I BALCANI SENZA MILOSˇEVIC´
I segreti della guerra Nato
Conversazione con Heinz LOQUAI, già capo dei consiglieri militari tedeschi all’Osce di Vienna, a cura e con una presentazione di Tiziana BOARI
NELLA PRIMAVERA DI QUEST’ANNO IL
Bundestag tedesco è stato scosso da una serie di interrogazioni parlamentari riguardanti la legittimità della partecipazione tedesca alla guerra in Kosovo e la probabile inesistenza del cosiddetto «Piano Ferro di Cavallo» —– un fantomatico progetto che un anno prima, a pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti contro la Federazione jugoslava, il ministro della Difesa tedesco Rudolf Scharping aveva presentato alla stampa come prova inconfutabile della pulizia etnica condotta dai serbi ai danni dei kosovaro-albanesi. A sollevare il caso è stata la pubblicazione di un libro, Il conflitto del Kosovo. Percorsi in una guerra evitabile (Der Kosovo Konflikt —– Wege in einen vermeidbaren Krieg, Baden -Baden 2000, Nomos Verlag, inedito in Italia) e il coraggio del suo autore, il generale di brigata Heinz Loquai, da cinque anni consigliere militare presso la rappresentanza tedesca dell’Osce a Vienna. Con dovizia di particolari e retroscena, Loquai ripercorre il periodo dalla fine di novembre 1997 al marzo 1999, analizzando i passi compiuti (o mancati) dalla diplomazia internazionale per risolvere la questione del Kosovo, e lancia un j’accuse» durissimo contro il proprio governo, i protagonisti europei e americani di una guerra che appunto, a suo avviso, «poteva essere evitata». Si tratta di una critica appassionata, motivata dalla profonda convinzione che il futuro dell’Europa passi attraverso un modo nuovo di concepire la risoluzione dei conflitti e che per questo sia necessario dotarsi di mezzi e strutture per la creazione di «corpi di pace».
Da luglio Heinz Loquai è in pensione: l’Osce non gli ha rinnovato l’incarico. È una persona dall’aspetto distinto e giovanile, ha lo sguardo mite e diretto di chi non ha nulla da rimproverarsi. Da tempo cercavo l’occasione per intervistarlo. Mi ha ricevuto in un pomeriggio di ottobre nella sua casa renana. Abbiamo parlato tre ore di fronte ad una tazza di caffè tedesco e qualche biscotto.
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LIMES La guerra in Kosovo era davvero «evitabile»?
LOQUAI Sarebbe stata evitabile se si fossero sfruttate tutte le occasioni che si presentarono in questa direzione. La prima grande occasione fu il periodo immediatamente seguente l’accordo Holbrooke-Milosˇevié, quando i serbi – e questo è documentato —– avevano cominciato a rispettare gli impegni assunti. Dell’accordo Holbrooke-Milosˇevié del 13 ottobre 1998, tra l’altro, non esiste testo scritto. Quello di cui sono in possesso i tedeschi e gli altri partner europei è soltanto un rapporto proveniente dall’ambasciata americana nel proprio paese riguardante tale accordo, ma il testo originale, quello con le firme in calce di Richard Holbrooke e Slobodan Milosˇevié, non esiste o comunque non è stato distribuito. Ma torniamo al Kosovo. I serbi, dicevo, si stavano attenendo agli accordi. Gli albanesi non facevano altrettanto. Quattro o cinque giorni dopo la stipula di questo patto infatti avevano ricominciato ad assaltare stazioni di polizia, avevano sequestrato due corrispondenti della Tanjug, avevano conquistato le postazioni dalle quali i serbi si erano ritirati. I serbi sono rimasti a guardare fino a dicembre, poi hanno protestato duramente presso l’Osce, in occasione del vertice dei ministri degli Esteri, e in seguito la violenza ha ripreso il suo corso. Credo che i paesi della Nato e la comunità internazionale abbiano perduto questa occasione di raggiungere la pace a causa di una evidente politica antiserba.
LIMES I due mesi successivi all’accordo Holbrooke-Milosˇevié sono stati l’unica fase decisiva? Non ci furono in seguito altri momenti cruciali, nei quali la guerra poteva essere fermata o evitata?
LOQUAI No, non fu questo l’unico momento. Si procedeva a fasi alterne. Ad esempio, la cosiddetta «offensiva di Natale», un tentativo di ridurre le prospettive di pace, era anch’essa da ricondurre ad una provocazione degli albanesi che si erano ripresi una postazione strategica, occupando la strada di collegamento con la Serbia nei pressi di Podujevo. Il capo della polizia serba aveva avvertito l’Osce di provvedere che quella strada fosse sbloccata, altrimenti la polizia sarebbe stata costretta ad intervenire. Gli albanesi non hanno lasciato la loro postazione e i serbi sono intervenuti.
Un’altra grande occasione si è presentata quando l’Osce è riuscita ad ottenere il rilascio degli otto soldati jugoslavi sequestrati dall’Uçk. Nel corso di un colloquio con i vertici della missione, il ministro degli Esteri di Belgrado Jovanovié aveva elogiato l’Osce, dicendo che questa in futuro poteva diventare la base per una buona politica. Due giorni dopo accadde l’episodio di Raçak. Dopo Raçak è diventato tutto più difficile, anche se ci furono periodi di relativa calma: durante i negoziati di Rambouillet, i serbi si sono contenuti molto, così come gli albanesi. In alcune città si verificarono singoli attentati, scoppiarono delle bombe, ma durante Rambouillet la situazione era tranquilla.
