(I) Come siamo deprivati della democrazia – saggio completo di Jacques Sapir
Traduzione a cura di Roberto Buffagni, G. Germinario e Piergiorgio Rosso
Di Jacques Sapir , su http://russeurope.hypotheses.org
La presente nota inaugura una serie di articoli dedicati al problema della legittimità e della legalità che ha catturato la mia attenzione dopo aver letto un articolo di RageMag [1] sul ruolo della violenza. Proseguono una antica riflessione sviluppata in libri come Les économistes contre la démocratie (Albin Michel, Paris, 2002) e Quelle économie pour le XXIe siècle (Odile Jacob, Paris, 2005).
La questione della legalità e legittimità è direttamente rappresentata oggi dalla irruzione del costituzionalismo economico; un argomento fino a poco tempo fa riservato a specialisti, ma che ora è diventato oggetto di dibattito politico. Lo sviluppo di istanze decisionali economiche (come la Banca Centrale Europea) scollegate da qualsiasi controllo democratico, l’idea oggi diffusa che “il governo secondo le regole” potrebbe sostituirsi a un governo del popolo (come nella costruzione europea), sono esempi di questo ingresso del costituzionalismo economico nella nostra vita [2] . Il concetto di Costituzione Economica affonda le sue radici nel pensiero di F.A. Hayek. La sua concezione delle regole, la quale fonda la sua adesione al costituzionalismo economico, è stata spesso ripresa alla stessa maniera da correnti di pensiero economiche che si basano su ipotesi in realtà molto diverse. E’ quindi interessante osservare gli economisti neoclassici invocare ora il costituzionalismo economico; gli stessi che, per costruzione, rifiutano il ruolo delle regole perché non credono se non alla massimizzazione delle scelte individuali e rifiutano il principio stesso di incertezza. Si ritrova il rilievo del concetto di Costituzione Economica nella scuola americana di Public Choice [3] , ma anche in diversi movimenti politici come il Tea Party.
La scuola di Public Choice è certamente quella che ha più formalizzato il costituzionalismo economico [4] . Inoltre non è una semplice trascrizione nella cultura accademica e economica degli Stati Uniti delle tesi di F.A. Hayek. Ma la posizione di Buchanan non è più coerente. Supporre che un libero contratto possa completamente e totalmente vincolare le parti interessate contraenti, comporta la perfetta conoscenza delle conseguenze dei loro atti al momento della firma del contratto e una perfetta condivisione degli stessi criteri di valutazione ad opera delle stesse parti contraenti. Tuttavia, se questo fosse il caso, le regole non si giustificherebbero più. Le relazioni tra gli individui sarebbero assimilate a pure reazioni meccaniche e si ricadrebbe negli errori più evidenti del modello neoclassico.
Vi è ora, quindi, una convergenza verso quest’idea di Costituzione, di correnti di pensiero spesso molto diverse. Questi approcci, tuttavia, sono teoricamente molto fragili, anche senza contestare a monte le modalità di selezione delle regole. Tre tipi di argomenti sorgono quando si cerca di prendere sul serio il processo “costituzionalista” di Hayek.
Gli argomenti classici
Questi ultimi sono tre: l’argomento della stabilità di scelta, l’uso di una metafora con il sistema politico per “giustificare” l’esistenza di una costituzione economica e l’argomento detto de “l’operatività”, cioè l’efficacia di questa “Costituzione”, anche quando essa stessa violerebbe i principi di decisione democratica.
L’argomento della stabilità di scelta
In primo luogo l’argomento della stabilità di scelta sarebbe garantita dall’esistenza di tali norme. Si oppone allora questa stabilità all’instabilità generata dall’azione discrezionale. Ma, come dimostra la storia dei trattati sul controllo degli armamenti, le regole organizzatrici possono essere un potente fattore di instabilità [5] . Ogni volta che i divieti di determinate armi sono state emanati e fatti rispettare, quand’anche temporaneamente, vi è stata una proliferazione di innovazioni destinate a aggirare tali divieti. Il Trattato Navale di Washington nel 1922 ne è un buon esempio [6] ; ha generato i siluri a lungo raggio della Marina giapponese e lo sviluppo della sua aviazione navale, le corazzate tascabili tedesche e un progetto ibrido di incrociatore-portaerei, molto vicino ad essere costruito negli Stati Uniti. Il trattato di limitazione di vettori nucleari START 1 tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ha portato alla diffusione di testate multiple (MIRV) e la riscoperta dei missili da crociera come mezzo per aggirare i limiti di vettori stabiliti nei trattati. Oltre alle innovazioni, i trattati navali degli anni venti hanno favorito strategie di dissimulazione (i governi di Giappone, Germania e Italia dichiaravano valori sottostimati della stazza di alcune unità). Queste ultime, introducendo elementi di incertezza circa la vera natura delle forze, hanno incoraggiato la corsa agli armamenti e la rottura del quadro di tali trattati. E’ la natura giuridica dell’approccio che ha favorito strategie di aggiramento con un potenziale profondamente destabilizzante. Al contrario, l’autolimitazione reciproca generata dal timore di una azione discrezionale di risposta porta ad una situazione più stabile, come abbiamo visto nel trattato ABM tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Sin tanto che i primi hanno avuto di che temere una risposta della seconda, il divieto di sistemi anti-missile è stato generalmente rispettato. Solo con l’indebolimento e la successiva implosione dell’Unione Sovietica, alcuni progetti anti-missile hanno potuto riapparire.
Un sistema di regole organizzatrici non gioca un ruolo stabilizzante se non quando può appoggiarsi sull’espressione di un potere discrezionale legittimo. Tale sistema non permette assolutamente di determinare l’economia di una giustificazione in legittimità e attraverso essa in sovranità; pone, invece, la questione della modalità di organizzazione all’interno dello spazio politico in cui queste giustificazioni dominano. Se Hayek pensava di poter, attraverso l’analogia con i meccanismi costituzionali, evitare il contatto tra economia e politica, evidentemente aveva torto.
L’argomento del ruolo organizzatore delle Costituzioni
In secondo luogo, vi è un argomento basato sulla analogia tra il sistema politico e il sistema economico. Il sistema politico ha bisogno di una costituzione e di una gerarchia di norme: norme costituzionali, leggi e regolamenti. Se ne deduce che il funzionamento dei mercati sarebbe più funzionale se gli attori dovessero operare nel loro seno in un quadro che essi non possono cambiare. Da qui, ben inteso, l’idea di sottrarre alla decisione politica la determinazione di questi quadri per garantire,qui ancora, una stabilità di decisioni degli attori.
Ma c’è ragione di pensare che il confronto tra un sistema di regole economiche e una Costituzione si basa in realtà su due errori. Il primo consiste nel credere che sia la Costituzione a creare un quadro politico stabile. Se guardiamo alla politica francese, possiamo vedere che è vero il contrario. Sino a quando persistono conflitti fondamentali sulla forma del regime politico e la distribuzione del potere, le costituzioni durano poco. Va notato che la più fragile in apparenza, quella della Terza Repubblica, ampiamente nata da un voto di circostanza, ha conosciuto una lunga durata (69 anni). Ma questo è principalmente il risultato di un consenso preliminare risultante da una assimilazione collettiva progressiva tra il 1848 e la fine del Secondo Impero, a favore del parlamentarismo. Al contrario, la Costituzione della Quarta Repubblica non ha resistito alla dislocazione del consenso negli anni 1944/1946. La controprova apparente, ad esempio, la Costituzione degli Stati Uniti che dalla proclamazione ha raggiunto due secoli di durata, dimentica due evidenze. La prima è la facilità con cui questa Costituzione può essere emendata, talvolta in maniera contraddittoria. La seconda è che non ha impedito agli Stati Uniti l’orrore di una guerra civile. L’altro errore è quello di credere che si può assimilare l’agire politico o strategico in cui contestualmente si registra la presenza di un numero ridotto di soggetti (partiti o Stati) all’economia in cui il numero di giocatori è infinitamente maggiore.
Entrambi gli errori rimandano ad una incomprensione di alcuni meccanismi politici. In una costituzione, si trovano al tempo stesso clausole strutturali e clausole di diritto [7] . Le clausole strutturali mirano all’organizzazione dello spazio di dibattito e determinano le procedure elettorali, la verifica, il funzionamento del sistema politico nel senso più ridotto del termine. Tali clausole costituiscono certamente le regole organizzatrici tese a impedire la ridiscussione all’infinito di alcune questioni ad ogni occorrenza. È perfettamente legittimo discutere regolarmente della modalità di scrutinio; può essere cambiata. Ciò era ben visto da molti autori come T. Jefferson e J. Locke per i quali le decisioni di una generazione non potevano vincolare la successiva [8] . Ma mettendola in una Costituzione, si evita di vederla rimessa in discussione ad ogni nuova elezione. Le clausole di diritto mirano ad escludere dalla sfera delle scelte a maggioranza alcune decisioni al fine di tutelare i diritti individuali. E’chiaro che, in Hayek, c’è una confusione tra queste due dimensioni di una costituzione, tra le clausole strutturali e le clausole di legge. Ora, se guardiamo la questione delle clausole di legge, le si può considerare da un punto di vista essenzialista o funzionalista. La tradizione liberale si basa in generale sulla interpretazione essenzialista; i diritti da tutelare sono quelli derivanti dalla natura umana intangibile e preesistente a ogni società. Se si rifiuta una visione essenzialista, non ci si può esimere dalla questione delle clausole di legge. In una visione funzionalista ispirata da una analisi dei limiti cognitivi degli individui, sarebbe perfettamente giustificato considerare che l’esclusione di alcune questioni in campo politico sia un requisito indispensabile per il suo corretto funzionamento. Tale è il fondamento che dà Stephen Holmes alle regole di autolimitazione da lui definite gag-regole [9] .
Il desiderio di depoliticizzare attraverso il costituzionalismo economico il processo di emersione di norme pone un grave problema di coerenza. Una possibile giustificazione alla riduzione della scelta democratica può essere l’applicazione del principio di decisione scientifica. E’ chiaro che gli economisti che hanno contribuito allo statuto che prevede la rimozione della politica monetaria dal dominio della scelta democratica assicurando l’indipendenza delle banche centrali sono d’accordo nel credere che ci sia una “scienza” per definire certamente decisioni economiche corrette [10] . Ma dal punto di vista di FA Hayek stesso, questo non può che essere l’espressione più oscena di quello scientismo più volte da lui denunciato. Su questo punto, non gli si darà torto. Un’altra possibilità consiste nel considerare che le regole non esprimono che leggi naturali [11] . Ma se tali leggi esistono, allora l’ordine spontaneo di cui F.A. Hayek è diventato l’araldo non è in alcun modo spontaneo ma preesistente alle decisioni umane. Se, in mancanza di una ergodicità economica postulata da P. Samuelson [12] , si postula una ergodicità sociale senza essere in grado di dimostrarla [13] , non si può più giustificare il mercato come modo ottimale di selezione delle regole. E’ il mercato stesso che diventa una regola predeterminata e che è importante non toccare. In questo caso, ci si basa su una visione essenzialista della società che predetermina la modalità di coordinamento. Che senso ha in queste condizioni parlare di libertà? Si può vedere un certo interesse per alcune di queste soluzioni, ma devo dire che si tratta di un interesse particolare, non di un interesse collettivo.
L’argomento dell’operazionalità
Rimane un terzo argomento, l’operazionalità delle regole esternalizzate rispetto al dibattito democratico. Questo argomento deve essere affrontato senza ingenuità. Sappiamo che i sistemi democratici sono ben lungi dall’essere perfetti, e possono portare a situazioni di stallo ricorrenti. Non sarebbe meglio, in questo caso l’esistenza delle regole, anche se stabilite in maniera non democratica, ma suscettibili di funzionare operativamente piuttosto che il caos indotto dal blocco del sistema politico?
Tuttavia, ci si può interrogare sull’operatività effettiva di una regola costituzionale in economia. La limitazione dell’azione discrezionale del governo può portare al disastro come l’esempio dell’Austria negli anni Venti e Trenta [14] . Il paese aveva sperimentato subito dopo la prima guerra mondiale, una grave crisi iperinflattiva. I governanti avevano pensato bene di introdurre nella nuova costituzione del paese l’interdizione del deficit di bilancio. Ciò si era tradotto, in un primo tempo, in un chiaro successo e l’Austria aveva riacquistato la stabilità monetaria. Accadde che, nella seconda metà degli anni Venti, il sistema bancario austriaco subisse una grave crisi in gran parte prevedibile, in quanto il paese aveva ereditato le maggiori istituzioni finanziarie dell’ex impero austro-ungarico. Le sue banche bene o male avevano dovuto sopravvivere in uno spazio ormai frammentato.
Il governo austriaco aveva dovuto, dopo la crisi del sistema bancario, ricapitalizzare la principale istituzione finanziaria; niente di più normale [15] . Solo che, per compiere questo passo, il governo austriaco ha dovuto prevedere durante l’esercizio spese aggiuntive e così infrangere la Costituzione. Per non provocare una crisi politica, decise di tenere segreta la decisione. Il segreto fu rivelato, distruggendo rapidamente la reputazione del governo e trascinandolo verso una ulteriore grave crisi monetaria. Il deficit di bilancio necessario alla ricapitalizzazione del sistema bancario austriaco era in realtà insignificante e del tutto incapace da solo di indurre una destabilizzazione massiccia. Ma ciò che contava era la violazione della regola e non l’ampiezza dell’infrazione a quest’ultima. Vediamo qui che, per acquistare a buon mercato reputazione monetaria, le autorità austriache si erano messe in una posizione tale da privarle della capacità di rispondere a nuove crisi.
