Grandi imprese e strategia
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(18 maggio 2008)
Le grandi imprese sono “immagini” ridotte (non poi tanto) degli Stati. Pensare che esse funzionino semplicemente perseguendo l’efficienza economica (la razionalità del minimax; minimo dei mezzi per un dato risultato o massimo risultato con un dato insieme di mezzi) fa parte della micragnosa ideologia dell’economica (non certo dell’effettiva Economia politica). E’ ovvio che, in via subordinata, anche questo principio del minimo mezzo ecc. viene tenuto in conto, ed è importante che lo sia; tuttavia, il problema di fondo è quello strategico del successo, dell’ampliamento delle quote di mercato e delle aree (in senso lato; non solo geografiche bensì anche socio-economiche e politiche) in cui esercitare la propria influenza, investire i propri capitali, ecc. A volte, si utilizzano alleanze con altre imprese, a volte si usa contro di esse l’arma del conflitto, più o meno acuto, teso al loro inglobamento o subordinazione o al relativo ridimensionamento delle loro pretese, ecc.
Quindi, le parti più importanti e decisive delle imprese, anche di quelle dei settori produttivi, non sono le fabbriche o gli uffici di contabilità e di gestione amministrativa (pur necessari, per carità). Ogni impresa ha l’equivalente (in miniatura) dei governi, dell’apparato diplomatico, dei servizi segreti, quello dei contatti con la politica in senso stretto (all’interno e all’estero, e con connessa corruzione, ecc.) e perfino quello latamente militare. Fondamentale è poi il rapporto con gli ambiti culturali, con gruppi di intellettuali pronti ai migliori servigi ideologici. Nell’ambito della grande impresa si sviluppano doppi giochi (o anche tripli, quadrupli, ecc.). Ovviamente, in tutto ciò svolge un ruolo importante l’insieme degli organismi e istituzioni finanziari (sia interni che all’esterno dell’impresa stessa).
La conflittualità interimprenditoriale non deve mai essere confusa con quella degli apparati politici (in primo luogo gli Stati e altri organismi sovranazionali) fra loro. Se uno disegnasse, da una parte, la mappa delle relazioni di conflitto (elemento principale) e di alleanza (aspetto subordinato alle finalità del primo) tra imprese e, dall’altra, quella delle relazioni di conflitto (e di alleanza) tra Stati o altri organismi politici, si accorgerebbe facilmente che le due mappe non si ricoprono esattamente l’una con l’altra. Come semplice esempio, non ci si scordi mai che, allo scoppio della seconda guerra mondiale, sussistevano imprese americo-tedesche; le quali, se non erro, resistettero anche all’intervento statunitense in guerra. Alla fine, comunque, è la politica (con il suo eventuale prolungamento bellico) a recidere l’aggrovigliato nodo gordiano dei conflitti tra sistemi socioeconomici quando si giunge al limite di guardia. E quel che vale con riguardo agli scontri tra gruppi politici o a quelli bellici in senso stretto, vale anche per i conflitti di carattere prevalentemente economico. La politica, in ultima istanza, è quella che decide; se non decide, significa soltanto che certi sistemi socio-economici sono di fatto in stato di almeno parziale subordinazione, e quindi decide la politica del sistema predominante.
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Questo cappello introduttivo serve solo a far comprendere che, in definitiva, la politica di un certo sistema socio-economico (che ancora, piaccia o meno, è un paese con un suo Stato) garantisce allo stesso una certa autonomia qualora coadiuvi e anzi imprima impulso alle potenzialità del suo insieme di grandi imprese in settori di carattere strategico (in genere, quelli delle più recenti ondate innovative). Quando gli economisti cianciano di libero mercato globale, fingendo che la vittoria nel conflitto si conquista tramite l’efficienza economica (il minimax) nel mero confronto tra strutture imprenditoriali, siamo in presenza di ideologi al servizio di gruppi economici che hanno interesse a porsi sotto l’ombrello della politica del sistema-paese preminente. Si tratta spesso di gruppi economici di una passata fase dell’industrializzazione, assistiti da uno Stato (e da apparati finanziari) che si sono ormai accoccolati negli spazi concessi dal suddetto sistema-paese predominante. Il liberismo è la loro ideologia poiché colora di virtù e di presunta efficienza la loro incapacità di svilupparsi nei settori della nuova fase di distruzione creatrice (usando la fraseologia schumpeteriana).
