Hitler e Putin hanno in comune solo i baffi

Hitler e Putin hanno in comune solo i baffi

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Se il popolo non è d’accordo, sciogliamo il popolo.
Questo, in sostanza, è il messaggio che Galli della Loggia ci consegna nel suo editoriale odierno sul Corriere della Sera (in calce al mio intervento). Lo storico non gradisce che, secondo un recente sondaggio, la maggioranza degli italiani si dichiari favorevole a un disimpegno dall’ormai logoro scenario ucraino, dove l’Italia, trascinata da Stati Uniti e Unione Europea, partecipa di fatto a una guerra contro la Russia per interposta Ucraina.
E così, Galli della Loggia arriva persino a mettere in dubbio quella radicalità democratica tanto sbandierata quanto evanescente, secondo cui in democrazia a decidere è il popolo. Ma non sempre come si suol dire. Perché se il popolo non comprende gli alti disegni dei suoi governanti, allora deve essere corretto, cioè ignorato.
Il paragone storico che lo storico ci propone per educare un popolo che, a suo dire, non vuole imparare dalla Storia (e certo, se gli storici sono loro…) è totalmente sbagliato: la solita analogia tra Putin e Hitler, tra l’Ucraina e la Cecoslovacchia del 1938. Un confronto stiracchiato, fuori contesto, che serve soltanto da pretesto per giustificare il supporto italiano a Kiev in una guerra che non ci appartiene e che per noi dovrebbe avere la stessa importanza della fame in Africa: ci dispiace molto ma in fondo abbiamo ancora la pancia piena per preoccuparcene seriamente. Come diceva Carmelo Bene senza ipocrisia.
Galli della Loggia può forse spacciare questa lettura fantasiosa dalle colonne del Corriere, ma altrove avrebbe ben poca credibilità. Così come la retorica dei “dittatori guerrafondai e omicidi da fermare subito”, a senso unico. Se non si riferisce a Netanyahu, alleato delle “grandi democrazie”, e se non vale per chi bombarda civili a Gaza senza alcuno scrupolo, allora non si capisce perché debba valere per Putin, che almeno ha fatto di tutto per limitare i danni collaterali sin dall’inizio del conflitto.
Se al popolo la guerra non piace, non si tratta di un “sentire elementare” ma piuttosto di un buon senso che manca a certi intellettuali cattedratici che solitamente durante le guerre perdono la voce ma non la pellaccia, contrariamente al popolo mandato a farsi ammazzare. La carne da cannone si chiamava un tempo.
Galli della Loggia ci dice che in questi casi la politica deve “spiegare come stanno realmente le cose”. Benissimo. Allora cominci la politica a spiegare come mai il vero problema per la nostra sovranità non è la Russia, ma la presenza di basi militari americane sul nostro territorio. Basi straniere, beninteso, ma non russe.
La politica, se vuole essere concreta, cominci a risolvere i problemi di casa nostra, poi potrà occuparsi di quelli lontani o persino immaginari.
Se un giorno la Russia dovesse prendersi l’Ucraina, o meglio, riportarla nella sua storica sfera d’influenza, non ci dichiarerà certo guerra, così come non l’ha fatto per settant’anni. L’idea che Putin sia pronto a invadere Roma è più figlia della propaganda che della Storia. Al massimo, potrebbe cercare di ristabilire un’influenza sull’Europa dell’Est, ipotesi peraltro remota. Ma una cosa è certa: né questo, né altro, ci libererà da quelle basi americane che restano saldamente sul nostro suolo, segno tangibile di una sovranità limitata.
Se il dito indica la base americana, solo lo sciocco o il servo guarda la Russia.
Infine, caro storico, se la politica dicesse la verità agli elettori farebbe prima a spararsi nei coglioni. La politica è segretezza che voi chiamate trasparenza sui giornali di merda
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La politica seria dice la verità agli elettori,
non li compiace di Galli della Loggia
Nel 1938 un giovane sociologo che aveva appena fondato quello che ancora oggi è il maggiore istituto francese di sondaggi, l’Ifop, esordì chiedendo ai suoi concittadini se approvassero l’accordo di Monaco appena firmato, il quale – come si sa – dava in pratica il via libera alle mire di Hitler sulla Cecoslovacchia.

Risultato: ben il 57% rispose di approvare l’accordo, il 37% si dichiarò contrario, mentre il 6% non rispose. È abbastanza noto come andò a finire.