L’insegnamento da trarre dalla celebre crisi della Creditanstalt [16] è che il potere non è in grado di prevedere la natura delle crisi future. Non c’è niente di più hayekiano del resto di questa constatazione. Tuttavia, la sua conseguenza è che si deve lasciare la libertà di azione discrezionale al potere. Perché un sistema di regole costituzionali sia in grado di sostituire tale azione dovrebbe essere in grado di prevedere tutte le crisi future e che esse siano iscritte nelle norme; che disponga inoltre della certezza che tali regole potranno essere modificate ad un ritmo compatibile con gli sviluppi della crisi. Ma, per avere una certezza in questa materia, dobbiamo anche conoscere il comportamento di queste crisi a venire; siccome ci manca questa conoscenza (a causa dell’esistenza di quella stessa incertezza che giustifica l’esistenza di regole in realtà) e, in realtà, abbiamo esperienze contrarie che mostrano l’incapacità delle regole di automodificarsi, ogni attore, pur il più convinto dalla logica formale del ragionamento di Hayek, può presumere che ci sarà una frazione significativa della società interessata a spingere per un ritorno alla azione discrezionale in caso di crisi. Dal momento che non si conosce l’esito di questa pressione, non si può escludere a priori il suo successo. L’agente razionale deve integrare nel suo comportamento l’interferenza possibile dell’azione di governo. Egli considererà allora logicamente le regole come potenzialmente discutibili. Queste ultime non possono influenzare il suo comportamento nella direzione desiderata dagli argomenti di Hayek. In altre parole, l’uso della norma costituzionale in economia, se non per pronunciare ipotesi di onniscienza, non elimina il rischio di incertezza radicale. Al contrario, omettendo di organizzare una via di uscita attraverso il riconoscimento della legittimità dell’azione discrezionale, essa stessa scaturita da un governo democratico, questo ricorso all’ordine costituzionale introduce ulteriore incertezza, quella sulle conseguenze dell’emergere della soluzione alla crisi.
La valutazione di congetture necessarie e il problema della loro coerenza
Il costituzionalismo economico, e più in generale l’approccio di affidare le decisioni economiche a degli esperti a scapito della rappresentanza popolare e democratica, poggia su una serie di congetture. Queste devono essere spiegate in modo chiaro separando due problemi: quello della necessità di norme, che deriva dalla presenza di incertezza [17] e quello della loro esteriorità presunta in relazione al campo politico.
La congetture indispensabili e le congetture necessarie
In primo luogo, si deve presumere che le regole sono necessarie per la decisione di agenti e che esse non sono il risultato di massimizzazione dell’utilità attesa, per usare il gergo della teoria economica [18] . Dobbiamo quindi supporre che l’esteriorità di queste regole nei confronti del gruppo o della comunità di attori, questa esteriorità sia essa assoluta o relativa, è una condizione di efficacia del sistema di regole. Si hanno già qui due congetture, appartenenti alla stessa logica. Si nominerà A1 la congettura sulla necessità di regole e rispettivamente A2 e A2’ le congetture rivolte alla esteriorità di queste regole in relazione al gruppo, a seconda che si tratti di totale (A2: i membri del gruppo disciplinati da tali norme non possono modificarle) o relativa (A2 ‘: un cambiamento è possibile, ma difficile).
Inoltre, si deve presumere che la funzionalità o l’efficacia di una regola è di per sé sufficiente a stabilire la propria autorità su tutti, o almeno sulla maggioranza dei giocatori del gruppo implicato. Il rispetto della regola prevale sulla questione della sua origine, e la questione delle forme da rispettare diventa principale in relazione al procedimento che ha dato luogo a questa regola. Si denominerà questa congettura B.
E’facile mostrare che A2 e A2′ implicano A1 senza che il contrario sia necessariamente vero. Molti economisti, tra questi John Commons [19], JM Keynes, Gunnar Myrdal [20] , hanno ritenuto necessario l’esistenza di norme, in accordo con Hayek su questo punto [21] . Non hanno però difeso posizioni del tipo del costituzionalismo economico. La capacità dei partecipanti di cambiare le regole, di trasformarle era, per questi economisti, una condizione importante per l’efficienza del sistema. Questa capacità, allora, implicava il dibattito pubblico e l’azione di governo al minimo. Infatti, come dimostrato da François Guizot [22] (anche da John Commons), deve essere aggiunta l’azione collettiva. Se l’affermazione di una ipotetica necessaria esteriorità delle regole passa per l’affermazione della loro necessità d’esistenza, tale ultima affermazione non implica un’affermazione di esteriorità.
La giustificazione del principio di regole in condizione di esteriorità
Per passare da A1 ad A2 si devono mobilitare altre ipotesi, in particolare sul comportamento degli agenti. Di contro, è chiaro che la congettura A1 è direttamente collegata a una analisi delle capacità cognitive degli agenti. La congettura A1 è quella che oppone gli eterodossi ai neoclassici. Affermare che non possiamo decidere senza regole porta in effetti a respingere le ipotesi di informazione perfetta della teoria neoclassica [23] . Tali regole possono inoltre rivelarsi non essere che le procedure le quali, per dirla con le parole di J.M. Keynes “salva i nostri volti in tanto che agenti economici razionali [24] . “ Questa congettura fonda il paradigma istituzionalista e giustifica la nozione di razionalità procedurale opposta a quella di razionalità massimizzatrice [25] .
Inoltre, la congettura A2, la quale implica che una esteriorità totale delle regole è necessaria, implica necessariamente una nuova congettura B. Per stabilire una esteriorità totale della regola in relazione al gruppo che essa governa, devono essere in grado di dimostrare che la funzionalità di una norma è del tutto sufficiente per stabilire la propria legittimità. In altre parole, questa regola continua a funzionare indipendentemente dalle circostanze. Ma questo implica che o le persone che hanno creato queste regole sono onniscienti, o che stiamo ancora sempre affrontando gli stessi problemi, vale a dire che siamo in una specie di stato stazionario. Si arriva così in fretta a un ragionamento circolare, come mostrato da Oskar Morgenstern [26] . Questi due punti sono facili da confutare, anche se è chiaro che il primo (onniscienti) è il fondamento stesso di ogni teoria di un governo di esperti. Per contro, A2’, l’ipotesi che implica che le regole possono essere modificate in determinate circostanze e in certi limiti, può sopravvivere a una confutazione di B.
La congettura A2 costituisce la base del costituzionalismo economico nel senso stretto del termine, quando il potere politico non può più intervenire nelle regole economiche con leggi o regolamenti. In questo caso, non c’è posto per la politica. Lo spazio di discussione è completamente assorbito sia dalla logica tecnica (e quindi la famosa ingegneria istituzionale cara ad Elia Cohen [27] ) sia dall’impulso morale per gli effetti delle misure (vedi i pianti di Olivier Blanchard [28] , diventato così uno dei maestri pensatori del FMI). La congettura B è quindi necessaria ad ogni tentativo di esternare alcune decisioni economiche dalla sfera politica.
Il problema latente del positivismo giuridico
Se, con ogni evidenza, questi due problemi sono correlati, tuttavia essi giustificano discussioni chiaramente separate nella misura in cui la totalità delle congetture A non dipende da B.
La congettura B, significa la naturalizzazione dell’economia.
La congettura A2 non pone alcun problema, se non ad un economista neoclassico. La congettura B, non può essere discussa che a partire da una valutazione di ciò che significa la legittimità delle regole e del perché una tale nozione è fondamentale. Al di là, è l’intero ragionamento che considera sufficiente il solo rispetto delle procedure, la legalità, che è in causa. Il punto è essenziale. Ci rinvia alla conclusione della prima parte di questo testo ossia le contraddizioni che sono identificabili nel seno stesso del ragionamento del costituzionalismo economico.
Hayek, il personaggio all’origine della popolarità del costituzionalismo economico, ha preso coscienza, verso la fine della sua vita, di questa contraddizione. Ha ammesso in un libro, nel 1979, la necessità di garantirsi una flessibilità nel processo decisionale riguardanti le regole economiche [29] , senza la quale l’ordine spontaneo era suscettibile di sfociare nel caos [30] . A tal fine, ha messo a punto un complesso sistema politico in cui l’autorità determinante sarà affidata ad una assemblea elitaria molto somigliante ad una corte [31] . Questa assemblea doveva essere guidata dall’esperienza dei suoi membri e attraverso l’esistenza di norme immanenti che trovano la loro origine in un legame con la filosofia di Kant [32] .
Questa soluzione non fa che rafforzare le contraddizioni del pensiero di Hayek. La compatibilità tra le norme immanenti e un funzionamento pluralista della società pluralistica implica una omogeneità degli agenti e delle loro situazioni inesistente nelle società moderne. È necessario scegliere tra l’abbandono del pluralismo, il ritorno alla tradizione, esplicitamente ripudiati da Hayek [33] , oppure l’abbandono dell’idea di norme morali immanenti e il riconoscimento dell’eterogeneità come principio fondamentale delle società moderne [34] con la sua logica conseguenza: il principio del conflitto e dell’azione collettiva per far emergere nuove regole. Soltanto, se si adotta questo atteggiamento, il cuore stesso del percorso di Hayek, si deve quindi rinunciare alle sue soluzioni e in particolare al suo impegno costante di detronizzare la politica [35] .
Nel momento in cui la questione del quadro politico, la governance è diventata un punto di passaggio obbligato del discorso economico, è chiaro che ciò che noi chiamiamo “ governance democratica” è più che altro il mero rispetto della legalità. La relazione tra questi due concetti, legalità e legittimità, deve essere dunque esaminato per capire cosa si sottende dietro l’apologia delle Costituzioni economiche; non è altro che una riproposizione fatta dagli economisti del positivismo giuridico di Hans Kelsen [36 ] .
Legalità, legittimità e le aporie di Carl Schmitt
di Jacques Sapir
La formulazione legalistica, “è giusto tutto ciò che sia stato deciso all’interno di regole definite” è tipica del positivismo giuridico. Ora, e ne abbiamo già accennato, è possibile concepire che ciò che è legale sia ingiusto, in altre parole che il rispetto delle regole sia insufficiente a fondare l’autorità di una decisione, o a fondare l’autorità di un agente che abbia il ruolo di mettere in atto decisioni. La distinzione fra legale (che si può vagliare in sede giudiziaria) e giusto (che si deve vagliare alla luce della giustizia) importa pensare la nozione di legittimità. Per comprendere tutta l’importanza di questa nozione di legittimità dobbiamo abbandonare, per un momento, il dominio economico: è necessaria un’incursione nel dominio giuridico, che ci porta a esaminare la critica portata da Carl Schmitt alla democrazia “legalistica”.
Nella sua opera Legalità e legittimità [i], Schmitt difende l’imperiosa necessità di distinguere il giusto dal legale. A questo scopo, articola una critica del liberalismo su una critica dei fondamenti del legalismo democratico[ii]. Questo attacco alla democrazia e al potere della maggioranza consente di comprendere a quale scopo miri. Bisogna anzitutto presentare questa critica, soppesarne la pertinenza e i limiti, per riformulare poi una visione della democrazia che non cada sotto il fuoco delle critiche che si dimostrino motivate, e mostrare che la nozione di legittimità non solo è compatibile, ma in realtà necessaria alla comprensione della democrazia.
La critica schmittiana alla democrazia “legalistica”
Per articolare la sua critica della democrazia, Schmitt delimita le forme politiche presenti e passate in quattro idealtipi: lo Stato legislatore, lo Stato giurisdizionale, lo Stato governativo e lo Stato amministrativo. Lo Stato legislatore viene definito come la forma d’espressione compiuta dell’idea di norme generali e impersonali. Il potere non è più potere degli uomini, ed è divenuto potere delle leggi, ma le leggi non “regnano”, esse si impongono come norme generali. Ci troviamo di fronte a una spoliticizzazione totale.
“Secondo il principio fondamentale delle legalità o della conformità alla legge, che regge tutta l’attività dello Stato, si giunge in fin dei conti a rifiutare ogni forma di controllo e di comando, perché il diritto positivo entra in vigore in modo affatto impersonale. La legalità di tutti gli atti di governo forma il criterio dello Stato Legislatore. Un sistema legale completo erige in dogma il principio della sottomissione e dell’obbedienza, e sopprime ogni diritto d’opposizione. In una parola, il diritto si manifesta per mezzo della legge, e il potere di coercizione dello Stato trova la sua giustificazione nella legalità.[iii]”
Il legalismo viene dunque presentato come un sistema totale, impermeabile a ogni contestazione. Per corroborare la sua argomentazione, Schmitt rifiuta rapidamente le distinzioni antiche, quali Potere sovrano/Società, autorità/libertà. Ciò che lo conduce a considerare che i modelli tradizionali, sviluppati da Platone e Aristotele, essendo Stati senza amministrazione, non sono Stati, e di conseguenza inadatti a pensare il mondo moderno.[iv] Il sistema degli idealtipi è anch’esso pensato come una serie di coppie di opposti. Lo Stato Legislatore (il modello della democrazia legalistica) si oppone così allo Stato governativo (quello del Sovrano onnipotente), come lo Stato Giurisdizionale (il potere del giudice) si oppone allo Stato Amministrativo (il potere della burocrazia). La messa in opera dei piani economici (in particolare in URSS) traduce, per Schmitt, la trasformazione dello Stato moderno in Stato amministrativo, che diviene Stato totalitario in quanto le sue prerogative sono totali. Quest’ultima affermazione interpreta la pianificazione, così come si verificò nell’effettualità storica, per un’applicazione del metodo razionale, quando in realtà essa fu, nel caso dell’URSS, una manifestazione di potere personale[v]. Le coppie di opposti fra idealtipi rinviano ad altre opposizioni, che non sono meno importanti. La definizione che dà Schmitt delle caratteristiche dei suoi modelli di Stato consente di distinguere spazi politici differenti. A uno spazio in cui domina la decisione, e al quale corrispondono sia lo Stato Governativo sia lo Stato Amministrativo, s’oppone uno spazio retto da norme immanenti, tecniche o metafisiche. Questo spazio corrisponde insieme sia allo Stato Giurisdizionale, lo Stato dei giudici, sia allo Stato Legislatore. Allo stesso tempo, si individua uno spazio in cui lo Stato è necessariamente impersonale, e nel quale si ritrovano tanto lo Stato Legislatore quanto lo Stato Amministrativo, e uno spazio nel quale lo Stato è fortemente incentrato sulla persona del dirigente, e che corrisponde così allo Stato Governativo come allo Stato Giurisdizionale.