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E’ la vecchia storia del Portogallo che si sarebbe dovuto specializzare – secondo l’ideologia (ammantata di scienza e di “formule”) di Ricardo e di tutti i successivi affinamenti della “teoria del commercio internazionale” – nella produzione di vino (perché aveva in questo settore “vantaggi comparati”) mentre avrebbe dovuto lasciare la produzione di manufatti tessili (i prodotti principali della prima rivoluzione industriale) all’Inghilterra, con ciò decretando che il Portogallo sarebbe dovuto restare sempre in posizione dipendente e che su di esso si sarebbero scaricate eventualmente le difficoltà, le crisi, ecc. dell’economia dominante. La nostra GFeID (grande finanza e industria “de-cotta”, cioè delle passate ondate innovative) è esattamente il Portogallo odierno (ma, in varia guisa, lo è tutta l’Europa), mentre gli Usa sono l’attualizzazione dell’Inghilterra di un tempo. La finanza appare la più forte nel nostro paese, ed è fin troppo a lungo sembrata in condizioni di floridezza e sviluppo, con acquisizioni all’estero (in paesi ancora più dipendenti); ma solo perché è succube, pur se non in modo smaccato e visibile, di quella degli Stati Uniti. Per la verità, abbiamo al vertice del sistema bancario un ex vicepresidente della Goldman Sachs; ma è un italiano, un tecnico capace (e non ho alcun dubbio che lo sia!), quindi appare quale “neutrale” interprete delle “oggettive” esigenze del mercato, che dovrebbe (secondo il cervello degli ideologi) essere “liberamente” affidato alle “leggi” del suo automatico funzionamento in ogni spazio mondiale e in ogni ramo dell’economia.
La nostra finanza (succube di fatto) si lega all’apparato politico (anch’esso dipendente oltre che inetto; ma quest’ultima caratteristica non è necessaria, è una nostra specificità nazionale); e, insieme, consegnano l’intero sistema-paese alla sua funzione di rotella nell’ingranaggio “imperiale” degli Usa. Dobbiamo produrre il nostro “vino”, mentre il “tessile” resta a chi sta in testa alla fila dei paesi capitalistici avanzati. Parlare di imperialismo italiano (o anche europeo) – come fanno i cervelli vuoti di finti marxisti – è la dimostrazione che gli ideologi servi dei dominanti mondiali sono, si, in prevalenza neoliberisti, ma allignano anche nei marginali gruppetti dei cosiddetti “antisistemici”, degli “extraparlamentari”. Tutto fa brodo ai dominanti “imperiali”, e ai (sub)dominanti italo-europei, per turlupinare i dominati coprendo l’intero arco della mistificazione ideologica. E, per non sembrare critico a senso unico, ricordo che, entro quest’arco, ci sono anche gli ambientalisti, i decrescisti, gli antimilitaristi e pacifisti, quelli delle “energie alternative”, ecc. Un caravanserraglio di intellettuali asserviti al progetto di fiaccare ogni spinta autonomista che potesse innescarsi.
L’importante è che il nostro paese non rafforzi le sue potenzialità in tema di ricerca scientifico-tecnica (che gli “antisistemici”, quelli che vogliono tornare a sistemi di vita frugali e parsimoniosi, ecc., dispregiano in quanto “tecnoscienza”); e che quindi non imprima nemmeno troppa spinta a certe grandi imprese (strategiche) di punta. Se queste ultime, malgrado tutto, si irrobustiscono, debbono però essere tenute sotto osservazione e possibilmente intralciate, al fine di rallentare o indirizzare “opportunamente” il loro sviluppo, con politiche di finta liberalizzazione e di crescita della “virtuosa” concorrenza nei loro campi specifici (elettronica per la Finmeccanica, energia per l’Eni e l’Enel, ecc.). Tutto controllato in modo che esse siano subordinate ai disegni della potenza preminente. Per il resto, si deve continuare a produrre “vino”. Cioè si deve lasciare spazio a Fiat, Benetton, Luxottica, Pirelli (cito a caso, tanto si colpisce sempre giusto). Proprio come nell’ 800 la Prussia degli Junker avrebbe dovuto (secondo i ricardiani) continuare a produrre materie prime e granaglie; i proprietari delle piantagioni del sud degli Stati Uniti avrebbero dovuto continuare a produrre (cioè a far produrre dai neri ridotti in schiavitù) cotone da vendere all’industria inglese, ecc.
