I COLORI DELL’IMPERIALISMO di Andrea Fais
Secondo alcune indiscrezioni, pubblicate da SiciliaOggi nel luglio dell’anno scorso, il finanziere George Soros sarebbe andato su tutte le furie dinnanzi all’attivismo in politica estera di Silvio Berlusconi, annunciando una discesa in campo per contrastare questo governo “anti-democratico”[1]. La forte amicizia tra Silvio Berlusconi e l’attuale Primo Ministro Russo Vladimir Putin, ribadita nel corso di quei mesi anche al G8 de L’Aquila, è un nodo che sta sostanzialmente contrassegnando buona parte dell’attuale scontro in atto all’interno delle stanze della politica. Dalle indiscrezioni, più o meno attendibili, di Wikileaks, ai recenti attacchi di Futuro e Libertà per l’Italia, contro la politica estera di questo governo, indicata dai finiani come uno dei maggiori pomi della discordia e una delle principali ragioni del loro strappo interno alla maggioranza, tutto lascia supporre che lo spazio di relativa autonomia ritagliato dal premier negli ultimi due anni stia seriamente creando alcuni dissesti all’interno di equilibri nell’Europa meridionale e nell’Arco del Mediterraneo, per troppo tempo dati per scontati o per assunti.
Da ben più di un anno e mezzo, lo scontro politico è proseguito intensificandosi sempre di più, seguendo dei copioni assolutamente pittoreschi, fatti di escort, scandali a luci rosse, accuse, spesso retroattive, come nel caso di Scajola e Bertolaso, le cui personali vicende giudiziarie sono improvvisamente scoppiate in riferimento a presunte ipotesi di reato presumibilmente materializzatesi addirittura mesi e mesi prima, senza che fino a quel momento fossero mai uscite sui giornali. Fino ad allora il Ministro dimissionario alle attività produttive e il capo (dimissionario) della Protezione Civile, si erano messi in luce in ambito internazionale, per due eventi principali: per quanto riguarda il primo, gli accordi di Villa Gernetto, del 26 aprile 2010, che avevano ratificato un nuovo protocollo di intesa tra Italia e Russia nel settore energetico, avviando la cooperazione nel settore nucleare tra l’Enel dell’Amministratore Delegato Fulvio Conti (tra i più decisi sostenitori, in Italia, di un saggio ritorno al nucleare sicuro e pulito), e la Inter Rao Ues, rappresentata da Boris Kovalchuk; il secondo invece, dopo aver guidato la prima ricostruzione de L’Aquila, aveva criticato la gestione americana dell’emergenza nell’immediato post-sisma di Haiti.
Lo scontro politico ha poi visto accendersi i riflettori su nuove escort salite alla ribalta, fino a giungere alla visita estiva del Colonnello Gheddafi in Italia, che ha acceso un mare di polemiche trasversali, capaci di allineare compattamente e unanimemente ambienti islamofobi e ambienti dell’opposizione parlamentare. Alcune ragazze studiose di religione islamica, invitate ad un seminario in cui ha presenziato per l’occasione il Presidente della Libia, sono state fatte oggetto di oltraggio e scherno da parte della stampa, oscurando, così, l’importanza degli accordi conclusi tra Italia e Libia in materia di cooperazione energetica ed infrastrutturale, oltre che l’importante supporto di Tripoli nel contributo al salvataggio del credito italiano.
La palla è poi passata allo polemica mediatica nei confronti del Direttore del TG1, Augusto Minzolini, che ha naturalmente rinviato all’annoso scontro relativo al monopolio mediatico e televisivo di Berlusconi. “Sono appena tornata dall’Italia, il mio Paese natale. Ho mangiato molto bene […]. In ogni caso, lo stato della libertà di informazione in Italia (cosparso di corruzione e di indifferenza) è duro da digerire. […] L’Italia è l’unico Paese occidentale in cui il Governo sta provando ad estendere questo controllo nel mondo reale (off line) anche al mondo virtuale (on line) attraverso la schedatura dei siti web come della stampa e della televisione”[2]. A scrivere queste parole non è una qualunque eroina della sinistra radical-chic dei giorni nostri come Sabina Guzzanti o Serena Dandini, e nemmeno qualche attempata “vampe” del giornalismo italiano “riformista” come la De Gregorio, ma la semisconosciuta direttrice dell’Open Information Policy, sottosezione del Programma di Informazione dell’Open Society Institute di George Soros, Vera Franz. La Franz è da diversi anni un’attivista della libertà d’informazione e della comunicazione multimediale: dopo studi in Canada, Austria, Italia e Inghilterra, ha conseguito un master in media e comunicazione presso la prestigiosa e immancabile London School of Economics, vero e proprio trampolino di lancio per giovani e intraprendenti occidentali (tra cui lo stesso Soros in passato), tanto che la ritroviamo anche come collaboratrice del Dipartimento per la ricerca e lo sviluppo dell’informazione della Commissione Europea, oltre che nelle strutture politiche di alcune organizzazioni per i diritti e per la legalità in Croazia e in Bosnia-Erzegovina[3].
