenia, Tibet, Pakistan e Myanmar, come invece sono già riusciti a fare in Kossovo, allora il perseguimento di un equilibrio internazionale multipolare subirebbe un pesante arresto, favorendo la politica aggressiva ed espansionista di Washington e dei
suoi alleati e, quindi, destabilizzando ed aggravando ulteriormente il quadro politico-militare e diplomatico internazionale.
A livello folkorico, rimane da spiegarsi la bizzarria della simpatia, accesa e
acritica, che i monaci lamaisti tibetani riscuotono presso la maggioranza della sinistra cosiddetta radicale, o alternativa. Una sinistra che si proclama, laicista, anticlericale e islamofoba, ma che appena ha a che fare con l’hollywoodiano circo barhnum che ruota intorno al dalai lama, cede tutte le armi della critica e sposa, incondizionatamente, ciò che appare essere uno strumento propagandistico delle centrali imperialiste atlantiste.
Alessandro Lattanzio, Catania 21/3/2008