Questa doppia opposizione fra norma e decisione d’un canto, tra personalizzazione e spersonalizzazione del potere dall’altro, non è meno importante di quella tra le forme di Stato, per comprendere l’approccio di Carl Schmitt.
La critica della democrazia
Dopo aver sviluppato questo sistema di classificazione, Schmitt concentra un certo numero di critiche sullo Stato Legislatore, perché esso, a suo avviso, simboleggia il punto d’arrivo dei regimi democratico-parlamentari e del liberalismo. Queste critiche rivelano una terza opposizione, che si esplicita gradualmente: quella fra legalità e legittimità, nozione, quest’ultima, che in Schmitt rinvia a un diritto naturale d’ordine palesemente trascendente.
“…la nostra epoca è fortemente dominata da una finzione, quella della legalità, e tale credenza in un sistema di rigorosa legalità si oppone manifestamente, nel modo più netto, alla legittimità di ogni volontà ragionevole e ispirata dal diritto…” [vi]
Schmitt argomenta così che il parlamentarismo liberale crea le condizioni in ragion delle quali la legalità soppianta la legittimità, e il potere della maggioranza il diritto. Il formalismo che ne consegue è, a suo avviso, la manifestazione di questa finzione di legalità, e conduce alla rovina lo stesso Stato Legislatore.[vii] In effetti, uno Stato così ordinato è sempre minacciato di dissoluzione dai conflitti che conseguono dalla partecipazione delle masse alla politica.[viii] Schmitt potrebbe rassegnarsi a uno Stato legislatore se non fosse democratico, ma egli sottolinea che se un tale Stato è anche democratico, allora la volontà popolare si confonde con lo Stato di diritto, e lo Stato non essendo più limitato dalla legge, cessa di corrispondere al modello di Stato Legislatore.
Questa posizione deriva dal fatto che, nella teoria liberale, una legge è legale se è stata elaborata e varata nelle procedure stabilite dalla legge. L’autoreferenzialità di questa situazione concentra, a giusto titolo, le critiche di Schmitt. Da queste critiche consegue una netta preferenza per lo Stato Giurisdizionale, perché intrinsecamente conservatore. C’è, qui, un’interessante prefigurazione delle tesi che saranno esposte da Hayek nella sua opera della vecchiaia The Political Order of a Free People[ix], e che sembra collegare questi autori apparentemente tanto inconciliabili[x]. Però, Schmitt è consapevole che il potere del giudice implica l’omogeneità delle rappresentazioni. Questo non è possibile altrimenti che in quella che egli definisce situazione “calma” o “normale”. Si ritrova qui un problema presente in Bourdieu, nella sua nozione di “habitus” in economia.
Se non è questo il caso, se le rappresentazioni non sono omogenee – come avviene in periodi di crisi – questa forma di Stato non è possibile. Pertanto, di fronte a quella che Schmitt ritiene “la finzione” dello Stato Legislatore, l’altra forma di Stato che riesce a mantenere un legame con la “realtà materiale” e non soccombe al formalismo è lo Stato Amministrativo. Il quale non può, d’altronde, derivare dalla legalità. Esso è governato dall’obiettività, dal fatto indiscutibile, e l’obiettività non può costituirsi in legge.[xi]
La critica di formalismo, di distacco dal “mondo reale”, costituisce dunque la direttrice d’attacco alla democrazia che Schmitt privilegerà. Egli prende di mira, qui, le concezioni di democrazia parlamentare in cui dominano l’idea dell’omogeneità e della bontà dei partecipanti. Se si desse questo caso, la questione della legittimità si risolverebbe rapidamente. In effetti, la questione della legittimità è importante perché in ogni legge c’è contemporaneamente una massima del diritto (un contenuto) e un comando, e quest’ultimo è una diminuzione della libertà degli individui. Una società nella quale tutti i partecipanti fossero effettivamente omogenei e buoni, avrebbe necessariamente un legislatore informato dell’equanimità e della ragionevolezza sufficienti a conferire legittimità alle leggi.
E’ allora facile, per Schmitt, fare dell’ironia sulla democrazia reale e le sue maggioranze opportunistiche, che tuttavia si presumono sempre capaci di esprimere leggi che esercitano un totale predominio sulla società. La deriva reale (e siamo tentati di aggiungere, realistica) dalla nozione di volontà del popolo a quella di volontà contingente dei suoi rappresentanti è tollerabile solo se i rappresentanti sono in armonia con il popolo, e il popolo è buono.[xii] Se il popolo non è né buono, né unito, né omogeneo, allora la regola maggioritaria segna la fine della giustizia e della ragione.[xiii] Bisogna dunque imbrigliare l’azione delle maggioranze per mezzo d’un riferimento a un ideale intangibile, che per Schmitt, deriva dal suo cattolicismo.
Proseguendo l’argomentazione, Schmitt propone una nuova critica alla democrazia parlamentare. Stavolta affronta le condizioni di funzionamento del sistema e la sua capacità di convalidare i propri principi. Sebbene abbia valutato che la legge democratica incorre in un grave rischio di illegittimità, Schmitt fa una concessione alla democrazia parlamentare: che qualora vi si dia concorrenza davvero libera fra tutte le opinioni, allora, in effetti, la maggioranza rappresenterà la maggioranza del popolo. Ma c’è un’obiezione fondamentale. Il principio maggioritario è per essenza contrario a tale libera concorrenza, perché una maggioranza o domina pienamente o non domina affatto. Ora, se la maggioranza domina pienamente, non si può più pensare che vi sia libera concorrenza delle opinioni. La minoranza è sempre sfavorita. Pertanto, essa non può difendersi, se accetta di porsi nella logica legalistica dello Stato legislatore. In effetti, una volta che il rispetto delle forme definisce simultaneamente legalità e legittimità di un atto, tutto ciò che sia stato deciso da una maggioranza è legittimo.
Ne consegue, che, per ipotesi, in questo sistema non potrebbe darsi tirannia, perché il potere rispetta sempre le forme legali. Il concetto di tirannia, e dunque la legittimità della disobbedienza, in queste condizioni non è più pensabile. Importerebbe che alle leggi della democrazia si opponessero le leggi di un Diritto metafisico. E’ Antigone al cospetto di Creonte.
“Il privilegio di mettere in opera la legge esistente conferisce alla maggioranza il possesso legale della potenza pubblica; per mezzo della quale essa dispone di un potere politico che supera di gran lunga il semplice valore della legge”[xiv]
Nella democrazia, dunque, è insita una contraddizione fondamentale. Uno Stato Legislatore fondamentale che rinunciasse formalmente al principio della libera concorrenza non potrebbe essere democratico. Ma il presupposto di legalità di cui beneficia la maggioranza distrugge il principio di libera concorrenza, che diviene principio puramente formale in ragione del semplice funzionamento della regola maggioritaria.[xv]
Il formalismo giuridico e suo cugino, l’antirealismo dell’economia neoclassica
La critica di Schmitt contro la democrazia è duplice. Essa è insieme una critica di immoralità (non si può più distinguere il giusto dal legale) e di impossibilità (le condizioni dell’operatività sono contraddittorie rispetto ai principi fondamentali)
In effetti, e contrariamente all’ordine di presentazione degli argomenti in Legalità e legittimità, la seconda critica fonda la prima. E’ perché la democrazia parlamentare non può funzionare nel mondo reale come nel modello ideale, che sorge il problema della distinzione fra legalità e legittimità. Allora ne consegue l’immoralità di un sistema che pretende di essere unica giustificazione a se stesso, e che ha rotto con le basi stesse del Diritto. Se si ricusano le visioni idealistiche del popolo unito, omogeneo e buono, e se si rifiuta anche l’erezione a feticcio della libertà individuale, si esce dal modello idealistico che è oggetto delle critiche di Schmitt. Ciò non significa che le sue critiche possano essere scartate alla leggera, ma l’argomentazione di Schmitt perde sia in forza sia in coerenza.
Il rifiuto delle basi cattoliche che fondano, in Schmitt, la superiorità del Diritto sulla decisione maggioritaria, non è un’argomentazione sufficiente, di per sé, a confutare i suoi argomenti. E’ certo inaccettabile la pretesa di fondare un ragionamento che si vuole scientifico su un atto di fede. Una credenza metafisica è rispettabile solo se si presenta per quel che è. Ma ogni tentativo di far assumere a una credenza religiosa il ruolo di argomento scientifico, che sia in questo preciso contesto con la nozione di Diritto immanente o in quello dell’armonizzazione degli interessi privati per mezzo della Mano Invisibile, raffigurazione di Dio in Adam Smith, per tacere dei meta-valori kantiani in Hayek, è affatto inaccettabile. Non si possono introdurre in una discussione argomenti per definizione indiscutibili. Così, la dimensione teologica dell’analisi costituzionale in Schmitt deve essere respinta, come d’altronde ogni dimensione teologica nel campo delle scienze sociali. Ciò non significa che tutto il ragionamento sia riducibile a questa dimensione teologica. In Carl Schmitt ci sono elementi di analisi realistica che esigono d’esser discussi, e possono dimostrarsi utili per tentar di comprendere meglio il rapporto fra regole di organizzazione e regole di funzionamento. Il suo rifiuto di una naturalizzazione della politica è, incontestabilmente, uno spunto critico positivo, anche s’egli ha torto di fondarlo su una sorta di feticismo della forza.
La necessaria distinzione fra legalità e legittimità è un punto sul quale Schmitt ha avuto ragione di insistere. L’assenza di distinzione fra le due nozioni nel moderno, corrente liberalismo, e la sua erezione in feticcio dello Stato di diritto come Stato della legalità, è certo una delle tendenze più pericolose per la democrazia stessa. La denuncia schmittiana del formalismo della democrazia parlamentare ci riguarda, perché Schmitt affronta concezioni che, in un certo senso, non sono meno idealistiche delle sue, ma senza possederne la coerenza. La domanda che implicitamente si pone è dunque se sia possibile giungere a una definizione né formalista né metafisica del problema della legittimità. Come si possa distinguere il giusto dal legale senza invocare principi che non possono formare oggetto di discussione perché pertengono alla dimensione della credenza. Ciò non si può fare, come vedremo in seguito, che introducendo la nozione di sovranità.
La legge, la contestazione della legge e la legittimità
Nella sua presentazione dello Stato Legislatore, l’idealtipo utilizzato implica un’ipotesi di completezza. Per poter escludere, come Schmitt afferma, ogni azione discrezionale e non lasciarsi guidare che dalla legge, è indispensabile che essa abbia integrato la totalità dei modi di essere del mondo presenti e futuri. Se la legge non è completa, se essa non ha previsto tutto, diviene contestabile, sia nella massima di diritto che essa contiene, sia nel comando che la caratterizza. Questa contestazione deve potersi risolvere in modo positivo. Dovrà dunque essere possibile modificare la legge, o interpretarla. Ora, essa non può essere modificata o interpretata se non attraverso una creazione, un atto dell’immaginazione, che in quanto tale sfugge alla lettera della legge.
Ammettere l’incompletezza delle leggi importa dunque definire sia chi potrà contestarle, sia i principi in ordine ai quali potranno effettuarsi tanto l’interpretazione, quanto la modifica della legge. Il semplice obbligo di discutere lo spirito di un atto legislativo fa uscire dal quadro dell’applicazione meccanica e spersonalizzata proprio allo Stato Legislatore. Si esce da un sistema di norme per ritornare verso un sistema di decisioni politiche.
La completezza, poi, in quanto tale importerebbe la perfezione. Un legislatore non può produrre leggi complete (tutto è stato già previsto) a meno che non sia perfetto, nel senso di esser capace di disporre di un’informazione perfetta. E qui ci troviamo di fronte – sorpresa, sorpresa! – a un modello corrispondente al modello economico neoclassico in materia di ipotesi sulla natura degli agenti, dell’informazione e delle decisioni. La legge, nello Stato Legislatore, è l’equivalente del contratto perfetto e completo del modello walrasiano in economia. In un modello così concepito, le istituzioni e le organizzazioni sono inutili e nocive. Ecco perché questo modello dello Stato Legislatore è in realtà un antistato, un sistema antipolitico.
Se ora, in nome del realismo, espungiamo dal dominio del diritto questa ipotesi di perfezione, e di conseguenza quella di completezza, stabiliamo un parallelismo impressionante con l’evoluzione d’una parte del pensiero economico. Si procede allo stesso modo per quanto concerne le ipotesi d’informazione perfetta o di conoscenza completa. Queste ultime sono state espunte dal quadro dell’Equilibrio Generale, o persino confutate (Hayek) con risultati devastanti sulla possibilità stessa di un equilibrio. D’altronde, gli economisti cominciano a prendere sul serio il diritto quando escono dal quadro dell’Equilibrio Generale.
Se i contratti non sono né perfetti né completi, le dispute tra contraenti divengono inevitabili. Su quali basi possono essere risolte? La risposta logica ed evidente consiste nel mobilitare un sistema di istituzioni, che includa ad esempio il diritto di proprietà e gli strumenti capaci di verificarlo. Ecco perché sono sempre più numerosi gli economisti standard che fanno dello Stato di diritto una delle condizioni fondamentali per il buon funzionamento di un’economia di mercato. Il problema è che non vedono le conseguenze ultime del loro abbandono dell’ipotesi dell’informazione perfetta.