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Naturalmente, come si può ottenere tutto questo? Ripeto: con l’alleanza tra finanza (legata da mille fili a quella del paese egemone) e politica (altrettanto asservita), che predicano “tutte insieme appassionatamente” – assistite da intellettuali saltimbanchi che, come già detto, coprono l’intero arco della mistificazione ideologica – la globalizzazione, da una parte, l’assistenzialismo statale, dall’altra. Li predicano e li attuano. L’assistenzialismo statale si presenta con l’aspetto dolce dell’aiuto ai bisognosi. Per ogni euro dato a questi ultimi, ce ne sono però cento (o mille?) dati alla
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GFeID (e ai loro scherani politici e ideologici). In non so quanti decenni di concertazione tra organizzazioni verticistiche dei lavoratori e degli imprenditori (che hanno a cuore solo gli interessi dei loro apparati e di alcuni strati superiori che comandano senza alcun controllo dal basso), i salari hanno perso molto potere d’acquisto, il lavoro è precario e flessibile, gli straordinari sono necessari per vivere appena decentemente (e adesso li detassano per farsi vedere ancora più “misericordiosi”). In realtà, la massa dei lavoratori è stata manovrata, con la paura della disoccupazione e del precariato e flessibilità, per assegnare continui sussidi alla Fiat e alle imprese dello stesso tipo; e per aiutare l’apparato finanziario in tutte le sue soperchierie (fingendo adesso di “brontolare” e di volerlo mettere sotto controllo). Tutti soldi sottratti ad una politica industriale e di ricerca scientifico-tecnica d’eccellenza; soldi dati per continuare a produrre “vino” sotto ricatto che altrimenti subentra la crisi e si licenziano i lavoratori (pur usando, come “acciughina” temporanea, la “cassa integrazione”).
Naturalmente, se qualcuno parlasse di sviluppo dei settori della nuova fase innovativa, si farebbe presente – oltre alle belle formule sempre pronte per dimostrare i vantaggi comparati della specializzazione nel “mercato globale” (ovviamente se lasciato “libero”) – che il grosso dell’occupazione è negli altri settori. Si cita il contributo quantitativo (percentuale) fornito dalle diverse branche alla produzione del reddito nazionale e all’occupazione di forza lavoro; anche perché la Fiat ha il suo indotto, la Luxottica pure, la Benetton non se ne parla, ecc. ecc. In realtà, allora, il settore da finanziare sarebbe sempre quello immobiliare che dà il maggior contributo in tal senso (e in ogni paese del mondo, anche in quello predominante, gli Stati Uniti; non è un caso che la crisi finanziaria attuale sia nata proprio dall’immobiliare). Le percentuali contano solo per la foto dell’istante. In una “cineripresa” – fatta di tanti fotogrammi e di possibili dinamiche future – contano i settori detti con buona ragione di punta. La punta è sempre più ristretta del resto del corpo, ma è quella che penetra e avanza; e quando c’è il ghiaccio da rompere, è quella che lo frantuma e lo divide per lasciar passare il corpo centrale.
Basta con le sciocchezze. Avanti con l’appoggio ai settori della nuova ondata innovativa; ma certamente, per il momento, si tratta di prediche, lo so bene, poiché la politica è latente, i gruppi intellettuali sono o ideologi pagati dai grandi gruppi della GFeID o superficiali antimodernisti con la testa rivolta a bucoliche immagini di un’armonia “naturalistica”. Comunque, anche le delucidazioni teoriche e gli smascheramenti ideologici di questi imbonitori indicano delle direttrici politiche. Continuerò presto, considerando in particolare alcune grandi imprese e i conflitti che, magari latenti, sono in essere.
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