Rambouillet è stata naturalmente l’occasione, la grande occasione per la pace, ma ritengo che sia stata mancata a causa dell’atteggiamento degli americani, contrari a qualunque compromesso. Gli Usa volevano imporre al 100% le loro posizioni, non erano disposti a fare compromessi né con i serbi né con i loro alleati europei. Gli
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europei in quell’occasione hanno subìto pressioni fortissime. Ho letto i rapporti di Rambouillet. Il dato interessante è che dall’inizio della conferenza gli americani sostenevano la necessità di inviare truppe di pace senza il mandato dell’Onu. Gli Usa non furono mai disposti ad accettare il mandato dell’Onu come presupposto, cosa per la quale invece si batterono strenuamente i massimi livelli istituzionali francesi. A sostenere la necessità di un mandato Onu erano anche gli inglesi, i russi, gli italiani. I tedeschi, in quella fase, avevano assunto una posizione piuttosto ambivalente. I tedeschi sono stati anche i primi a cedere nei confronti degli americani. E gradualmente questa pretesa americana di agire senza mandato Onu è stata accettata dagli altri paesi europei. Gli ultimi ad aderire furono i francesi.
LIMES Perché, secondo lei, il governo tedesco ha ceduto così presto?
LOQUAI È necessario considerare il fatto che dall’ottobre 1998 avevamo un nuovo governo e che questo nuovo governo rosso -verde era considerato –— soprattutto dall’opposizione in molte sue dichiarazioni –— inaffidabile, con molte riserve nei confronti della Nato e piuttosto scettico verso gli americani, per usare un eufemismo… Il governo subiva dunque la pressione di dover smentire questa immagine. Quindi, credendo di essere sottoposto ad una prova di affidabilità, ha ceduto più di altri alle richieste americane. Si è trattato dunque di un adeguamento eccessivo dettato dalla sensazione di trovarsi sotto osservazione. A questo si aggiunga che qualcuno era già predisposto negativamente verso i serbi. Secondo la formula correntemente usata dal ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, «l’aggressivo nazionalismo serbo» era colpevole di tutto. Fischer aveva un atteggiamento antiserbo, bisogna dirlo, e una cosa del genere naturalmente influisce anche sulla politica. Il ministro della Difesa Scharping era chiaramente filoamericano, il cancelliere Schróder aveva assunto una posizione intermedia, senza esporsi troppo. Per esempio su Raçak…
LIMES A proposito di Raçak, prima di trattare le reazioni al cosiddetto «massacro», cosa accadde veramente? Fu un’esecuzione o una messinscena? Lei dispone di informazioni non accessibili a chiunque. Qual è la verità su Raçak?
LOQUAI Nessuno oggi è in grado –— e tanto meno lo sono io —– di dire con precisione cosa accadde. Ma è bene rendersi conto di come Raçak sia stato strumentalizzato. L’ambasciatore William G. Walker, il capo della Kvm (Kosovo verification mission dell’Osce), aveva ricevuto da un gruppo di verificatori dell’Osce che erano a Raçak la seguente comunicazione: abbiamo trovato una quarantina di cadaveri. Per quanto ne so io, la Kvm era sul posto già dal giorno prima e se ne era andata al calare del buio. Fino ad oggi non è stato stabilito cosa sia accaduto, se si sia trattato di un massacro o di una messinscena. Con certezza si sa soltanto che ci furono quaranta morti.
LIMES Quaranta e non quarantacinque come riportato dovunque?
LOQUAI Quaranta perché quaranta sono i cadaveri esaminati dai medici legali. Ne avevano solo quaranta. Cinque cadaveri sono stati rimossi prima. Quel che è sicuro è che ci furono quaranta morti. Fino ad oggi dunque non è certo quello che è accaduto. Ma Walker cosa fa? Si circonda di uno sciame di circa trenta giornalisti, con loro si reca sul posto e dichiara: «Qui è stato compiuto un massacro e la re-
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sponsabilità è delle Forze armate jugoslave». In quel momento, nessuno era in grado di dire chi avesse fatto cosa. In quel momento sarebbe stato necessario chiudere l’accesso al terreno e non lasciare avvicinare nessuno. Ho parlato con qualcuno che era presente. Mi ha raccontato che i giornalisti hanno raccolto i bossoli dei proiettili per portarseli via come ricordo, hanno disposto i cadaveri in modo da poterli riprendere meglio e così via. È questo il vero scandalo. Il giudizio di Walker, scagliato ad hoc, è stato adottato in modo acritico dall’Osce, dalle Nazioni Unite e da tutti i governi, accendendo la miccia della guerra.
LIMES E Fischer come ha reagito?
LOQUAI La Germania aveva allora la presidenza dell’Unione Europea e Fischer ha scritto a Milosˇevié una lettera, nella quale sosteneva che si era trattato di un’esecuzione e che «numerose donne e bambini avevano perso la vita, cosa che non risponde a verità. Ha fatto propria la tesi di Walker, caricandola ulteriormente. E questo è proprio tipico: intendo il fatto che le atrocità compiute dai serbi vengano sempre inflazionate, moltiplicate in eccesso, così che le violazioni della controparte possano essere sorvolate o menzionate solo marginalmente. È una storia che si ripete in continuazione.
LIMES Da quando? Dall’inizio della disintegrazione della Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta? Dall’inizio della guerra?