La Franz, che nell’Open Society ricopre un ruolo non certo residuale, va avanti e scrive, “Il 3 Ottobre dell’anno scorso (2009, ndt), l’Associazione Nazionale della Stampa ha organizzato una delle più grandi manifestazioni in sostegno della libertà di informazione e dell’apertura della rete”[4] aggiungendo che una grande forma di “resistenza contro le diverse politiche del Governo è anche stata organizzata da Il Popolo Viola, una creatura della rete che si sta avviando grazie a facebook”[5], senza tralasciare che “diverse personalità critiche e schiette, come ad esempio Guido Scorza, stanno facendo la loro parte”[6]. Guido Scorza, per dovere di cronaca, è un avvocato e giornalista molto impegnato nel dibattito sull’informazione e sul diritto d’autore, attualmente in forza alla redazione de Il Fatto Quotidiano, dove collabora assieme ai ben più noti Marco Travaglio, Peter Gomez, Massimo Fini e Luca Telese.
Come tutti sanno, o dovrebbero sapere, l’Open Society Institute, presso cui lavora Vera Franz, è la famosa fondazione non-governativa creata proprio da George Soros nel 1993 dalle vecchie strutture dell’Open Society Fund, direttamente autofinanziatosi grazie alla pluridecennale attività di speculazione che lo stesso magnate e sedicente filantropo ha messo in piedi in passato con il suo
Quantum Fund. Artefice delle più clamorose speculazioni finanziarie su vasta scala mai viste negli ultimi decenni, e passato alla storia per aver “distrutto” la Sterlina, la Lira e per aver dissestato diversi altri sistemi finanziari di alcuni Paesi asiatici ed europei, George Soros è attivissimo nell’ambito del confronto geopolitico, proprio perché quasi unanimemente considerato la mente attiva delle cosiddette rivoluzioni “non-violente”, che da almeno trentacinque anni destabilizzano e condizionano la vita politica dei Paesi dell’Est Europa e dell’Asia. Se un tempo c’erano Radio Free Europe, Charta77 in Cecoslovacchia o Solidarnosc in Polonia, pronte a riversare tonnellate di propaganda atlantica sui sistemi politici e sociali dei Paesi del Patto di Varsavia, oggi i movimenti “democratici e per i diritti” danno luogo al fenomeno che per tutti gli anni Duemila ha catalizzato l’attenzione internazionale, soprattutto nel continente post-sovietico, nel Medio oriente e in parte dell’Asia meridionale: le cosiddette “rivoluzioni colorate”.
Con la manifestazione anti-Milosevic del 5 ottobre del 2000, nella Serbia martoriata dal bombardamento della Nato, si è dato il via ad un giro di walzer impressionante, che in appena soli cinque anni è stato in grado di espandersi in Georgia (2003, rivoluzione delle rose), in Ucraina (2004, rivoluzione arancione), in Kirghizistan (2005, rivoluzione dei tulipani), alla cui ondata “emotiva” si affiancarono altri tentativi golpisti, quasi subito rientrati e falliti, in Bielorussia (2006, rivoluzione dei jeans), in Azerbaigian (2005, rivoluzione arancione-verde), in Mongolia (2005, rivoluzione delle sciarpe gialle), in Libano (2005, rivoluzione dei cedri), in Myanmar (2007, rivoluzione zafferano), e in Iran (2009, rivoluzione verde). Ognuno di questi movimenti apparentemente spontanei ha il preciso scopo di imporre un cambio di governo e, in caso di sconfitta alle urne, di trasformarsi in un braccio violento e armato, auto-legittimatosi in base ad una fantomatica ancorché indimostrata irregolarità o truffa elettorale ai propri danni, con buona pace della democrazia e della non-violenza. Così è accaduto a Tehran appena un anno fa, dove bande di criminali, delinquenti, debosciati, nullafacenti e teppisti, presi a cottimo per l’occasione, hanno inscenato uno dei più terribili tentativi di distruzione dell’intera città, coinvolgendo abitazioni comuni, edifici di grande prestigio politico e religioso o semplici esercizi di tipo commerciale.