In effetti, non basta reintrodurre formalmente la nozione di istituzione per cavarsela. Come nelle leggi c’è un principio di diritto e un comando, in un’istituzione abbiamo un riferimento al diritto e dei mezzi di coercizione. Il ricorso alla coercizione solleva immediatamente la questione di sapere in nome di che cosa e in nome di chi si esercita questa violenza. Quanto al diritto che si invoca, esso è semplicemente l’espressione di una maggioranza o rinvia a principi eterogenei? Ritroviamo immediatamente il problema della distinzione tra legalità e legittimità, ma ad esso se ne aggiunge un altro: quello della sovranità. Bisogna dunque andare a fondo del ragionamento. Non è semplice, per gli economisti, perché sono sempre portatori inconsapevoli di un modello di legge perfetta, finché non hanno completamente abbandonato l’ortodossia economica.
La legge perfetta e la moneta totale
Nel dominio del diritto, se si respingono le ipotesi antirealistiche di un’informazione perfetta e completa, la stretta legalità non potrà mai essere, sempre e in ogni situazione, l’unica giustificazione delle azioni dello Stato. Sono indispensabili altre giustificazioni, il che ci porta ad affrontare la questione di una legittimità che non può procedere dalla sola legalità. Possiamo dunque osservare che una critica di tipo realistico parallela a quella che s’impone nel dominio dell’economia fa emergere la distinzione legalità/legittimità prima ancora che si proceda alla critica delle visioni idealistiche della democrazia.
Ciononostante, il parallelismo tra pensiero economico e pensiero giuridico non si ferma qui. Bisogna allora prender coscienza dell’importante somiglianza tra lo Stato Legislatore schmittiano e un’economia monetaria perfetta.
Le caratteristiche del sistema, in particolare la spersonalizzazione fondamentale dell’azione e il ruolo delle norme, sono vicine a quelle dell’economia monetaria perfetta descritta da G. Simmel[xvi]. Da un canto la moneta fonda la possibilità dello scambio perfettamente impersonale, una relazione che abolisce la distinzione amico/nemico e fa dello “straniero” il partner ideale[xvii]. Dall’altro, la moneta genera progressivamente un sistema coerente di norme che la mettono al centro delle rappresentazioni degli attori, in ragione della sua apparente capacità di rendere tutto equivalente. La funzione essenziale della moneta è qui quella dell’Unità di Conto. Se tutto ciò fosse vero e sufficiente, allora una soluzione come il Currency Board (o Consiglio Monetario), che mira appunto a preservare anzitutto la stabilità dell’unità di conto, sarebbe giustificata. Il modello dell’economia monetaria perfetta in Simmel è adeguato a Costituzioni di tipo economico, almeno in ciò che concerne la gestione della moneta.
Ma Simmel – cosa che i suoi epigoni dimenticano spesso – mentre formula questo modello di economia perfetta, è consapevole che si tratta di un mondo impossibile. Nella seconda parte della sua opera, Simmel analizza la dimensione culturale della moneta. E dimostra che una società dominata da un’economia monetaria perfetta dovrebbe essere regolata dal calcolo matematico applicato in modo continuo e sistematico[xviii]. Cioè a dire, null’altro che il mito della razionalità massimizzante considerata come forma unica della razionalità, caro ai partigiani dell’Equilibrio Generale, e che è stato confutato dalle opere di Herbert Simon, Amos Tversky e Daniel Kahneman. Si sa bene, d’altronde, che stabilire la razionalità massimizzante come unica forma di razionalità presuppone l’informazione perfetta, la conoscenza totale o uno stato stazionario della società. In realtà, Simmel ne era perfettamente consapevole, anche se il suo vocabolario è, evidentemente, diverso da quello in uso nei lavori contemporanei. E’ questo, che lo portava a rifiutare l’idea di un’economia monetaria perfetta come possibile modello normativo ad uso delle economie reali. Ecco perché Simmel afferma l’esistenza, accanto alla moneta, di altri tipi di legame sociale e di altre istituzioni. Simmel era consapevole che una società il cui cemento non sia un insieme di istituzioni combinate e interagenti, e che dunque non è possibile isolare l’una dall’altra nell’analisi, non potrebbe condurre che all’anomia[xix].
Se ora consideriamo il modello dello Stato Legislatore nella prospettiva di questa analisi, si manifesta chiaramente che questo idealtipo costituisce il modello implicito o esplicito di un’economia monetaria perfetta. E’ un mondo totalmente governato dal calcolo razionale, e dominato da uno standard [étalon] assoluto, la moneta Unità di Conto. L’assenza di qualsivoglia decisione nella società (l’applicazione delle leggi in questo modello non costituisce più una decisione, in quanto questo tipo di leggi non riflette più la scelta di un attore) crea le condizioni perché la moneta appaia l’unico legame sociale.
Questo è esattamente il feticismo del denaro, come lo descrive Marx ne Il Capitale. I due immaginari politico ed economico comunicano, qui, attraverso visioni strettamente complementari. Reciprocamente, se si vuole porre la moneta al centro di tutti i legami sociali, e subordinare ad essa tutti gli altri legami, bisogna supporre un sistema politico dal quale la decisione (nel senso di scelta) sia esclusa. Ciò che logicamente conduce allo Stato Legislatore, con la sua confusione fra legalità e legittimità.
Questa convergenza non fa che manifestare l’evidenza seguente: se realmente noi potessimo calcolare tutto e giungere a una ed unica soluzione ottimale, detta soluzione sarebbe l’unica che potremmo adottare. In un mondo simile, né la scelta, nel senso di alternativa fra opzioni sia equivalenti sia incommensurabili, né la creazione sono possibili. Gli atti del decisore politico possono essere considerati come a-politici. Non traducono più degli arbitrati fra conflitti d’interesse o d’opinione. In un mondo in cui a ciascun problema corrisponde una e una sola soluzione, né il dibattito né il pluralismo hanno più senso. Gli agenti, supposti razionali anch’essi nella definizione neoclassica, non hanno alcuna ragione di ribellarsi contro un simile sistema. L’ipotesi di informazione perfetta istituisce le leggi come equivalenti a contratti perfetti nel senso walrasiano. Sono dunque leggi perfette e complete, i cui risultati bastano a se stessi. In queste condizioni, parlare di legittimità non ha più senso.
Il ritorno al reale e la necessaria contestabilità delle regole
Se ci si situa in una prospettiva realista, nel senso che abbiamo dato alla parola, i termini del problema cambiano in modo radicale. Se la conoscenza degli agenti è locale e limitata in un universo non-stazionario, il problema iniziale diviene quello della contestabilità di ogni decisione. Schmitt, dal canto suo, ne è ben consapevole. Egli mostra, infatti, che la non-contestabilità degli atti di governo non può riposare, salvo il caso estremo dello Stato Governativo, che su una norma. Norma che può essere la Legge, il Diritto, o una razionalità tecnica. Sono queste norme che fanno degli atti di governo degli atti a-politici, nel senso che non fanno più riferimento ai conflitti d’interesse o di opinione. Solo che, per fondare una simile normatività, bisogna riunire simultaneamente due condizioni (salvo che non si supponga la totale omogeneità degli agenti):
a) dev’esserci un accordo che sia insieme generale e permanente sulla norma
b) dev’esserci una capacità di leggere la totalità degli effetti dell’atto nei termini della norma adottata, quale che sia quest’ultima[xx]
In effetti, la compresenza simultanea di queste condizioni non è affatto evidente. Le condizioni necessarie rivelano i fondamenti degli immaginari politici che è indispensabile attivare per giungere a una depoliticizzazione dell’azione di governo. Se si suppone la presenza di una norma esauriente [saturante], Diritto Divino, Ragione Immanente o Determinismo Naturale, condivisa da tutti i partecipanti, allora per definizione a) implica b). Però, ciò rinvia alla irricevibilità di principio dell’introduzione di elementi metafisici come argomenti scientifici, oltre al fatto che l’esistenza di dette norme è più che dubbia. Se tutti i partecipanti non sono, sin dall’origine, persuasi da una stessa norma, soddisfare le condizioni di a) implica persuadere tutta la popolazione della pertinenza della norma esauriente. La quale non potendo essere discussa, perché attiene alla sfera delle credenze, il meccanismo della persuasione prende necessariamente la forma di un’opposizione credenti/non credenti, con tutto quel che ne può conseguire. Si scivola in effetti dal registro della persuasione a quello della conversione, con, a seconda dei gusti, inquisizioni, roghi, gulag…
Se la norma non è esauriente, bisogna riconoscere che essa può essere vagliata, magari in modo limitato. Il vaglio riguarderà sia il piano della coerenza interna, sia il piano del realismo[xxi]. In questo caso, a) dipende da b), nel senso che se b) non è possibile, allora a) diviene impossibile per definizione. Se la totalità degli effetti di un atto non può essere letta nei termini di una norma, allora quest’ultima non può costituire la base di un accordo generale. Ora, questa possibilità di leggere la totalità degli effetti ritorna a dare per presupposti, ancora una volta, sia l’informazione perfetta, sia la conoscenza illimitata, sia lo stato stazionario. A ciò si oppongono argomentazioni contrarie fortissime, tanto quelle di Hayek, quanto quelle del suo avversario nel dibattito Piano/Mercato, Otto Neurath[xxii]. Ammettere l’impossibilità di leggere la totalità degli effetti di un atto, ammettere dunque i famosi effetti non intenzionali familiari al lettore di Hayek[xxiii], importa ammettere l’impossibilità di soddisfare b), e dunque a). Bisogna dunque rinunciare all’idea di atti totalmente fondati su norme, e reintrodurre la politica attraverso i conflitti di valutazione, conflitti che riflettono le opposizioni d’interesse e d’opinione.
E’ un paradosso ironico constatare che qui, la fedeltà a certe tesi della scuola austriaca, e in particolare di Hayek, conduce esattamente a rifiutare il suo progetto di spoliticizzazione dell’economia. La sua onestà di ricercatore lo portava a rifiutare, a giusto titolo, le ipotesi di informazione o conoscenza perfetta. La sua posizione politica di profeta liberale lo portava a voler ridurre il più possibile lo spazio della scelta politica. Una contraddizione dalla quale uscì soltanto alla fine della vita, e per mezzo di un gesto che rende incoerente tutto il suo precedente lavoro, la rivendicazione di norme immanenti. Allo stesso modo, si vede bene che, appena si esca dalle ipotesi metafisiche soggiacenti all’esposizione di C. Schmitt, è proprio la sua argomentazione che ci riporta al punto che era sua intenzione escludere, il dibattito fra Principe e Popolo come fonte di legittimità. Gli atti legali ridiventano, allora, decisioni.
* * *
Così, la critica schmittiana di una certa concezione della democrazia fa esplodere il mito del legalismo autoreferenziale, proprio come la critica hayekiana della pianificazione centralizzata ha fatto esplodere il mito dell’equilibrio neoclassico. Ragion per la quale ogni economista che si ponga la questione delle istituzioni, delle regole, e delle relazioni che le une e le altre intrattengono con le comunità umane ch’esse organizzano non può rifiutarsi di vedere l’importanza primordiale della nozione di legittimità. Accettare questa realtà implica andare oltre, e comprendere come e perché legittimità e sovranità siano nozioni centrali, e collegate.
(III) Legalità, legittimità e l’ordine democratico
Vedi anche (I) Comment sommes-nous dépossédés de la démocratie e (II) Légalité, légitimité et les apories de Carl Schmitt.
Schmitt denuncia un’immoralità proprietaria nella democrazia parlamentare che si rivelerebbe in modo eclatante in quella che lui considera come la necessaria confusione fra diritto e legge in quello che lui chiama “sistema democratico”. Da questa confusione, quando si aggiunga il principio maggioritario, deriva quindi l’impossibilità di stabilire il principio di resistenza e ribellione. La legge è legittima perché è votata in un quadro fissato, esso stesso, dalla legge, e le maggioranze decidono le leggi. Dunque tutto ciò che decide una maggioranza è sempre giusto e legittimo e niente può e deve opporsi alla maggioranza. La ribellione è dunque sempre un crimine, tenuto conto dell’impossibilità di pensare la tirannia dentro un simile sistema (salvo per un potere che infrangesse la legge). Espresso in questo modo, abbiamo sotto la forma dello stato di diritto la peggiore delle tirannie.
Il pensiero economico dominante incastra Schmitt. Esso crede di trovare nella sua pretesa ad incarnare una scienza, la giustificazione delle sue pratiche. Per esso, il solo governo adatto a proteggerci dalla tirannia, di cui le maggioranze sarebbero ineluttabilmente portatrici in un sistema senza morale, sarebbe un governo tecnocratico che incarni la “razionalità” che deriva dalla massimizzazione. Il tecnocrate si sostituisce al giudice e lo Stato amministrativo allo Stato giurisdizionale. Eccoci presi fra due fuochi. O diamo il nostro consenso ad un sistema intrinsecamente immorale e portatore della tirannia delle maggioranze, oppure rimettiamo la nostra sovranità nelle mani dell’esperto (nello Stato amministrativo) o al giudice.
E’ allora logico proclamare che la democrazia non è che la libertà d’opinione e di discussione, nell’organizzazione di un immenso spazio di comunicazione che si moltiplica nel progresso della tecnica ( Facebook, Twitter). Ma questo è possibile solo al prezzo dell’abbandono del principio della decisione. Nel sopprimere la decisione della definizione della democrazia, si può in effetti credere che un tale sistema politico, dove il potere del popolo sarebbe limitato alla sola approvazione delle dotte decisioni, resti democratico. Ma a questo scopo occorre poter considerare la sovranità come un problema secondario e dunque limitarne drasticamente la rilevanza. Perché se la sovranità risiede anche nel grado di rilevanza delle decisioni che si prendono, allora l’abbandono della decisione diventa impossibile da giustificare.