LOQUAI Sì, è vero. Ho avuto modo di leggere un rapporto su Srebrenica: anche qui i tedeschi sono i campioni dei grandi numeri. Il ministro della Difesa Scharping ha parlato di 30 mila morti. Esistono nel frattempo ricerche dettagliate e attendibili che parlano di qualche migliaio, anche se è necessario tenere in considerazione quello che accadde a Srebrenica prima. Non voglio giustificare l’accaduto, ma continuo a domandarmi: non basta riportare i fatti attendibili, parlare di ciò di cui si è sicuri? È sempre così necessario raddoppiare, triplicare le cifre? È dunque la magia dei grandi numeri che muove spesso i nostri politici nel loro antiserbismo.
LIMES Perché la presidenza dell’Ue e dunque i tedeschi fecero tante pressioni sul capo della équipe di medici legali finlandesi, Helena Ranta, affinché rendesse alla stampa le dichiarazioni che rese il 17 marzo, seppur controvoglia? Fu un tentativo teso a smussare l’univocità del giudizio di Walker o a rafforzarla?
LOQUAI Me lo sono chiesto anche io, perché le dichiarazioni della signora Ranta hanno deluso entrambe le parti. Forse, in fondo, è stata una mossa più abile di quanto si pensi. Credo tuttavia che anche i tedeschi sentissero di dover provvedere affinché qualcosa al riguardo venisse detto, dato che, come presidenti dell’Ue, erano anche i mandanti dell’inchiesta. So che da parte tedesca si sarebbe rimandata volentieri qualunque presa di posizione, ma poi si comprese la necessità di dover dire qualcosa. E ciò che disse la dottoressa Ranta non era così netto. Tanto che lo aveva presentato come un’opinione personale. Secondo il suo rapporto, non c’è dubbio che i morti fossero civili. Ha stabilito inoltre di non potersi permettere alcun giudizio sul fatto se si sia trattato o meno di un massacro perché per questo sarebbero necessari ulteriori esami criminologici. Mi è stato riferito che alla domanda insistente di un giornalista rispose: è ovvio che si tratta di una violazione dei diritti
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umani, di un crimine contro l’umanità, ma anche aggiunse che ogni morto, ogni persona che viene uccisa rappresenta un crimine contro l’umanità. I media riportarono solo la prima parte della risposta, non la seconda. In quella fase delle trattative non stava accadendo più nulla a Parigi, non si muoveva più nulla. Ho l’impressione che i serbi, tra Rambouillet e Parigi, fossero giunti alla conclusione che non si volesse in verità negoziare, ma trovare un pretesto per iniziare la guerra. Allora, secondo me, hanno fatto muro e hanno cominciato a voler discutere del dispiegamento delle truppe a garanzia dell’applicazione dell’accordo, sulla loro tipologia e dimensione; ma su questo punto i paesi Nato non erano più pronti a discutere. Per la Nato era possibile modificare soltanto gli aspetti tecnici relativi al piano già presentato e i serbi non volevano. I serbi vollero sempre discutere l’impianto di base. Qui si scontravano due strategie completamente diverse. Per usare un’immagine: se il ponte che andava costruito sopra l’abisso che separava le due posizioni doveva essere di 400 metri, i serbi erano disposti a costruire fino a 50 metri, mentre la Nato non voleva costruire neanche un metro e così non ci si incontrò.
LIMES La causa principale del fallimento dei negoziati è stata la richiesta di garantire la presenza e l’immunità delle truppe Nato sull’intero territorio jugoslavo come prevista dall’annesso B dell’accordo di Rambouillet? In quale misura, secondo lei, europei e americani hanno tenuto posizioni diverse su questo punto? Molti testimoni, analisti e osservatori hanno indicato che a Parigi gli Stati Uniti esercitarono una certa pressione sulla delegazione albanese perché firmasse l’accordo, ben sapendo che quella serba non avrebbe mai firmato.
LOQUAI Ma certo. Per dare inizio alla guerra era necessaria la firma degli albanesi: senza di essa, gli americani e la Nato non avrebbero avuto una ragione plausibile per iniziare la guerra. Questo fu decisivo. Gli albanesi lo fecero con grande abilità, rimandando la firma dell’accordo fino all’ultimo minuto, fino al momento in cui furono certissimi che i serbi non avrebbero firmato. Se i serbi avessero firmato, allora le truppe sarebbero entrate nel paese e avrebbero molto probabilmente avuto un confronto con l’Uçk. Non si sarebbe arrivati ad un protettorato Nato –— cosa alla quale invece si è arrivati comunque più tardi. La Nato avrebbe collaborato con l’esercito serbo. All’Uçk questo poteva rendere la vita molto più difficile. I kosovari albanesi che miravano all’indipendenza del Kosovo non volevano l’intesa sullo stazionamento delle truppe, volevano gli attacchi aerei della Nato. Che gli albanesi firmassero all’ultimo minuto e i serbi no, era esattamente la situazione alla quale miravano anche gli americani.
LIMES Anche l’annesso B sullo stazionamento delle truppe fu sottoposto ai serbi all’ultimo minuto.
LOQUAI È vero. E questo fa capire quanto fosse superfluo, visto inoltre che oggi i rifornimenti della Kfor non passano per la Jugoslavia, ma arrivano attraverso la Bosnia, l’Albania e la Macedonia. Dunque di questo accordo per lo stazionamento delle truppe sull’intero territorio della Rfj si sarebbe potuto fare a meno; dire che i negoziati non siano falliti per questo, è una bugia. È ovvio che tecnicamente non sono falliti a causa dell’annesso B, visto che questo fu presentato solo alla fine, ma
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non ci si poteva certo aspettare che gli jugoslavi lo avrebbero accettato nella sua essenza: gli jugoslavi sapevano già da tempo a quale destino andavano incontro. Già il 15 febbraio, durante un colloquio, il ministro degli Esteri tedesco aveva detto a quello jugoslavo che le truppe sarebbero state guidate dalla Nato. Gli jugoslavi, già allora, dissero che avrebbero rifiutato nettamente la cosa. Fu tutta una bella recita verso l’esterno, gli jugoslavi lo sapevano, sebbene anche i russi fossero stati informati tardi sull’annesso B.