In generale le rivoluzioni colorate mostrano quattro caratteristiche che ne accomunano i vari tentativi più o meno riusciti:
1) avvengono sempre all’interno di nazioni guidate da governi strategicamente partner (momentaneamente o tradizionalmente) di Russia e/o Cina
2) non avvengono mai all’interno dei Paesi del patto Nato
3) utilizzano metodi di proselitismo quasi interamente basati sulle moderne tecnologie (telefonia mobile e/o rete informatica) e su precise impostazioni comunicazionali (scelta di un colore o di un oggetto emblematico, immaginario d’impatto, selezione di slogan e di “beniamini” costruiti al momento, che focalizzino e catturino l’emotività del pubblico)
4) presentano sempre il tentativo di imposizione di un programma politico di apertura economica, commerciale e strategica all’Occidente
Servendosi di una retorica liberale, ispirata alle teorie filosofiche del suo idolo e vate, Karl Popper, George Soros è tutt’oggi considerato il principale finanziatore di queste organizzazioni, che spesso risultano essere una vera e propria amalgama di personaggi politici locali di opposizione, studenti particolarmente attivi di tendenze liberali, attivisti di pre-esistenti associazioni per i diritti (omosessuali, pacifisti, ambientalisti ecc..), tutti quanti ricompresi all’interno di nuove e ben più solide reti, dove il ruolo essenziale di supporto e formazione dell’Open Society Institute praticamente risulta decisivo. Come annotato nei punti 1) e 2), il cambiamento radicale della politica estera fin lì adottata è uno dei principali fattori riscontrati in tutti i tentativi di rivoluzione colorata inscenati.
In Georgia (Mikhail Saakashvili), in Ucraina (Viktor Yushenko) e in Kirghizistan (quanto meno nei primi due anni del Governo del neo-eletto Kurmanbek Bakiyev), i cambi al governo hanno letteralmente sconvolto i tradizionali e secolari rapporti con la Russia, costituendo tre autentici avamposti ostili a Mosca proprio nelle tre zone di confine principali dell’enorme ex territorio sovietico: l’Europa Orientale, il Caucaso e l’Asia Centrale.
Quando il 5 dicembre 2009, va in scena a Roma il primo cosiddetto No-B day, organizzato nei mesi precedenti in maniera apparentemente spontanea, attraverso facebook e la rete in genere, qualcosa sembra cominciare a muoversi. La sconvolgente uniformità nei metodi e la serrata organizzazione alla base dell’evento lasciano sicuramente sorpresi. Una massa di migliaia di persone, contraddistinte dal solo scopo di contrastare in ogni modo il premier Silvio Berlusconi, e accomunate da un colore, il viola, che darà nome e logo al movimento: il Popolo Viola è qualcosa che lascia tutt’oggi esterrefatti. Improvvisamente, nel giro di pochi mesi, semplici elettori, giovani appartenenti a diversi partiti politici di opposizione (spesso anche in forte contrasto), professionisti e cittadini in genere, si ritrovano insieme per cercare illusoriamente di incidere nello scenario politico italiano, senza un programma, senza una proposta, senza una piattaforma politica autonoma, senza una guida e senza alcun organigramma interno ufficiale. Non ci sono nomi, non ci sono leader, non ci sono capi-fila, non ci sono rappresentanze. Le due domande che sorgono immediatamente spontanee a questo punto, sono due. Qual è la ragione politica del Popolo Viola e a chi fa riferimento questo movimento apparentemente spontaneo?
Ancora oggi non è mai stata trovata una risposa esauriente, malgrado blog, siti, spazi internet, più o meno ufficiali, riconducibili a questo movimento pseudo-politico proseguano nella loro attività tanto da continuare a diffondersi come funghi un po’ ovunque. I motori di ricerca più noti della rete impazziscono allorquando si tenti di ricercare qualche notizia in proposito e lo stesso Google fornisce ben 840.000 risultati di ricerca della voce “popolo viola”. Per ora, esiste un solo portavoce riconosciuto. Gianfranco Mascia, quarantanovenne ex attivista nel sindacalismo cattolico delle ACLI, del movimentismo non-violento e ambientalista, si è messo in testa sin dal 1993 di contrastare a qualunque costo e in ogni settore Silvio Berlusconi. Fu lui il fondatore della famosa associazione Bo.Bi., tale “Boicotta il Biscione”, resasi famosa per le sue azioni di boicottaggio contro qualunque attività legata al Presidente del Consiglio, dall’editoria alla politica, organizzando comitati in tutta Italia negli ultimi quindici anni.
Le accuse principali riguardano il monopolio dell’informazione di cui il Cavaliere si sarebbe avvantaggiato durante tutto questo lasso di tempo. Eppure Gianfranco Mascia non è il
solo a mettere sul piatto della bilancia il problema del conflitto di interessi di Berlusconi: il movimentista pugliese potrebbe trovare conforto d’opinione anche all’interno dell’Open Society Institute, dove non mancano iniziative forti a questo proposito. Primo fra tutti è James Goldston, direttore esecutivo dell’Inziativa per la Giustizia dell’Istituto di George Soros. Attivista per i diritti umani in Africa, America, Asia ed Europa, Goldston è uno degli uomini di punta dell’Open Society, e si è occupato in prima persona del conflitto di interessi di Berlusconi, presentando documentazioni e inchieste, sostenendo che “la situazione italiana è inaccettabile per la democrazia”[7]. Goldston non ha perso tempo durante il 2010, ribadendo in un comunicato: “ci stiamo rivolgendo alla Corte Europea per affermare i principi del pluralismo televisivo”[8].