Le questioni sollevate dalle critiche schmittiane alla democrazia, che non è in realtà che una forma della democrazia parlamentare, sono serie. Il rischio della dittatura della maggioranza esiste e il positivismo giuridico è un ostacolo radicale a pensare la democrazia in azione come anche la possibilità della giusta ribellione. Non si può dunque accontentarsi di rigettare le critiche formulate da Carl Schmitt e affermare, senza precisare oltre, che la regola maggioritaria debba imporsi sempre e ovunque. Non si può rispondergli in modo coerente ed evitando di ricadere nelle insidie del formalismo, se non definendo la natura di quello che sarebbe un ordine democratico.
La sollecitazione di Schmitt che consiste nel criticare la democrazia parlamentare per la sua immoralità può dunque essere confutata. Essa presta il fianco ad una critica in confusione dei livelli d’astrazione. Egli glissa volontariamente, ma senza avvertire, dal livello del’ideal-tipo a quello delle forme parlamentari realmente esistenti. Questo scivolamento è rivelatore d’una assenza nel dispositivo schmittiano, quello dell’analisi delle forme storiche dell’emergere.
Non che non ci siano descrizioni; a più riprese si troveranno nell’opera dei riferimenti a periodi storici dati. Ma queste descrizioni sono qui sia statiche, sia dinamizzate unicamente dall’ipotesi di un movimento, il liberalismo in azione, che punta a ridurre il potere di un Principe assolutista. La natura dei conflitti e della trasformazione della società che sottendono tali evoluzioni, è perfettamente assente.
L’assolutizzazione della libertà, il principio di densità e la necessità di regole
Una certa tradizione liberale si è dedicata a prendere sul serio Robinson Crusoe, dimenticando che Daniel Defoe non stava scrivendo né un reportage né una teoria sociale, ma un’opera religiosa. E’ sufficiente per convincersene, rileggere la prefazione che scrisse a questo grande romanzo. Si trattava di educare il lettore attraverso l’esempio e di fare l’apologia della saggezza della Provvidenza. Degli economisti, come Bohm Bawerk nel suo tentativo di stabilire la nozione di utilità marginale, l’hanno dimenticato credendo di vedere in Robinson una metafora sociale. La teorizzazione di tale visione delle società, che si potrebbero scomporre infinitamente in una semplice somma di individui, è nota. Nelle scienze sociali questo punto di vista prende la forma della posizione dell’individualismo metodologico. Ora le ipotesi necessarie all’individualismo metodologico nel suo senso stretto, non sono altro che le ipotesi sulla natura delle preferenze degli individui che sono alla base della microeconomia neoclassica. Queste ipotesi sono state invalidate dai risultati della psicologia sperimentale che portano alla forma e alla natura delle preferenze degli individui. Continuare oggi a richiamarsi ad una tale posizione non si tratta più di una scelta metodologica scientificamente accettabile, ma di partito preso ideologico.
Questo rinvia al principio della densità sociale. Il principio di densità costituisce un secondo principio fondamentale. Esso è stato aggiornato da Emile Durkheim che analizza l’esistenza e le conseguenze di ciò che lui chiama la densità materiale e la densità dinamica delle società. Questo principio è stato poi riscoperto dagli economisti in modo distinto. Proviene dalla costatazione che in una società in cui degli attori sono sia separati che interdipendenti, ogni azione iniziata individualmente piò avere degli effetti che non sono voluti sugli altri. Si chiamerà pertanto denso ogni sistema in cui ogni azione di un membro può avere almeno un effetto non intenzionale su almeno un altro membro. La funzione di densità di una società traduce quindi il grado di probabilità che un numero crescente dei suoi membri possa essere influenzato da un effetto non voluto di un altro membro. Poichè i progetti individuali d’azione sono il prodotto di una combinazione fra conoscenze e previsioni, questi piani possono essere rimessi in questione sia da cambiamenti nella struttura delle previsioni, che da modifiche nella conoscenza. Gli errori si rivelano agli attori come scacchi nei loro piani. Quand’anche sapessimo quali sono le conseguenze dei nostri atti che possono essere imputate alla nostra responsabilità, la definizione da parte di un individuo dato di un piano d’azione, implica di prendere in considerazione le azioni altrui. Se la società è veramente una società decentrata composta da attori eterogenei, non c’è alcuna istituzione che coordini ex-ante i diversi piani d’azione. L’incertezza sui piani altrui può essere talmente radicale da impedirci di agire mediante l’emergere di dissonanze conoscitive estreme. E’ quello che si chiama il “Paradosso di Shackle”. Per cui l’esistenza di una regolamentazione, nella misura in cui essa sia ragionevolmente rispettata, introduce una prevedibilità delle azioni altrui che discolpa di altrettanto le nostre capacità cognitive. Le regolamentazioni proprie di ogni società sono allora essenziali per due ragioni: organizzano dei trasferimenti di responsabilità alla collettività (sappiamo ciò di cui non potremo essere considerati responsabili), e costruiscono delle prevedibilità nei comportamenti altrui. Ciò milita a favore di regolamentazioni diverse, ma anche della loro possibilità di evolversi nel tempo. In effetti se un individuo fosse realmente solo e non in apparenza, altrimenti detto se la sua esistenza non dipendesse da beni, strumenti e utensili costruiti da altri, sarebbe allora condannato ad un’esistenza tanto breve quanto miserabile. La necessità immediata di sopravvivere gli leverebbe ogni libertà, e ben presto ogni desiderio, di fare altre cose. Potrebbe dire e voler fare ciò che gli sembrerebbe bene per lui, nessuno lo potrebbe sentire. La nozione di proprietà non avrebbe per lui nessun senso. Robinson Crusoe deve la sua sopravvivenza agli utensili ed agli strumenti che recupera sul relitto della nave. In ciò egli non è affatto solo perché è permanentemente accompagnato da quello che Marx chiama il lavoro morto realizzato da altri. Pertanto, e prima che compaia Venerdi, egli possiede tutto e dunque niente. Qualunque cosa faccia, non può che avere conseguenze solo su lui stesso. Come pretendere, a partire da un tale esempio, di dedurre una genesi delle regole sociali? Il rifiuto del principio di densità nella tradizione liberale ci dice una cosa. Questa tradizione liberale non vuole né può pensare il problema della vita in società. Così facendo essa si nega del tutto la possibilità di tenere un discorso realista sull’organizzazione politica della società. Gli unici discorsi che gli restano, nel momento in cui affronta i problemi concreti dell’organizzazione del coordinamento degli individui, sono naturalisti ed anti politici.
La natura sociale dell’essere umano
Se il concetto di libertà assoluta non ha senso, allora la libertà non dovrebbe costituirsi in ideale normativo sulla base del quale bisognerebbe giudicare le condizioni di funzionamento delle società reali. Concepire così le regolamentazioni come un “male necessario”, come ci incita a fare tutta la tradizione liberale, è un controsenso completo. Libertà e responsabilità sono le due facce dell’azione umana, come processo che si svolge in società, e dunque sottomesso al principio di densità. Ciò implica che può esserci solo responsabilità di fare e non di essere. Ecco cosa ci permette di rileggere i testi fondamentali sulle libertà pubbliche. La formulazione del primo articolo della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, sulla libertà e uguaglianza di ciascuno e di tutti, deve allora comprendersi non in una logica di riferimento a una libertà fondamentale originale e fondatrice, ma come l’affermazione di una radicale distinzione tra l’essere ed il fare. L’irresponsabilità radicale dell’essere, che bandisce le discriminazioni e le differenze (tranne quelle fondate sull’utilità comune) non risulta da una qualche natura umana. E’ la condizione necessaria alla nostra azione in società. Ecco perché la lotta contro le discriminazioni fondate sul sesso, l’origine etnica, la lingua e ogni altro elemento dell’essere non è una sollecitazione morale che si opporrebbe ad una sollecitazione sociale, ma è al contrario l’espressione più perfetta di una sollecitazione sociale. L’idealizzazione di una libertà assoluta, in economia come in politica, deriva da un’assolutizzazione dell’individuo. Questa idea è comune sia ad una tradizione politica che ad una tradizione economica. Essa implica necessariamente di supporre che ogni individuo possiede, nei suoi comportamenti sociali, delle capacità particolare indipendenti dal contesto. Una tale idea sfocia nel negare l’uomo come animale sociale e sullo sfondo non ci propone nient’altro che la vecchia immagine della creatura divina. L’assolutizzazione della libertà individuale diventa allora il migliore argomento per negare e restringere le libertà sociali reali. Se per caso noi possedessimo un’essenza fondamentale e unica, colui che ne avesse decrittato le leggi e le regole sarebbe abilitato a governarci senza limiti. L’assolutizzazione della libertà individuale è un ostacolo per pensare la democrazia fuori dall’idealismo o dal formalismo legale.
Qui le si oppone un’altra logica. L’uomo non è nato umano; viene umanizzato. La vicinanza sempre più grande, che ci svela la ricerca contemporanea, fra gli umani e i grandi primati, ce lo mostra. Questa umanizzazione dell’uomo ha una cornice: la vita in società. Ritroviamo qui Francois Guizot ed il ruolo decisivo delle lotte collettive per la messa in campo delle istituzioni, cioè del progresso della civilizzazione. Ciò implica che la cooperazione è primaria. L’uomo non è costruito tutto solo, su un’isola deserta, prima di andare verso i suoi simili. E’ costruito dentro una relazione sempre più ricca, sempre più densa, e sovente conflittuale, con i suoi simili. Le forme che questa cooperazione può prendere sono molteplici; esse includono le figure dell’asservimento. Ma per chi pensa che nessun essere può dominare il futuro, che le capacità cognitive e di informazione sono limitate -l’ipotesi di base dell’economia realista – allora l’asservimento in tutte le sue forme è un modo inefficiente di cooperare. Nessuno può dire ex-ante chi dei membri di una comunità avrà l’idea migliore, sarà portatore dell’innovazione più fruttuosa. La libertà di ciascuno è la sola garanzia per il progresso di tutti. Ma questa libertà non deve compromettere la cooperazione. Qualunque tentativo di un individuo di privatizzare a suo solo profitto ciò che gli apporta la collettività minaccia di retroagire sull’insieme dei funzionamenti della cooperazione. La libertà necessaria può anche essere portatrice dei pericoli dell’anomia. Essa può esistere efficacemente solo dentro regole.
Pensare l’ordine democratico
Abbandonare l’idea di un uso normativo della libertà individuale, restituire la nozione di libertà dell’individuo al suo contesto sociale, queste sono le sollecitazioni che permettono di acciuffare l’ordine democratico. Quest’ultimo vuole essere una soluzione ai problemi sollevati da Schmitt ed evocati più sopra. L’ordine democratico ha, quindi, due fondamenti. Prima di tutto è una sequenza logica che deriva dalla nozione di sovranità del popolo e dai vincoli che ne derivano quanto alle possibilità di devoluzione. La sovranità del popolo è primaria perché, in ogni ordine politico che si concepisca in uno spazio realista, la sovranità è primaria. Ricordiamo che è essa che organizza la legittimità, mentre quest’ultima rende possibile la legalità. Dunque nell’ordine democratico la sovranità del popolo è necessariamente primaria. Lo si constata mediante la coppia controllo/responsabilità fondatrice della libertà come si è visto più sopra. Quindi l’ordine democratico è una risposta al fatto che il coordinamento di decisioni decentrate, in una società che risponde al principio di eterogeneità, implica che degli agenti aventi posizioni diseguali si vedano inseriti in una posizione formale di uguaglianza. La coppia controllo/responsabilità deriva allora dal principio di densità; ne è una manifestazione.
Occorre ancora definire il popolo. La negazione delle frontiere è una sollecitazione tentatrice. Ci si ritrovano sia i difensori più accaniti della globalizzazione mercantile che i loro spregiatori internazionalisti più accaniti. L’idea di frontiera è a priori odiosa in quanto implica la separazione di esseri che la loro natura dovrebbe unire. Dire questo non è pertanto altro che pretendere che la natura dell’uomo esista al di fuori di qualunque relazione con una organizzazione sociale. Accettare e rivendicare invece che la dimensione sociale sia primaria, permette di comprendere che negare le frontiere significa negare ciò che rende possibile la democrazia, cioè l’esistenza di uno spazio politico dove si possa verificare sia il controllo che la responsabilità. Quest’ultima infatti non può accontentarsi, come in Jurgen Habermas, di essere semplicemente deliberativa. Per quanto si faccia, non si può evitare la questione della definizione relativamente precisa dei partecipanti alla deliberazione e della rilevanza delle loro decisioni. La questione dell’appartenenza, chi è dentro e chi è fuori, è inevitabile. L’appartenenza deve quindi essere territoriale e non legata ad una caratteristica dell’essere degli individui. Le frontiere costruiscono in realtà gli spazi politici senza i quali la democrazia non saprebbe funzionare.
L’ordine democratico allora oppone la nozione di costruzione dell’uguaglianza a quella di uguaglianza originaria. Rifiuta la confusione tra un ideale e una sollecitazione analitica. Non è quindi solo il prodotto della sequenza logica illustrata qui sopra, ma anche il prodotto di una posizione metodologica a favore del realismo. L’interesse pubblico, la famosa Res Publica configurata da Bodin, non è la condizione permissiva della democrazia. Al contrario è l’ordine democratico che è la procedura che permette la costituzione di una rappresentazione dell’interesse pubblico. Non c’è dunque, come pensavano i padri fondatori dei regimi democratici del XVIII.o secolo. un interesse pubblico “evidente” e dunque naturalmente condiviso da tutti. Invece, poiché siamo dentro società dominate sia da decentramento che da eterogeneità ed interdipendenza, abbiamo bisogno di un interesse pubblico come norma di riferimento per combattere le tendenze spontanee all’anomia ed alla defezione. L’ordine democratico è dunque agli antipodi della visione idealista della democrazia che crede di vedere in questo interesse pubblico il prodotto di un ordine naturale; in realtà non può che essere una costruzione sociale. L’ordine democratico è dunque anche una necessità funzionale per delle società sottomesse a tali vincoli. Dalla sovranità del popolo deriva allora una regola di devoluzione e tre principi che fondano il diritto specifico dell’ordine democratico. Si possono formulare questi ultimi nel modo seguente:
- Nessuno può pretendere il controllo senza assumersi la responsabilità degi atti derivanti dal suo controllo. La garanzia che tutti accordano al controllo di uno, s’accompagna alla responsabilità di uno davanti a tutti. La sovranità nazionale è allora la garanzia ultima dell’esercizio dei nostri diritti, come era espresso nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini della Costituzione del 1793.