LIMES Il rappresentante russo alla conferenza di Parigi, Boris Majorski, uno dei garanti dell’accordo, non firmò.
LOQUAI Majorski ha recitato un po’ la parte. Alle domande della stampa sull’aspetto militare dell’applicazione degli accordi rispondeva di non sapere nulla, di non essere informato, di non volerne parlare. Dal suo ministro degli Esteri aveva ricevuto direttive chiare: non partecipare ai colloqui sull’applicazione militare degli accordi. LIMES Così lei afferma che il 15 febbraio ormai era tutto deciso. Ma i serbi si erano dichiarati favorevoli alla piattaforma politica dell’accordo già pochi giorni dopo l’inizio della conferenza di Rambouillet, come riportavano in Kosovo quasi tutti i giornali di lingua albanese.
LOQUAI C’erano i dieci punti politici che servivano da base per le trattative. I serbi furono i primi a volere che questo documento venisse firmato da entrambi, da loro e dagli albanesi. Gli albanesi rifiutarono perché esso prevedeva ovviamente la tutela dell’integrità territoriale jugoslava. Si trattava dei dieci punti elaborati dall’ambasciatore americano Christopher Hill e approvati dal Gruppo di contatto Usa-Russia-Francia-Germania-Italia-Gran Bretagna.
A quel punto si disse che non c’era bisogno di firmare perché entrambe le parti convenute, per il solo fatto di essere presenti, riconoscevano automaticamente i dieci punti. A quel punto la strategia dei serbi fu di dire: vogliamo prima la firma dell’accordo politico e, quando questo sarà concluso, ne discuteremo l’applicazione. La cosa in sé non era del tutto priva di logica. La posizione americana invece chiedeva dall’inizio l’approvazione di un pacchetto unico. In una fase piuttosto avanzata delle trattative fu chiesto da parte italiana se effettivamente non fosse possibile separare i due aspetti. Gli americani minacciarono che, in questo caso, avrebbero abbandonato completamente il campo. Bastò dunque una pesante minaccia della Albright per mettere fine alla questione. Così la parte militare, riguardante l’applicazione degli accordi —– in palese contraddizione strategica —– fu taciuta per molto tempo. Quelle quaranta o cinquanta pagine arrivarono sul tavolo dei negoziati soltanto due o tre giorni prima della fine della conferenza e si pretese pure che venissero firmate. Non furono firmate, ma si era già raggiunto un accordo sui punti politici più sostanziali, tuttavia non nella misura che afferma l’ambasciatore Wolfgang Petritsch (allora rappresentante dell’Ue in Kosovo, oggi alto rappresentante in Bosnia), ovvero il 95%; i princìpi politici insomma erano stati chiariti. Ritengo però che i serbi, quando videro la parte relativa all’applicazione degli accordi e come essa era stata presentata, abbiano avuto la sensazione che si stesse barando. Per questo ritornarono al tavolo delle trattative, a Parigi, con una posizione molto restrittiva.
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LIMES È d’accordo con chi afferma che la Missione di verifica dell’Osce in Kosovo è stata usata dalla Nato per preparare la guerra?
LOQUAI Non sarei così estremo nelle affermazioni. Sono addirittura convinto che la politica americana per un paio di mesi avesse voluto il successo della missione Osce. La missione Osce non è stata dall’inizio una missione atlantica. Che fosse fortemente in mani Nato dipende dal fatto che altri Stati, esterni all’Alleanza, non inviarono rapidamente verificatori adeguati. Che la missione fosse d’impronta fortemente americana nella sua struttura era chiaro da subito, sarebbe bastato guardare come era stato nominato il capo della missione, l’ambasciatore William Walker: ignorando qualunque regola dell’Osce. Per raccontarla più banalmente, Madeleine Albright disse all’allora presidente di turno dell’Osce, il ministro degli Esteri polacco Geremek, che aveva previsto Walker come capo della missione e che per favore lo accettasse come tale. E Geremek lo accettò. Di solito infatti la composizione di una missione come questa, in particolare se così importante, viene discussa prima all’interno di una cerchia ristretta, tra i cosiddetti «Grandi», e poi in una cerchia più ampia. Ma l’ambasciatore Walker fu nominato a capo della missione prima ancora che questa venisse decisa dall’Osce! Era chiaro: gli americani volevano avere la missione nelle loro mani per poi decidere a quali fini utilizzarla. Ho sempre ritenuto che l’ambasciatore Walker fosse in Kosovo la mano lunga del Dipartimento di Stato, visto che portava avanti soprattutto la politica americana e soltanto in seconda linea quella dell’Osce. I posti-chiave nella missione erano sotto il controllo anglo-americano e della Nato. Gli europei rimasti fecero molta fatica a trovare una giusta collocazione.
LIMES Come procedeva lo scambio di informazioni tra la Kvm e la missione di sorvolo aereo della Nato?
LOQUAI Era a senso unico. L’Osce dava informazioni alla Nato, ma la Nato non ne dava all’Osce. A informare i paesi Nato erano le loro rappresentanze diplomatiche a Bruxelles. Ho letto i rapporti dell’Osce, quelli dell’ambasciata tedesca a Belgrado e quelli inviati dalla nostra rappresentanza presso la Nato a Bruxelles: sembravano mondi diversi. Era come se nella Nato si discutesse di un mondo diverso da quello che risultava dai rapporti da Belgrado o da quello che descrivevano i verificatori dell’Osce.