Si tratta all’incirca dello stesso risultato fornito da un sondaggio divulgato nei giorni scorsi, il quale ha chiesto agli italiani se approvano il disimpegno del nostro Paese dalla guerra in Ucraina, sia sotto forma d’invio di armi sia in qualsiasi altro modo. Risulta che la grande maggioranza è per il disimpegno.

Ma che cosa indica? Indica che alla gente comune la prospettiva della guerra non piace, che essa preferisce tenersene lontana. Si tratta di un modo di sentire elementare, naturale, probabilmente diffuso sempre e dappertutto.

La domanda, però, è: fino a che punto una qualunque decisione importante – ad esempio sul destino di un Paese – possa fondarsi esclusivamente su un tale modo di sentire? In altre parole, se esso renda di fatto inutile la politica.

Io penso proprio di no. La politica – quella vera, rappresentata da una vera classe dirigente, non da una congrega di dilettanti allo sbaraglio – serve innanzi tutto a spiegare come stanno realmente le cose, quali sono i veri termini di un problema, perché le cose stanno così e chi ne ha la responsabilità.

E infine serve a interrogarsi sui possibili rimedi, a farsi le domande giuste. Far credere, viceversa – come cercano di fare coloro i quali si fanno forti dei sondaggi – che la politica debba consistere principalmente nel fare “quello che pensa la gente”, è solo una pericolosa menzogna, anche se travestita da perfetta ortodossia democratica.

Ciò vale specie quando è questione di politica estera, e ancora di più quando è questione della pace e della guerra.

Ogni persona normale preferisce ovviamente la pace alla guerra. Ma ogni persona normale sa anche che da sempre esistono capi di governo che mirano a espandere il proprio potere a danno di Paesi vicini, che ricorrono all’intimidazione e alle minacce verso coloro che li contrastano, e che alla fine non esitano a far seguire alle minacce atti concreti, anche i più brutali.

Come, per l’appunto, da tre anni sta facendo in Ucraina Vladimir Putin con il suo esercito.

Come ho detto, la politica serve – o dovrebbe servire – a informarci per decidere che cosa conviene fare.

Ad esempio, a informarci chi sia Putin, a informarci circa la continua manipolazione della Costituzione russa che egli ha operato per conservare il potere; ovvero circa le idee reazionarie, imperialiste, revansciste, illiberali e clericali che ama professare, facendone la piattaforma ideologica del suo potere.

Ancora: a informarci circa la cerchia di grandi ladri di Stato di cui si circonda e che da lui dipendono; a darci notizia della menzogna continua a cui ricorre, dell’arma della corruzione con cui compra politici e media stranieri, degli assassinii a ripetizione di chiunque si opponga al suo potere, della catena di feroci aggressioni sterminatrici che conduce da anni contro quei Paesi stranieri che considera far parte della sfera d’influenza russa.

Il principale dovere dei politici non è spingerci alla pace o alla guerra: è informarci su ciò che essi per primi pensano riguardo alle questioni che costituiscono i veri aspetti decisivi a proposito della guerra o della pace.

Solo così, infatti, possiamo decidere con cognizione di causa sulla questione cruciale che – così come nel 1938 a proposito della Cecoslovacchia era:
“Possiamo fidarci di Adolf Hitler?” –
oggi a proposito dell’Ucraina è:
“Possiamo fidarci di Vladimir Putin?”

Il che non vuol dire che se la risposta è “no”, allora dobbiamo unirci agli ucraini nel fare la guerra. Vuol dire che, se la risposta è “no”, allora non possiamo decentemente dissociarci dagli ucraini nel caso in cui anch’essi non si fidino di Putin; non possiamo dissociarci dagli ucraini quando essi – come accade oggi – prima di accettare qualsiasi proposta di pace vogliono vederci chiaro, prendere tutte le misure precauzionali del caso, ottenere tutte le garanzie possibili.

Perché tali garanzie sono necessarie anche a noi.
Infatti, se domani Putin – come ha già fatto tante altre volte – decidesse, dopo un eventuale successo in Ucraina, di mettere in moto un nuovo meccanismo di destabilizzazione, sovversione interna e invasione, ad esempio nei confronti della Moldavia, dell’Estonia o di qualche altro piccolo Paese baltico, che cosa faremmo noi allora?

Di nuovo il “vorrei ma non posso”, il “qui lo dico e qui lo nego”, il “sì, ma, vedremo” di questi mesi?

I dittatori guerrafondai e omicidi vanno fermati il prima possibile:
e chi cerca di farlo, immerso da tre anni nel fango e nel sangue, ha diritto almeno a tutto l’aiuto possibile da chi – come noi – invece sta in poltrona a godersi lo spettacolo in tv.