- Nessuno può fissare un’unica modalità di coordinamento o escludere da questa modalità certe forme o certi membri della comunità. E’ la conclusione logica che occorre trarre dall’ipotesi della conoscenza imperfetta. Le discriminazioni fondate sull’essere dell’individuo o sulla sua origine sono per natura nulle ed ineffettuali. Nessun sistema politico, sia esso locale o nazionale, può essere fondato su delle differenze etniche, culturali, religiose, sessuali o altre.
- Abbiamo tutti, all’interno di una comunità che non può che essere territoriale, lo stesso diritto a partecipare alla costituzione, intenzionale o meno, delle modalità di coordinamento.
Le forme politiche che, in una società sia decentrata che interdipendente, non rispettassero questi tre principi, sarebbero illegittime perché incoerenti con lo stato della società. Le leggi traggono allora la loro legittimità dalle forme politiche nelle quali esse sono elaborate, tanto quanto dal loro rispetto dei tre principi che abbiamo enunciato. La regola di devoluzione che abbiamo prima menzionato deriva allora da questi principi: nessuna società retta da un ordine democratico può riconoscere una devoluzione dei suoi poteri ad un livello superiore che fosse meno democratico di quanto essa stessa sia. Quindi ogni devoluzione che comportasse una rottura in relazione ad uno dei tre principi menzionati, costituirebbe un’usurpazione che fonderebbe una Tirannia. L’ordine democratico come concezione materialista e realista, non concepisce allora la democrazia come la sommatoria di libertà individuali preesistenti alla messa in società né come una semplice cornice che permetta l’espressione di opinioni politiche, religiose o commerciali. L’ordine democratico concepisce i sistemi democratici concreti in azione, come degli insiemi di procedure che permettano:
- (a) il rilascio di convergenze dentro le rappresentazioni e di una convergenza tra queste rappresentazioni e la realtà, mediante sistemi chiusi di spazi di controversie;
- (b) la legittimazione dei sistemi di regole e di sanzioni che permettano a tali spazi di funzionare, in relazione al diritto conforme all’ordine democratico.
La legge democratica non deve dunque essere completa né perfetta, essa è costantemente migliorabile dentro un sistema che lascia spazio alla creazione. L’autorità della legge non è dunque una costruzione formale, ma la traduzione di un principio di sovranità. La legge è legittima non solamente o unicamente perché essa è l’espressione di una maggioranza, ma perché essa ha rispettato ogni volta delle procedure e dei principi. Quindi la presunzione legale della maggioranza non conferisce per nulla legittimità alle sue decisioni. Essa non distrugge quindi la libera concorrenza degli interessi e delle opinioni, contrariamente a quanto affermava C. Schmitt a proposito delle democrazie parlamentari. Le condizioni di funzionamento non sono dunque per nulla contrarie ai principi. Al contrario di quanto egli pensava, l’ordine democratico non è dunque un sistema immorale. Si può in effetti pensare perfettamente il problema della tirannia, e della ribellione legittima, nel quadro di una tale democrazia.
I principi dell’ordine democratico
Diventa allora possible rappresentare regimi diversi di lettimità dell’autorità. Questi regimi, che fanno appello ai principi della politica o della sfera tecnica, definiscono allora diverse combinazioni possibile del potere. Il primo regime identificabile è quello del principio di legittimità sostanziale, o tecnico. Esso implica una norma unica di valutazione della decisione. Può trattarsi di un discorso religioso o politico, come di un risultato qualificato come indiscutibile. Questo regime può concretizzarsi in due forme opposte, la legittimità carismatica o la legittimità burocratica, il divino o l’esperto. Qualsiasi rimessa in discussione del principio della norma unica indebolisce la rilevanza di questo principio; sia che si tratti di divergenza quanto all’interpretazione del discorso, sia che un risultato diventi troppo complesso per poter essere valutato da una norma singola (ciò che rimanda ad un problema di congetture chiuse), e una decisione non potrà più fondarsi sulla legittimità sostanziale. Questo permette di esprimere quello che chiameremo, con una certa pompa, il primo teorema della legittimità:
Teorema I
In un sistema dato di decisione, la legittimità di una decisione sarà sostanziale se e solamente se c’è accordo fra i membri della comunità nel considerare che la totalità delle conseguenze della decisione sia ragionevolmente prevedibile nel quadro di criteri omogenei ed accettati da tutti
Questo sistema non esclude per nulla il principio di legittimità sostanziale all’interno dei sistemi democratici. Ne precisa le condizioni. E’ perfettamente possibile prevedere una norma comune. Questo implica ad esempio che i membri considerino che ci si confronta con leggi naturali, o che ci sia adesione ad una meta-norma che produce un accordo stabile sui criteri di valutazione delle conseguenze.
Il secondo regime è quello del principio della legittimità procedurale. Si applica tutte le volte che le condizioni del Teorema I non sono soddisfatte. E’ nettamente diverso e deve comportare un accordo collettivo, anche implicito, sulle procedure. Sarà dunque legittimo l’effetto di una decisione che avrà seguito le procedure, a condizione che queste ultime siano esse stesse legittime. Il potere, per conservare legittimità, deve piegarsi al rispetto delle procedure, e puo’ essere in ogni momento interpellato e contestato se decide di liberarsene. Esso può prendere allora due forme, la legittimità democratica, che si costruisce nelle procedure elettorali libere, e la legittimità patrimoniale. In quest’ultimo caso il potere acquisisce un’autorità legittima per la sua capacità di far guadagnare ad una parte della società nella redistribuzione delle risorse. Se una parte della popolazione si considera esclusa dallo spazio democratico oppure se la decisione maggioritaria è troppo coercitiva per degli elementi esteriori, e se la capacità di accordare dei vantaggi da parte dei decisori è limitata, allora la legittimità procedurale può anch’essa cessare di essere rilevante. Questo ci conduce al non meno pomposo secondo teorema:
Teorema II
In un sistema dato di decisione, la legittimità procedurale sarà dotata di una stabilità inversamente proporzionale al grado di esclusione nella comunità che la riguarda, e direttamente proporzionale alla rilevanza delle decisioni prese sulla situazione dei membri della comunità
La decisione del padrino mafioso o quella del dirigente paternalista possono essere legittime se esse incidono sulla situazione degli individui più delle decisioni prese dalle autorità politiche democratiche. E’ la situazione che si trova per esempio, quando il potere pubblico si ritira da certi spazi, o quando si rivela privo di mezzi. Allo stesso modo, l’esistenza di un processo di esclusione di diritto o di fatto (impossibilità materiale concreta per gli individui di partecipare al sistema), che sia interno o esterno, (un sistema esterno che spodesta il sistema della comunità), infragilisce d’altrettanto le decisioni che devono essere prese.
L’ordine democratico fra dittatura, tirannia e ribellione legittima
di Jacques Sapir
Per completare lo studio da noi intrapreso su democrazia, sovranità, legittimità e legalitài manca solo un chiarimento dei due concetti chiave di tirannia e dittatura. Nel linguaggio corrente i due termini sono intercambiabili. Non dovrebbero esserlo, perché rimandano a concetti diametralmente opposti. Questa opposizione ha suscitato un dibattito. Sullo sfondo, si profila anche il concetto di ribellione legittima, in quanto si oppone alla tirannia. Perché, se non possiamo pensare la tirannia, se ne dissolviamo il concetto un insieme indeterminato, dovremo dire addio anche alla ribellione legittima. Si tratta di concetti che negli ultimi anni hanno assunto un’importanza peculiare a causa della tendenza alla “naturalizzazione” delle scelte politiche.
I. Carl Schmitt contro Walter Benjamin
Giorgio Agambenii ha sostenuto che l’autorità dello Stato conduce a uno stato d’eccezione dal quale viene escluso ogni diritto, unificando così, sotto il profilo teorico, i concetti di tirannia e dittatura. Questa tesi è contraria alla distinzione introdotta da Carl Schmitt in due opere scritte all’inizio degli anni Ventiiii. E’ proprio questa distinzione che bisognerebbe interrogare nel contesto politico di questo inizio di XXI secolo.
Inserendosi in una lunga tradizione, Carl Schmitt distingue due forme di tiranniaiv, il Tyrannus absque titulo (che giunge al potere in modo ingiusto) e il Tyrannus ab exercitio (colui che giunge al potere in modo legale e ne fa un uso ingiusto). A questo livello d’astrazione, è bene precisare che il termine “giusto” non equivale a “legale”, ma rinvia alla “giustizia”; in altre parole, al rispetto dei principi del diritto e non alle loro manifestazioni transeunti. Si ritrovano, qui, le origini del diritto cattolico, che hanno grande importanza nel pensiero conservatore di Schmitt. Al tiranno si oppone il dittatore, che si svincola dalle forme di rappresentazione materiale delle leggi, ma soltanto allo scopo di restaurare i principi del Diritto. In effetti, in Teologia politica, si trova la formula secondo la quale sovrano è chi decide dello stato d’eccezione. Si capisce subito che questa formula solleva problemi immensi, e ci segnala che qui ci troviamo ai confini del diritto e della politica. E’ nondimeno importante tenere presente che il Dittatore è limitato dal diritto, perlomeno dai suoi principi. Tornano alla mente le parole che il Duca di Saint-Simon mette in bocca a Luigi XIV agonizzante, a proposito del testamento che M.me de Maintenon era riuscita a strappargli: “Finirà come quello di mio padre. Sarà annullato il giorno della mia morte.”v Il punto è interessante. Persino il sovrano investito dei più vasti poteri sa di non poter andare contro ai principi del diritto, nel caso in questione modificare l’ordine della sua successione. La distinzione tra un Sovrano pur così potente e il Tiranno è dunque giustificata, e l’assenza della figura del Tiranno distinta da quella del Sovrano solleva un immenso problema per il lettore del testo di Agambenvi. Quando egli scrive, sulla scorta di Walter Benjaminvii, che in Schmitt non si trova la figura della “violenza pura” e che quest’ultima è sempre iscritta nel Dirittoviii, omette di segnalare il caso delle tirannie. Queste ultime – ed è per questo che a Schmitt fanno orrore – costituiscono, in effetti, casi di “violenza pura” o “violenza ingiusta” che si sottraggono ad ogni diritto. In effetti, non è possibile pensare il Dittatore e lo stato d’eccezione – dei quali si sostiene che restino nello spazio del diritto – se non si pensa simultaneamente anche la Tirannia, e con essa il principio di ribellione legittima.
II. Il caso dello “Stato di fatto” di Vichy
La tirannia può allora prendere forme peculiari che mascherano la comparsa della violenza pura, che si manifesta solo gradualmente. Si può illustrare questo fenomeno esaminando il problema della natura del regime di Vichy. Se non consideriamo la Repubblica esclusivamente sotto il profilo della sua forma giuridica, ma come manifestazione dell’ordine democratico, allora la repubblica può subire un’interruzione anche senza rottura legale. In effetti, il regime di Vichy viene istituito da un voto maggioritario di delega della totalità dei poteri legislativi e costituenti a un uomo. Per Carl Schmitt, in uno Stato Legislativo, la procedura, essendo legale, diviene perciò stesso legittima. Fu questa la tesi difesa dalle autorità di Vichy di fronte a quella ch’essi chiamavano la “secessione” gaullista. Ma nella concezione dell’ordine democratico che abbiamo sostenuto, quel voto infrangeva il principio di continuità della sovranità popolare. Ne viola, infatti, il principio primo: (uno non è più responsabile di fronte a tutti). La maggioranza dei deputati che avevano votato i pieni poteri s’era così costituita in Tyrannus ab exercitio. Ci troviamo dunque di fronte a un’usurpazione. Quanto a Pétain, accettando il potere diviene a sua volta Tyrannus absque titulo, in quanto riceve il potere da un altro tiranno. E la nuda violenza gradualmente si rivela, in particolare a cominciare dall’autunno del 1940 con lo “statuto degli ebrei”, per giungere al parossismo con gli eccessi della miliziaix. Siamo dunque senz’altro in presenza di un’interruzione dell’ordine democratico, anche se le forme della legalità sono state rispettate. Lo Stato francese non esiste più come “Stato legale”, non è più altro che uno Stato di fatto, fondato, in ultima analisi, non sul diritto ma sulla nuda forza delle autorità d’occupazione e dei loro mandatarix. La ribellione è dunque legittima; è anzi, per riprendere la formula consacrata, il dovere di ogni uomo libero.
III. Il problema della ribellione legittima e la costruzione europea
Perché nella distinzione fra Dittatura e Tirannia c’è in gioco anche questo: la possibilità di pensare la ribellione legittima. La ribellione legittima può prendere due forme. Essa può, da un canto, essere individuale, e in quanto tale concerne tutti i cittadini. Ma essa può anche prendere la forma dell’emergenza di un Dittatore che si proponga lo scopo di restaurare i principi del diritto. Tale fu la posizione di de Gaulle: si avverte così, nei suoi precisi contorni, la forma dell’opposizione fra legittimità (i principi del diritto) e legalità (le forme del diritto). In effetti, di fronte alla Tirannia, la ribellione legittima esige entrambi i comportamenti, che storicamente troveranno la loro unificazione nel programma del Conseil National de la Résistance. Ecco dunque chiarito il problema che pone la tesi di Agamben. Se unifichiamo Dittatura e Tirannia, se pensiamo che la violenza nuda si costituisca necessariamente al di fuori del diritto, diventa impossibile pensare la ribellione legittima. Al contrario, e a dispetto di tutte le sue aporie, su questo punto Carl Schmitt apre una via feconda, ma che è bene depurare immediatamente della sua immagine di diritto trascendente d’origine divina. E’ dunque possibile pensare la tirannia senza cadere nelle aporie di un diritto metafisico, pur senza esser costretti ad assolutizzare la libertà individuale, in base agli argomenti sviluppati nella terza parte del presente saggio. Un meccanismo democratico che articoli le nozioni essenziali di legittimità e sovranità può fondarsi sulla base di ipotesi realistiche in merito sia alle capacità cognitive degli individui, sia alle preferenze individuali. L’ordine democratico, che ne costituisce la base, consente a sua volta di fondare principi che orientino sia l’azione individuale sia l’azione collettiva. Diventa possibile fondare delle norme, e attraverso quelle, delle regole d’organizzazione.