LIMES Come valuta la condotta strategica della Nato e quella dell’allora presidente Milosˇevié durante la guerra?
LOQUAI Credo che entrambi siano partiti da valutazioni errate. Milosˇevié pensava di poter procurare gravi perdite militari alla Nato, cosa che avrebbe finito per rompere l’unità dell’Alleanza. Su questo si è sbagliato. La Nato pensava che la guerra sarebbe stata brevissima e che dopo tre o quattro giorni Milosˇevié si sarebbe arreso. Questa era la teoria secondo la quale Milosˇevié voleva la guerra in modo da giustificare una resa di fronte al proprio popolo. Anche su questo la Nato si è sbagliata. La strategia atlantica cambiò nel corso della guerra – anche gli scopi della guerra cambiarono. Dopo essersi resi conto di aver contribuito non ad evitare una catastrofe umanitaria, ma a renderla possibile, scopo della guerra divenne il ritorno dei profughi. La strategia si adeguò all’andamento della guerra.
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LIMES Eppure, quando la guerra iniziò, non c’era ancora una catastrofe umanitaria. LOQUAI Lo so, ma è quello che si cerca sempre di far credere e soprattutto è quello che i politici in Germania tentano di far credere all’opinione pubblica. Dicono: «Dobbiamo fermare il genocidio» e con questo danno a intendere che prima degli attacchi aerei della Nato era in atto un genocidio, una grande pulizia etnica. Ma questo non è vero! Conosco bene i rapporti sulla situazione provenienti dagli Esteri e dalla Difesa tedeschi: prima del 24 marzo 1999, prima dell’inizio della guerra, non si fa mai cenno a pulizie etniche di massa o a un genocidio in atto. Dunque, prima dell’inizio dei bombardamenti aerei della Nato, in Kosovo non esisteva una situazione che potesse essere definita «di catastrofe umanitaria» tale da giustificare una guerra, nei termini del diritto internazionale. Si trattava piuttosto di una situazione di guerra civile. C’erano i profughi, la gente era fuggita da dove si combatteva, perlomeno i civili se ne andavano, ma ritornavano nei loro villaggi una volta finiti i combattimenti. Non era certo come in settembre, quando in migliaia restavano nei boschi senza cibo. Non era questa la situazione prima della guerra. La catastrofe umanitaria è iniziata dopo gli attacchi aerei della Nato. E le catastrofi umanitarie sono state due: prima quella degli albanesi durante la guerra e poi quella dei serbi, cacciati dal Kosovo dopo la fine della guerra. In breve: la Nato ha impedito una catastrofe umanitaria fittizia, provocando due catastrofi umanitarie reali.
LIMES Veniamo al «Piano Ferro di Cavallo». Secondo le dichiarazioni rilasciate allora dal ministro della Difesa tedesco Scharping alla stampa, si trattava della prova che in Kosovo i serbi avessero pianificato le operazioni di pulizia etnica con grande anticipo. Questo piano dunque esiste veramente oppure è un’invenzione?
LOQUAI Dalle informazioni che ho raccolto, ritengo che la sua esistenza sia alquanto improbabile. So con sicurezza che non è mai arrivato materialmente nelle mani di Scharping, né in quelle dei suoi collaboratori. Nel novembre 1999 ottenni, su mia richiesta, un lungo colloquio al ministero della Difesa, presso l’Ufficio 2 – il servizio informazioni militari. In quella occasione mi fu riferito che questo piano operativo lì non c’era e che invece quello che il ministro della Difesa aveva ricevuto dal ministro degli Esteri era un documento contenente l’analisi di ciò che era accaduto in Kosovo.
LIMES E chi l’aveva redatto?
LOQUAI Questa analisi era stata consegnata dall’allora ministro degli Esteri austriaco Schùssel al suo collega tedesco Fischer, che poi l’ha passata a Scharping. Proveniva dunque dall’Austria, ma fu valutata e sviluppata come piano operativo all’interno del ministero della Difesa tedesco, che ne realizzò anche i disegni, cosa che nel frattempo ha ammesso anche Scharping. Non era dunque un piano, ma un’analisi dell’accaduto, che si sarebbe potuto ricostruire tranquillamente anche dai documenti dell’Osce. Alla Difesa mi fu detto che gli austriaci avevano ricevuto le informazioni da un analista bulgaro, non dai servizi segreti bulgari. Schùssel ha ammesso alle Salzburger Nachrichten di aver distribuito il dossier ai suoi colleghi della Ue. C’è da chiedersi perché questi documenti non siano passati attraverso i canali
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abituali, ovvero i servizi segreti. La materia grezza dunque arrivò dall’Austria. Non era un piano operativo, ma fu venduto come tale.
LIMES Come valuta oggi il fatto che in Kosovo si rinunciò all’impiego di truppe di terra?