Proprio sul tema dell’informazione nell’Italia del governo di Berlusconi, lo scorso 5 maggio di quest’anno, se la sono spassata con grasse risate anche alcuni ragazzi, all’incontro di un fantomatico quanto inutile Popolo Viola London (a che serve una branca del movimento all’estero?), accorsi per l’irrinunciabile occasione di gustarsi un’ennesima e divertentissima conferenza contrassegnata dalle velenose invettive “anti-B” di Marco Travaglio e di Antonio Padellaro, duo di punta del neo-nato quotidiano “Il Fatto”. Scenario dell’imperdibile manifestazione di godimento collettivo demo-progressista? L’immancabile London School of Economics, un tempio ultra-liberista dove si susseguono, uno dopo l’altro, praticamente tutti i personaggi di questa strana vicenda. L’“anomalia” italiana costituisce una situazione che, per dirla con le parole di Travaglio, “soltanto osservatori stranieri come quelli di Freedom House possono cogliere”. Freedom House, organizzazione di spicco dell’osservatorio a stelle e strisce sul mondo, principale istituto promotore del rispetto delle libertà individuali, si batte da anni per l’indipendenza del Tibet, per la scarcerazione di Liu Xiaobo, per il supporto ai paladini della “democrazia made in Usa” sparsi nel mondo, per il sostegno a quei diritti umani “a senso unico” tanto in voga nella nazione di noti “filantropi” come Buffalo Bill, Eisenhower, Truman, Nixon, Carter, Negroponte, Kissinger o Luttwak.
In ogni caso, stando alle dichiarazioni rilasciate dai tanti personaggi fin qui citati, per la rete dell’imperialismo “demo-capitalista” a carattere umanitaristico-libertario (Freedom House, Open Society Institute, Human Rights Watch e compagnia al seguito) il problema principale in Italia e in Europa è Silvio Berlusconi. Anche Darian Pavli, albanese d’origine e collaboratore di Goldston presso l’Iniziativa per la Giustizia dell’Open Society, già impegnato come ricercatore per Human Rights Watch nei Balcani meridionali, ricorda come “negli ultimi trent’anni, la famiglia del Primo Ministro Silvio Berlusconi, ha mantenuto il controllo dei primi tre canali televisivi, meglio noti come ‘Impero Mediaset’”[9], tralasciando evidentemente che Italia Uno e Rete Quattro nacquero diversi anni dopo Canale5, e che per tutti gli Anni Ottanta e buona parte degli Anni Novanta, le reti Fininvest, poi Mediaset, non furono certo le prime tre reti nazionali italiane. Ma tant’è. Nell’Open Society, come nelle parole di Travaglio, si accalcano gli strali contro la presunta “anomalia italiana” rappresentata da Silvio Berlusconi. Stupisce come in tutto l’archivio della Fondazione del magnate ungherese Soros non si rintracci alcun rapporto su Rupert Murdoch, magnate e monopolista televisivo ed editoriale nel mondo, come del resto non si faccia alcun cenno alla sua ben più estesa “anomalia mondiale”. Murdoch certamente non è mai entrato in politica, ma questo non gli impedisce di condizionarne gli scenari, soprattutto negli Stati Uniti d’America, con la costante presenza di canali faziosamente e chiaramente politicizzati come Fox News, dove la propaganda maccartista vecchio stampo, si somma ad un neo-conservatorismo “integralista” privo del minimo pudore, senza contare lo strapotere pressoché incontrastato di Sky che, con i suoi canali, è in grado di produrre i più svariati approfondimenti (politica, scienza, geografia, storia, arte …) concentrando nelle proprie mani una potenzialità di condizionamento che coinvolge tutti i settori dell’inchiesta.
Non se ne fa il minimo accenno. Alla pari di tanti altri uomini (chi ha detto Brzezinski?) e di tante altre istituzioni (chi ha detto Trilateral Commission?), per l’Open Society Institute, Rupert Murdoch è come se non esistesse. Questa è la faccia pulita e invisibile del capitalismo internazionale, della finanza mondiale, che può permettersi il lusso di paventare il pericolo della “dittatura”, proprio nella misura in cui la sta instaurando, giorno dopo giorno, davanti a quei cittadini convinti di difendere la libertà, inebriati dalla retorica e dal mito globale di una democrazia apparente.