L’analisi dei fondamenti della legittimità consente allora di ritornare sulla problematica della tirannia, analizzata stavolta in un contesto contemporaneo. Ne è un esempio il superamento dello Stato-Nazione in strutture multinazionali, o su scala regionale come l’Unione Europea. Gli accordi che reggono queste strutture possono essere interpretati in due modi radicalmente differenti. Si possono considerare come elementi di diritto internazionale. Si tratta allora di regole di cooperazione, e non di regole di subordinazione. Esse restano allora necessariamente limitate e temporanee, e possono venire ricusate in qualsiasi momento da uno dei contraenti. Non potrebbero, dunque, fondare una legittimità propria. Questa è l’interpretazione che ne dà la Corte Costituzionale di Karlsruhexi. Ma si possono anche considerare come l’abbozzo della Costituzione di un nuovo Stato-Nazione, federale, in divenire. In quest’ultimo caso, esse debbono necessariamente essere fondate su una legittimità democratica e non sul solo rispetto delle regole giuridiche, come pretendono alcuni giuristi ispirati da Kelsen, e ciò in ragione degli argomenti da noi presentati contro ogni tipo di supremazia della legge sulla sovranitàxii. Contrariamente a quanto pretendono i sostenitori di un approccio funzionalista della costruzione europea, il fatto che le regole del diritto siano state rispettate nelle misure costituenti il quadro in divenire dell’Unione non è una garanzia contro il rischio della tirannia. Tutt’al contrario.
Un numero crescente di disposizioni si apparenta, in effetti, a elementi costituzionali di natura federale (moneta unica, ruolo della legislazione europea in rapporto alle legislazioni federali). Ma il controllo parlamentare resta dei più simbolici. In queste condizioni, si comprende facilmente la fuga in avanti verso una legittimità di principio sostanziale sotto forma di un predominio della legittimità burocratica. Una simile strategia sarebbe comprensibile solo se fosse in grado di fornire risultati indiscutibili per l’insieme, o anche per la semplice maggioranza, delle popolazioni interessate. Non vale neanche la pena di parlarne. Non a causa dell’incompetenza delle burocrazie di Bruxelles, come a volte si sostiene. Quei funzionari non sono né migliori né peggiori di quelli dei vari paesi. Ma molto semplicemente perché i campi nei quali intervengono non si prestano a fornire risultati incontestabili. In queste condizioni, il futuro dell’Unione Europea appare dei più cupi.
Prendere decisioni d’ordine politico in nome di una legittimità tecnica costituisce il decisore come Tyrannus ab exercitio. Nel medesimo senso, l’insediamento di un nuovo potere a partire da una decisione viziata da questa forma di tirannia fa emergere un Tyrannus absque titulo.
IV. Il ruolo delle procedure referendarie
Sotto questo profilo, le procedure referendarie nei vari paesi interessati sono un momento essenziale del processo democratico, e il rifiuto dei governi di ricorrervi più spesso quando vi siano da decidere questioni politiche (e non sociali) ne traduce molto bene la diffidenza istintiva nei confronti dei popoli. L’assenza di mandato imperativo, d’altronde giustificata, nelle legislature dei paesi interessati, vieta di considerare un voto parlamentare come l’equivalente di una consultazione popolare di tipo referendario. Nella misura in cui le decisioni interessano il quadro istitutivo degli atti politici e non gli atti politici in quanto tali, non si può moltiplicare all’infinito il processo di delega: altrimenti, si cade nel processo circolare che per Schmitt rende immorale la democrazia parlamentare liberale. Gli atti politici di cui parliamo qui implicano, evidentemente, un consenso di natura superiore a quello richiesto da semplici provvedimenti funzionali. Le procedure referendarie sono dunque importanti, e devono essere rispettate, anche quando gli elettori rispondano “no” alla domanda proposta, come avvenne sia nei Paesi Bassi sia in Francia nel 2005. E’ pubblicamente noto che in seguito al referendum francese del 2005, questo rispetto delle decisioni degli elettori non vi fu. E’ un altro segno dello scivolamento verso una forma di Tirannia.
Ritroviamo qui un principio fondamentale dell’ordine democratico. E’ noto che la posizione assunta dal popolo sovrano in un momento del tempo non può cancellarne la libertà nei momenti temporali successivi. Se, per ragioni che rinviano alla gestione dell’ordine del giorno del dibattito politico, è lecito ritenere che una questione decisa per via referendaria non possa essere immediatamente ripresentata a una nuova votazione, sia però chiaro che il rinvio non può essere indefinitamente protratto, e che la tollerabilità della posticipazione dipende in larga misura dal grado di divisione della società in merito alla questione proposta. Così, ricorrere immediatamente a una nuova votazione sull’onda del risultato è tanto contrario all’ordine democratico quanto rifiutare una nuova procedura parecchi anni dopo, o quando si sia prodotto un elemento nuovo, suscettibile di modificare le rappresentazioni. A questo proposito, se era giustificato non far votare di nuovo sul Trattato di Maastricht negli anni immediatamente seguenti la sua stipula, non prendere in considerazione la bocciatura del Trattato Costituzionale Europeo decisa dal referendum del 2005 è stato un colpo di mano antidemocratico. Su un piano più generale, finché non sia stato istituito un corpo politico unificato sulla scala dell’Unione Europea e non siano state stabilite le regole di responsabilità dell’esecutivo, si rimane entro un diritto di coordinazione e non di subordinazione: non dispiaccia al nostro Conseil Constitutionnel e al nostro Conseil d’État.
Solo la costituzione di una Federazione Europea, Stato sovrano, potrebbe far passare dalla logica della coordinazione a quella della subordinazione. Ma bisogna ricordare che per questo nuovo Stato, come per quelli che l’hanno preceduto, da un canto la Costituzione resterebbe tutt’affatto rivedibile, e dall’altro essa dovrebbe necessariamente venire approvata simultaneamente da tutti i popoli componenti la suddetta Federazione. Si applica qui di nuovo la totalità degli argomenti sull’impossibilità per una generazione di legare le mani alle successive, e sull’impossibilità di applicare regole di omissione a principi di coordinazione. Va anche ricordato che una Federazione è una forma di Stato-Nazione, e non il semplice prolungamento di un’alleanza. Essa implica un salto qualitativo, che passa per la verifica dell’identità di un progetto comune e di una cultura politica comune. Prive di questi due attributi, le Federazioni sono destinate a dissolversi.
V. Le tirannie tecniche
Ma c’è un altro esempio delle forme moderne di tirannia che si presenta all’attenzione: quella delle politiche monetarie. Se si ritiene che il risultato delle politiche monetarie sia obiettivo, e dunque tecnico nel senso che abbiamo definito, allora è legittimo sottrarle all’azione politica. Se al contrario il risultato non può essere interamente discusso nel quadro delle norme che riscuotono l’unanimità dei consensi della popolazione interessata, allora la politica monetaria attiene al dominio del politico. In questo caso, la decisione di sottrarre l’autorità monetaria all’autorità politica è stata un atto di tirannia, e la Banca Centrale indipendente, di cui la Banca Centrale Europea è un caso illustrativo, è un esempio di Tyrannus absque titulo. Può tuttavia sembrare che il problema possa essere aggirato se la direzione dell’agenzia indipendente, in questo caso la Banca Centrale, riproduce uno spazio di controversia di tipo politico. E’ il modello americano come l’ha presentato Michael Aglietta.
“I risultati della politica monetaria sono valutati da una commissione apposita del Congresso che, due volte l’anno, interroga il Presidente della Fed. E’ l’applicazione di un metodo nel quale la credibilità delle autorità monetarie si forgia, si conserva, si corregge per mezzo della procedura deliberativa stessa, al di fuori di ogni norma predefinita.”xiii
Questo modello ha avuto un forte potere d’attrazione, finché la crescita americana è stata forte. S’è potuto pensare, soprattutto comparandolo alle procedure adottate dalla BCE, che rappresentasse un’alternativa insieme efficace e legittima. Cionondimeno, anche questo modello suscita due obiezioni. Anzitutto, credibilità non è legittimità: essere ritenuto capace di prendere una buona decisione non ne dà necessariamente il diritto. La corrispondenza perfetta fra reputazione di competenza e legittimità si dà esclusivamente nel dominio della tecnica, e non nel dominio del politico. Ad esempio, nell’istituzione medica la reputazione dei medici è stabilita per mezzo di procedure di valutazione e di controllo che non rilevano affatto della logica politica. A dispetto di ciò, la distinzione fra evento aleatorio (che non mette in questione la responsabilità del professionista) ed evento colpevole solleva un dibattito pubblico che esce, con tutta evidenza, dal dominio della tecnica. Nel caso della politica monetaria, per affermare che essa appartenga al dominio della tecnica bisognerebbe dimostrare la perfetta leggibilità dei suoi effetti attraverso una norma omogenea (il nostro teorema I), impresa beninteso impossibile.
Si può allora supporre che, nella citazione presentata qui, il termine di credibilità includa una nozione latente di legittimità politica. M. Aglietta parla di interazione esplicita con la società e di dibattito pubblico in merito alle decisioni della FEDxiv. Se il caso è questo, ci si trova allora di fronte alla seconda obiezione. Controversia, nel senso in cui utilizziamo questo termine, non significa semplicemente che vi sia la possibilità di prendere la parola. Essa implica due condizioni fondamentali: da un canto il pluralismo delle opinioni, che devono allora rappresentare tutti gli interessi in gioco, e dall’altro un meccanismo di sanzione del dibattito che implichi una possibilità di cambiamenti che non siano di pura forma (applicazione del nostro teorema II). Nel caso della FED americana, la composizione del FOMC (Federal Open Market Committee) che costituisce la sua direzione collegiale non risponde alla prima condizione. Il dibattito sulle decisioni prese dal FOMC, che in buona sostanza è guidato da esponenti del mondo finanziario o universitario, è d’altronde caratterizzata da un livello di endogamia delle rappresentazioni troppo elevato per sortire gli effetti propri di uno spazio di controversia. Inoltre, questo dibattito è esterno e privo di sanzione, ciò che viola la seconda condizione.
VI. Ancora sull’ordine democratico
La tirannia alla quale ci conducono queste istituzioni non è certo quella dei tempi antichi. Essa non prende, attualmente, la forma brutale, quasi bestiale, dei poteri tirannici scaturiti da colpi di Stato, o del regime di Vichy. Cionondimeno, si tratta di tirannie vere e proprie: e la minaccia che la violenza nuda, la violenza senza diritto, fa pesare su tutto e tutti diviene ormai, di giorno in giorno, sempre più grave. Questo ci conduce a ripensare le forme della ribellione legittima, che si tratti di quella individuale del cittadino o di quella, più organizzata, che potrebbe incarnarsi in una soluzione politica che assuma la funzione del Dittatore e operi per il ristabilimento dell’ordine democratico.
Perché l’ordine democratico è una nozione che implica un nuovo rigore nella concezione delle istituzioni. Consente di liberare quel che c’è di vivo nelle argomentazioni di Carl Schmitt dalla ganga delle sue aporie reazionarie. Non conduce affatto a un nichilismo istituzionale o giuridico come quello che propone Agamben, rifiutando ogni tipo di mediazione in nome della santificazione della democrazia diretta e del rifiuto anarchico di ogni potere. Si tiene sul crinale, certo sottile, tra le formule del positivismo giuridico che negano la possibilità stessa della Tirannia e quelle del pensiero reazionario cattolico. Poiché di tratta di una nozione elaborata nel quadro di ipotesi metodologicamente realistiche, l’ordine democratico integra i problemi posti dal limite delle capacità cognitive degli individui, e dalla natura sociale ed esogena dell’espressione delle loro preferenze. L’ordine democratico permette di pensare le nuove forme di tirannia (le agenzie indipendenti) di dar loro un nome preciso (la BCE, la “Troika”, la devoluzione dei principi dallo Stato all’Unione senza rispetto per le regole di devoluzione), ma anche di indicare vie diverse, che non sbocchino in usurpazioni di sovranità.
L’ordine democratico permette così di rifiutare le illusioni della tecnicizzazione delle scelte politiche e di ridare tutta la sua importanza alla politica. Ci permette di pensare la Tirannia e di conseguenza, la ribellione legittima. Ciò non significa che tutto sia politico e niente tecnico. Qui, la sola posizione coerente consiste nel determinare i criteri che permettano di distinguere ciò che attiene al dominio del politico e ciò che attiene al dominio della tecnica, e d’altro canto di giudicare, caso per caso, entro ciascun dominio, utilizzando questi criteri. Ed è proprio la nozione di ordine democratico che consente di far ciò.
Note
[1] A. Scheuer, « Est-il interdit de penser la violence ? », RageMag, http://ragemag.fr/est-il-interdit-de-penser-la-violence/
[2] Et qui est même théorisé par certains économistes : J.B. Taylor, Getting Off Track. How Government Actions and Interventions Caused, Prolonged and Worsened the Financial Crisis, Hoover Institution Press, Staford, 2009.