LOQUAI La decisione di tentare di ottenere attraverso attacchi aerei la capitolazione serba —– ciò a cui in fondo si mirava —– fu messa in questione dagli alti gradi militari. Fu una decisione politica, dato che in alcuni paesi, Usa compresi, non si era riusciti ad ottenere il consenso all’impiego delle truppe di terra. A chiunque avesse una minima cognizione di causa doveva risultare evidente che solo con gli attacchi aerei non sarebbe stato possibile aiutare gli albanesi, né decimare le forze militari serbe in misura tale da non permettere loro di fare agli albanesi quello che hanno fatto. Fu una decisione politica che non corrispondeva alle valutazioni militari. I militari a quel punto dissero: bene, se questo è quello che i politici vogliono, ci proviamo. La decisione fu di tentare di convincere Milosˇevié alla resa danneggiando al massimo la popolazione civile e le infrastrutture della Serbia. Fu un modo indiretto. Con le truppe di terra in campo ci saremmo scontrati con il suo esercito e avremmo avuto molte perdite, ma di certo avremmo potuto aiutare di più la popolazione albanese. Era comunque chiaro che, se Milosˇevié non si fosse arreso, la Nato sarebbe entrata via terra. La decisione era già stata presa. Si sarebbe inscenato qualcosa, per esempio un attacco serbo contro forze Nato in Macedonia. Così l’impiego di truppe di terra sarebbe stato dichiarato un’operazione difensiva. La storia è piena di esempi al riguardo, basta vedere come iniziò la guerra del Vietnam.
LIMES Da questa guerra la Nato è uscita più forte o più debole?
LOQUAI A breve termine ne è uscita rafforzata, ma a lungo termine certamente indebolita. In futuro sarà con tutta probabilità difficilissimo prendere di nuovo una decisione analoga all’interno della Nato. La soglia di tolleranza politica nei confronti di tali decisioni si è abbassata alquanto perché molti si sono resi conto, anche rispetto a se stessi, degli enormi problemi connessi all’attivazione della macchina militare atlantica. Soprattutto in America, dove il Senato ha criticato la Nato per non aver raggiunto alcuno degli obiettivi che si era originariamente proposta. È artificioso sostenere ora che l’obiettivo di far uscire di scena Milosˇevié è stato raggiunto. Milosˇevié non è stato fatto fuori dalla Nato. Milosˇevié è stato fatto fuori dal popolo serbo.
LIMES Cosa ha portato a questa estrema personalizzazione della politica nei Balcani? Perché l’Occidente si è così fissato su Milosˇevié? Ora che è uscito di scena tornerà veramente tutto a posto?
LOQUAI È una domanda molto importante: come fare e come vendere la politica. È proprio di una concezione politica primitiva vedere Milosˇevié come il Satana di turno che tutto decide. In Jugoslavia c’era un’oligarchia al potere, non un monopolio. Lo vedremo adesso, dopo l’euforia iniziale: alcuni oligarchi sono rimasti. Non è vero che tutto ora è a posto. Col tempo ci si accorgerà di quanto sia difficile portare avanti una politica assennata, anche senza Milosˇevié. La personalizzazione e la
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fissazione su Milosˇevié sono, come dire, slogan promozionali per vendere la politica, secondo un modello molto americano. Qualcuno è sempre il Satana di turno, lo è stato Saddam, lo è stato Gheddafi. Gli americani tendono a personalizzare i loro avversari, è il loro modo di intendere la politica. Un po’ come nei film western: ci si confronta in un duello, pistole alla mano, e così si pensa di risolvere un problema politico. Questa personalizzazione è l’indicatore di una carenza di sensibilità politica.
LIMES Ci furono in questo senso approcci differenziati da parte americana ed europea nel corso delle trattative che precedettero l’inizio della guerra?
LOQUAI C’erano approcci diversi, ma sono stupito di come gli europei si siano accodati alla scia americana. E questa colpa la attribuisco proprio ai tedeschi. La Germania riunificata è il secondo paese più grande d’Europa dopo la Federazione Russa. Se i tedeschi sono i primi a cedere agli americani, allora non possono certo pretendere che gli altri paesi mostrino coraggio e resistano. Non sono antiamericano, ma ritengo che gli europei debbano riconoscere i propri interessi e articolarli, dar loro voce. La differenza di interessi tra americani ed europei esiste, è un dato reale che è stato sepolto nella guerra in Kosovo. Qui sono stati gli Stati Uniti a condurre il gioco e i tedeschi li hanno seguiti, se non a volte anticipati. Penso alle pressioni del ministro degli Esteri Fischer affinché a Parigi si chiudesse la partita e non si lasciasse tempo per ulteriori negoziati.
LIMES Quali sono le differenze di interessi tra l’Europa e gli Stati Uniti?
LOQUAI Gli americani orientano la loro politica secondo i propri interessi strategici, il che è anche giusto. Anche la politica fatta sul Kosovo seguiva questo principio. Per gli americani era importante stabilire un precedente sull’impiego della Nato all’interno della discussione sulla nuova strategia dell’Alleanza, in corso a Bruxelles. Gli americani non volevano nel modo più assoluto retrocedere ulteriormente. Nell’autunno 1998 infatti gli Usa avevano ottenuto un ultimatum alla Rfj senza mandato dell’Onu e su questo punto non avrebbero certo mollato nel marzo 1999. Per questo motivo ebbero un atteggiamento così inflessibile. Sono convinto che se sul tavolo delle trattative fosse arrivata una proposta convincente, per esempio un mandato Onu per l’invio di una forza di pace non a guida Nato ma con una forte componente proveniente dalla Nato, avremmo avuto dalla nostra parte almeno i russi, e forse agli jugoslavi sarebbe risultato più facile accettare. Ma una proposta del genere non fu mai presentata e non lo fu di proposito. La politica portata avanti dagli americani era orientata a marginalizzare l’Onu e a non far ottenere troppi successi all’Osce, così da esaltare la Nato come strumento principale della politica americana in Europa. E questo valeva in particolare alla vigilia del cinquantesimo anniversario dell’Alleanza, quando sarebbero state indicate le strategie del prossimo secolo. Questo appuntamento era molto importante, gli americani tengono molto agli eventi simbolici. La fretta di concludere i negoziati di Rambouillet e Parigi non era certo determinata dalla situazione sul terreno o dalla catastrofe umanitaria, ma dalla necessità di prepararsi alle celebrazioni dell’anniversario della Nato. Come sa essere semplice la politica, a volte…
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Arriviamo all’Europa: non mi sembra che avesse una particolare percezione dei propri interessi. Sul Kosovo gli inglesi si sono schierati da subito sulla stessa linea degli americani, se non addirittura con più enfasi: americani e inglesi si muovevano in tandem. I tedeschi sono stati ambigui con i loro partner francesi, tenendo conto dell’atteggiamento storicamente critico della Francia verso la Nato e soprattutto verso gli Usa. Insomma, a difendere le posizioni europee restarono solo i francesi e gli italiani. E la tendenza generale fu di non escludere questi due paesi. Se penso a come si battevano i paesi più piccoli e marginali alla fine degli anni Ottanta contro la politica nucleare della Nato… È questo l’assurdo: nel periodo della guerra fredda all’interno della Nato c’erano più divergenze di quante ce ne siano oggi. Con la fine del conflitto tra Est e Ovest era prevedibile che gli interessi nazionali sarebbero riusciti ad articolarsi più chiaramente, in mancanza del «nemico esterno». Eppure è accaduto esattamente l’opposto, un fenomeno che non riesco ancora a spiegarmi.
Sul Kosovo è bene porsi una domanda: l’Europa era effettivamente nelle condizioni di poter esprimere interessi divergenti? Se sì, cosa sarebbe rientrato nel suo interesse? Certamente difendere il ruolo delle Nazioni Unite. Gli europei avrebbero potuto concedere all’Osce maggiori possibilità di portare a termine il suo compito. Credo inoltre che gli europei sarebbero stati in grado di avere una visione più differenziata della Jugoslavia e dei suoi governanti, essendole geograficamente più vicini. Anche sotto Milosˇevié c’erano diversi gruppi di interesse al potere, alcuni più propensi di altri ad aprire alla Jugoslavia una prospettiva in Europa e a quelli ci si sarebbe potuti rivolgere. Stranamente una di queste lobby erano le Forze armate. Gli alti ufficiali erano molto critici nei confronti di Milosˇevié, gli comunicarono chiaramente di non essere d’accordo con le reazioni spropositate della polizia e delle forze di sicurezza agli attacchi dell’Uçk. Fu un’altra occasione mancata.
LIMES La guerra, a conti fatti, ha contribuito all’uscita di scena di Milosˇevié?
LOQUAI Di sicuro non direttamente, forse indirettamente. La verità è che Milosˇevié di nuovo ha commesso un errore. Se non avesse indetto le elezioni, sarebbe rima-
sto ancora un anno in sella. Pare tuttavia che i suoi consiglieri lo avessero convinto che avrebbe vinto, mentre lui stesso non era sicuro di farcela tra un anno. Ha rischiato e ha perso. Forse il sostegno interno ottenuto durante e subito dopo la guerra lo ha messo in uno stato di euforia che non gli ha permesso di capire quanto il popolo lo considerasse responsabile della miseria in cui versava da anni il paese e volesse disfarsi di lui. È possibile che la guerra della Nato abbia incoraggiato questa percezione errata, ma sarebbe il colmo se la Nato affermasse oggi di avere raggiunto così il suo obiettivo di guerra. L’obiettivo ufficiale era impedire una catastrofe umanitaria e non togliere Milosˇevié dal potere.
LIMES Non era forse questo l’obiettivo segreto della guerra: destabilizzare Milosˇevié? LOQUAI Certo che lo era. Ma prima della guerra i sondaggi davano la popolarità di Milosˇevié a livelli bassissimi. La guerra lo ha riportato in auge. Dopo la guerra, in vista delle elezioni, i sondaggi riportavano quello che sarebbe poi stato il risultato elettorale: il 35% a Milosˇevié e un 55-60% al candidato dell’opposizione. Durante
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I SEGRETI DELLA GUERRA NATO
le elezioni, in ogni ufficio elettorale c’era almeno un rappresentante dell’opposizione. A livello locale, i brogli non erano praticamente possibili. Lo erano invece a livello centrale. La manipolazione più grave è avvenuta in Montenegro, dove all’ultimo momento la giornata elettorale era stata dichiarata lavorativa, così da impedire alla gente di andare a votare senza rischiare il posto di lavoro. Inoltre nei seggi montenegrini c’erano individui che controllavano chi si recava alle urne. In Serbia è stato tutto abbastanza regolare. Ora comunque la Jugoslavia ha un nuovo presidente e il 23 dicembre si terranno le elezioni in Serbia. Tutto fa pensare che sia di nuovo la vecchia opposizione a vincerle, ma in questa fase è fondamentale che il nuovo presidente ottenga successi. Il popolo serbo deve vedere presto dei miglioramenti concreti per restare convinto che è valsa la pena costruire una democrazia, mandare nuovi uomini al potere.
LIMES Quale futuro vede oggi per il Kosovo?