[3] J.M. Buchanan et G. Tullock, The Calculus of Consent : Logical Foundations of Constitutionnal Democracy, Univ. Of Chicago Press, 1962. James Buchanan est décédé le 9 janvier 2013.
[4] J.M. Buchanan, The Limits of Liberty, Chicago University Press, Chicago, 1975, p.194; Idem, Freedom in Constitutional Contract, Texas A&M university Press, College Station, Tx, 1977, p. 125 et p. 293.
[5] G.W.Downs & D.M.Rocke, Tacit Bargaining, Arms Races and Armes Control, The University of Michigan Press, Ann Arbor, Mich., 1990.
[6] R.A.Hoover, Arms Control: The Interwar Naval Limitation Agreements, Denver Monoghraph Series in World Affairs, University of Colorado, Dever, Co., 1980; E.Goldman, The Washington Naval Treaty, Ph.D., University of Stanford, Stanford, Ca., 1989.
[7] Voir C.R. Sunstein, “Constitutions and Democracies: an epilogue”, in J. Elster & R. Slagstad, Constitutionalism and Democracy, Cambridge University Press, Cambridge, 1993 (1988), pp. 327-356.
[8] T. Jefferson, “Notes on the State of Virginia”, inWritngs – edited by M. Peterson, Library of America, New York, 1984. J. Locke, Two Treatise of Governments, Mentor, New York, 1965, Livre II, ch. 8.
[9] S. Holmes, “Gag-Rules or the politics of omission”, in J. Elster & R. Slagstad, Constitutionalism and Democracy, op.cit., pp. 19-58.
[10] Goodfriend M., et R.G. King, (1997), “The New Neoclassical Synthesis and the Role of Monetary Policy” in Bernanke B.S., and J.J. Rotemberg (edits), NBER Macroeconomic Annual 1997 , MIT Press, Cambridge, MA .
[11] Comme chez R. Lucas et T.J. Sargent, Rational Expectations and Econometric Practices , University of Minnesota Press, Minneapolis, 1981, pp. XII – XIV.
[12] P.A. Samuelson, “Parable and Realism in Capital Theory: The Surrogate Production Function”, in Review of Economic Studies , vol. XXX, (juin 1962), pp. 193-206. Idem, “Classical and Neoclassical Theory” in Monetary Theory , edited by R.W. Clower ,Penguin Books, Londres, 1969.
[13] P. Mirowski, “How not to do things with metaphors: Paul Samuelson and the science of Neoclassical Economics”, in Studies in the History and Philosophy of Science , vol. 20, n°1/1989, pp. 175-191.
[14] A. Schubert, The Credit-Anstaly Crisis of 1931, Cambridge University Press, Cambridge, 1991.
[15] Voir, Moessner, R et Allen, W. A. (Decembre 2010). “Banking crises and the international monetary system in the Great Depression and now”. BIS Working Papers (Bank for International Settlements ) n°333, 2010.
[16] E. März, Austrian Banking and Financial Policy: Credit-Anstalt at a Turning Point, 1913-1923, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 1984.
[17] P. Davidson, “Some Misunderstanding on Uncertainty in Modern Classical Economics”, in C. Schmidt (ed.), Uncertainty and Economic Thought , Edward Elgar, Cheltenham, 1996, pp. 21-37.
[18] Cette maximisation implique des critères stricts qui ne sont jamais remplis. Voir, J. Sapir, Quelle économie pour le XXIe siècle ?, Odile Jacob, Paris, 2005, chap. 1.
[19] J.R. Commons, Institutional Economics. Its Place in Political Economy, Transaction Publishers (reprint), 1996, édition originale en 1924.
[20] G. Myrdal, The Political element in the Development of Economic Theory, publié initialement en suédois en 1930, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1954 pour la traduction en langue anglaise.
[21] F.A. Hayek, The Constitution of Liberty , University of Chicago Press, Chicago, 1960,
[22] F. Guizot, Histoire de la Civilisation en Europe, reed. Du texte de 1828, Hachette, coll. « Pluriel », 1985, p. 182.
[23] O. Morgenstern, “Perfect foresight and economic equilibrium”, in A. Schotter, Selected Economic Writings of Oskar Morgenstern, New York University Press, New York, 1976, pp. 169-183. Publié originellement en allemand in Zeitschrift für Nationalökonomie, vol. 6, 1935
[24] J.M. Keynes, Collected Writings, vol. XIV – The General Theory and After, part II. Defense and Development , Macmillan, Londres, 1973, p. 114. Sur ce point, voir aussi A.M. Carabelli, On Keynes’s Method , Macmillan, Londres, 1988.
[25] H.A. Simon, “Theories of bounded rationality”, in C.B. Radner et R. Radner (eds.), Decision and Organization, North Holland, Amsterdam, 1972, pp. 161-176; Idem, “From Substantive to Procedural Rationality”, in S.J. Latsis, (ed.), Method ans Appraisal in Economics, Cambridge University Press, Cambridge, 1976, pp. 129-148. Voir aussi A. de Groot, Thought and Choice in Chess , Mouton, La Haye, 1965
[26] O. Morgenstern, “Perfect foresight and economic equilibrium”, op.cit..
[27] E. Cohen, L’ordre économique mondial – Essai sur les autorités de régulation, Fayard, Paris, 2001
[28] O. Blanchard, “Lutte des classes et globalisation” in Libération, rubrique Rebonds, 11 juin 2001.
[29] F.A. Hayek, The Political Order of a Free People, Law, Legislation and Liberty, vol 3, Univ. Of Chicago Press, 1979, Chicago, Ill..
[30] Idem, pp. 41-44.
[31] Idem, pp. 116-119.
[32] F.A. Hayek, The Mirage of Social Justice Law, Legislation and Liberty, vol 2, Univ. Of Chicago Press, 1976, Chicago, Ill.
[33] F.A. Hayek, The Constitution of Liberty, op.cit., 1960, p.398.
[34] Sur ce point, voir C. Larmore, Patterns of Moral Complexity, Cambridge University Press, Cambridge, 1987, en particulier le chapitre 6.
[35] A ce sujet voir la très pertinente critique de R. Bellamy, “Dethroning Politics: Liberalism, Constitutionalism and Democracy in the Thought of F.A. Hayek”, in British Journal of Political science, vol. 24, part. 4, Octobre 1994, pp. 419-441.
[36] H. Kelsen, Théorie générale des normes, PUF, Paris, 1996, Paris, traduction d’Olivier Beaud
[i] Legalität und Legitimität, 1. Aufl. München-Leipzig 1932; poi raccolto in C. Schmitt, Verfassungsrechtliche Aufsätze, cit., pp. 263-350; trad. it. parziale (introduzione e prima parte; mancano la seconda parte e la conclusione) in Le categorie del «Politico» (a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera), Il Mulino, Bologna 1972 pp. 209-244.
[ii] Ibidem
[iii] Ibidem
[iv] Ibidem
[v] V. Jacques Sapir (a cura di), Retour sur l’URSS – Histoire, Economie, Société, l’Harmattan, Paris 1997
[vi] Schmitt, Legalità e legittimità, cit.
[vii] Ibidem
[viii] P. Hirst, “Carl Schmitt’s Decisionism”, in C. Mouffe (ed.) The Challenge of Carl Schmitt, Verson, London 1999, pp. 7 -17
[ix] F.A. Hayek, The Political Order of a Free People, Law, Legislation and Liberty, vol. 3, Univ. of Chicago Press, Chicago 1979
[x] A questo proposito v. la critica, molto pertinente, di R. Bellamy, “Dethroning Politics: Liberalism, Constitutionalism and Democracy in the Thought of F.A. Hayek”, in The British Journal of Political Science, vol. 24, October 1994, pp. 419-441
[xi] Schmitt, Legalità e legittimità, cit.
[xii] Ibidem
[xiii] Ibidem
[xiv] Ibidem
[xv] Ibidem
[xvi] G. Simmel, Filosofia del denaro, UTET, Torino 2003 [Philosophie des Geldes, 1900]
[xvii] Ibidem
[xviii] Ibidem
[xix] C. Deutschmann, “Money as a Social Construction: on the Actuality of Marx and Simmel”, Thesis Eleven, n. 47, November 1996, pp. 1-20
[xx] C. Schmitt, Legalità e legittimità, cit.
[xxi] J. Sapir, “Calculer, comparer, discuter: apologie pour une méthodologie ouverte en économie”, op. cit.
[xxii] Nella sua critica del razionalismo, O. Neurath parla di intelligenza lacunosa. V. O. Neurath, “Les voyageurs égarés de Descartes et le motif auxiliaire” trad. F. Willmann, in Cahiers de Philosophie du Langage n. 2 – Otto Neurath, un philosophe entre science et guerre, l’Harmattan, Paris 1997, pp. 19-34
[xxiii] In particolare F. A. Hayek, The Constitution of Liberty, University of Chicago Press, Chicago 1960
[1] C. Schmitt, Légalité, Légitimité, traduit de l’allemand par W. Gueydan de Roussel, Librairie générale de Droit et Jurisprudence, Paris, 1936; édition allemande, 1932p. 47.
[2] Idem, pp. 59-60.
[3] J. Sapir, “Théorie de la régulation, conventions, institutions et approches hétérodoxes de l’interdépendance des niveaux de décision”, in FORUM A. Vinokur (ed.), Décisions économiques , Économica, Paris, 1998, pp. 169-215. Idem, Quelle économie pour le XXIè siècle?, Odile Jacob, Paris, 2005, chap. 1.
[4] E. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, PUF, coll. Quadriges, Paris, 1999 (première édition, Paris, 1937), pp. 112-115.
[5] G.L.S. Shackle, “The Romantic Mountain and the Classic Lake: Alan Coddington’s Keynesian Economics”, in Journal of Post-Keynesian Economics, vol. 6, n°1, 1983, pp. 241-257.
[6] N.P. Chapanis et J.A. Chapanis, “Cognitive Dissonance: Five Years Later” in Psychological Bulletin, vol. 61, 1964. G.A. Akerlof et W.T. Dickens, “The Economic Consequences of Cognitive Dissonance”, in American Economic Review, vol. 72, n°1, 1972, pp. 307-319.
[7] G.L.S. Shackle, Decision, Order and Time in Human Affairs, Cambridge University Press, Cambridge, 2ème edition, 1969..
[8] G.L.S. Shackle, Expectations in Economics, Cambridge University Press, Cambridge, 1949. Voir aussi, J.L. Ford, Choice, Expectations and Uncertainty, Martin Robertson, Oxford, 1983.
[9] “Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits. Les distinctions sociales ne peuvent être fondées que sur l’utilité commune“, cité d’après M. Duverger, Constitutions et Documents Politiques, PUF, coll. Thèmis, Paris, 1971, p. 9.
[10] J’ai abordé en partie ce point dans : Jacques Sapir, “Un “marché” des nationalités ou de quoi Arnault, Bardot et Depardieu sont-ils le nom”, billet publié sur le carnet Russeurope le 10/01/2013, URL: http://russeurope.hypotheses.org/713.
[11] Pour un exposé prècis des conceptions d’Habermas, S. Benhabib, “Deliberative Rationality and Models of Democratic Legitimacy”, in Constellations, vol.I, n°1/avril 1994.
[12] J. Bodin, Les Six Livres de la République, Réimpression, Scientia Aulem, Amsterdam, 1961..
[1] J. Sapir, “(I) Comment sommes-nous dépossédés de la démocratie”, billet publié sur le carnet Russeurope le 25/01/2013, URL: http://russeurope.hypotheses.org/763 Idem, “(II) Légalité, légitimité et les apories de Carl Schmitt”, billet publié sur le carnet Russeurope le 27/01/2013, URL: http://russeurope.hypotheses.org/765 , Idem, “(III) Légalité, légitimité et l’ordre démocratique”, billet publié sur le carnet Russeurope le 27/01/2013, URL: http://russeurope.hypotheses.org/767 .
[2] G. Agamben, Homo sacer. I, Le pouvoir souverain et la vie nue , traduit par Marilène Raiola, Paris, Le Seuil, 1997
[3] C. Schmitt, La dictature , Paris, Seuil, 2000 (1ère publication en allemand en 1921). Idem, Théologie politique , Paris, Gallimard, 1988 (1ère publication en allemand en 1922).
[4] C. Schmitt, Légalité, Légitimité , traduit de l’allemand par W. Gueydan de Roussel, Librairie générale de Droit et Jurisprudence, Paris, 1936; édition allemande, 1932.
[5] G. Agamben, Homo sacer. I, Le pouvoir souverain et la vie nue , op.cit..
[6] W. Benjamin, Origine du drame baroque allemand, Flammarion, coll. Champs, Paris, 2000, (1ère publication en allemand en 1928).
[7] G. Agamben, Homo sacer. I, Le pouvoir souverain et la vie nue , op.cit p. 93 et 101.
[8] J. Delperrié de Bayac ,Histoire de la Milice, 1918-1945 , éd. Fayard, Paris, 1969.
[9] Ordonnance du 9 août 1944 relative au rétablissement de la légalité républicaine sur le territoire continental – Version consolidée au 10 août 1944, actuellement en vigueur , sur le site legifrance.gouv.fr « Sont, en conséquence, nuls et de nul effet tous les actes constitutionnels, législatifs ou réglementaires, ainsi que les arrêtés pris pour leur exécution, sous quelque dénomination que ce soit, promulgués sur le territoire continental postérieurement au 16 juin 1940 et jusqu’au rétablissement du Gouvernement provisoire de la République française. »
[10] J. Sapir, “(III) Légalité, légitimité et l’ordre démocratique”, op.cit..
[11] Arrêt du 30 juin 2009, affirmant la suprématie du Parlement allemand sur les institutions européennes. Marie-François Bechtel, Fondation ResPublica, URL : http://www.fondation-res-publica.org/L-arret-du-30-juin-2009-de-la-cour-constitutionnelle-et-l-Europe-une-revolution