LOQUAI Innanzitutto penso che l’amministrazione Onu e la presenza militare della Nato vi debbano restare per altri 20-25 anni. Nel caso che si ritirino prima, c’è il rischio di una nuova guerra. In secondo luogo, forse l’unica possibilità di pacificazione durevole è rappresentata da una spartizione. Non credo che per i prossimi anni serbi e albanesi possano vivere insieme. Anche prima non si trattava di una convivenza ma di una coesistenza. Ritengo che i serbi siano invece pronti a separare il Nord-Est del Kosovo per unirlo alla Serbia e lasciare poi il resto ai kosovaroalbanesi, a condizione che venga loro garantito –— forse da truppe Onu —– l’accesso ai luoghi sacri, alle chiese, ai monasteri ortodossi. Si creerebbe, insomma, un minuscolo protettorato Onu. Ma l’importante per ora è che la Nato resti. Per i soldati inviati laggiù è stato straordinariamente difficile ottenere più di quanto stanno realizzando. Perché in fondo è stata proprio la guerra a seminare l’odio vero. Per questo una divisione del Kosovo rappresenta forse la soluzione più sensata. Non credo tuttavia che sia il Kosovo a rappresentare attualmente un problema immediato. La situazione politica della provincia è al momento abbastanza congelata e nulla si muoverà nei prossimi sei anni. Molto più importante adesso è chiedersi cosa farà il
Montenegro con la Serbia. Credo che il presidente montenegrino Milo Djukanovié cercherà di staccarsi. L’Occidente in questo caso può avere un ruolo determinante.
Se gli farà capire che è nell’interesse atlantico che il Montenegro resti unito alla Serbia —– non importa se in uno Stato federale o in una confederazione —– ciò avverrà. Se l’Occidente invece facesse capire a Djukanovié di voler perseverare nell’amputazione della Jugoslavia, allora il Montenegro diventerà uno Stato indipendente e come tale forse non riuscirà a sopravvivere.
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I BALCANI SENZA MILOSˇEVIC´
OPERAZIONE ‘FERRO DI CAVALLO’ (POTKOVA)
La situazione attuale in Kosovo si presenta in larga misura anche come il risultato di un piano strategico denominato «Ferro di Cavallo» – in serbo: Potkova – apparentemente elaborato, secondo molte indicazioni – già alla fine dell’anno scorso all’interno della cerchia di Milos”evic´. Gli elementi di tale piano, del quale non sono tuttavia noti i dettagli, potrebbero essere stati adeguati al mutamento delle direttive politiche e degli sviluppi della situazione, ovvero includendovi dall’inizio determinate varianti. La dislocazione e le direttrici di sforzo principale delle forze serbo-jugoslave in Kosovo negli ultimi mesi offrono tuttavia indizi sufficienti a indicare un’azione a forma di «ferro di cavallo».
L’obiettivo principale della «Operazione Ferro di Cavallo» è, dal nostro punto di vista, distruggere, o meglio neutralizzare l’Uçk in Kosovo. La cacciata della popolazione kosovaro-albanese fa chiaramente
parte del piano, allo scopo di ottenere violenti mutamenti demografici regionali. L’espulsione mirata dei kosovaro-albanesi dai loro villaggi e insediamenti è stata individuata chiaramente lungo una larga fascia che percorre entrambi i lati delle maggiori arterie di collegamento del Kosovo. Soprattutto nelle regioni di Llap, Shala e Drenica, roccaforti dell’Uçk, la cacciata dei kosovaro-albanesi ha sottratto base e appoggio all’Uçk.
Con tutta probabilità, Belgrado intendeva mettere in atto la lezione fondamentale tratta dall’azione condotta contro l’Uçk nell’estate-autunno dell’anno scorso. Allora, grazie a massicce operazioni, Belgrado era riuscita a far arretrare l’Uçk da quel 40% di territorio che controllava in Kosovo. Ma soltanto per poco tempo. Da ricordare: al culmine di questa operazione il numero delle persone cacciate o fuggite dalle loro case ammontava a circa 300 mila, circa 50 mila si accamparono provvisoriamente all’aperto. Dopo che in ottobre, a seguito delle pressioni della comunità internazionale, Belgrado si era mostrata più conciliante, aveva accettato la missione di verifica dell’Osce e aveva mantenuto gli impegni relativi a quantità e dislocazione delle sue forze in Kosovo, almeno molti sfollati interni fecero ritorno nelle località dove abitavano. Con essi però tornò anche l’Uçk, una situazione insostenibile per Belgrado.
Il «Piano Ferro di Cavallo» doveva impedire una volta per sempre il ripetersi di questo decorso della situazione. Persino durante la conferenza di Rambouillet dal 6 al 20 febbraio 1999 era evidente che Belgrado non voleva accettare l’esistenza dell’Uçk. Per Belgrado l’Uçk era ed è uno strumento del terrorismo e del separatismo, contro il quale utilizzare ogni mezzo. Mentre la delegazione serba, a Rambouillet e a Parigi dal 15 al 19 marzo 1999, dava l’impressione di negoziare, le forze serbe continuavano a portare avanti la loro operazione contro l’Uçk e la popolazione civile. Una seria partecipazione dei serbi alle trattative, dunque, non era stata affatto prevista da Milos”evic´.
http://www.bundeswehr.de/kosovo/hufeisen.html *
Dopo l’accordo Holbrooke-Milos”evic´ (13/10/98)
Sfollati/profughi All’interno del Kosovo: ca. 200.000 All’esterno del Kosovo: ca. 98.000 Tendenza: inizio del ritorno
VJ (Esercito federale)/MUP (unità paramilitari di polizia, composte di riservisti)
Soldati 830, Polizia 10.000
* La pagina web sopra indicata è sparita ad oggi dal sito del ministero della Difesa tedesco. La parola chiave «Hufeisen» risulta sconosciuta e priva di riferimenti (n.d.r.).
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