I fatti di Kabul
I fatti di Kabul, almeno quelli più evidenti, sono sotto gli occhi tutti. Gli americani si sono ritirati e i talebani sono tornati al potere dopo vent’anni. Ovviamente, non si tratta degli stessi Talebani che furono scacciati allora, i rapporti di forza tra le varie fazioni telebane sono mutati ed è mutato il quadro internazionale. Gli statunitensi hanno abbandonato il paese stringendo accordi taciti e lasciando sul terreno forze speciali di diverso tipo e di vario genere. Dal loro punto di vista hanno fatto bene o male? Tralasciando la gestione sbrigativa del disimpegno, possiamo dire che probabilmente non potevano fare diversamente (ma avrebbero potuto fare di meglio?) considerate le circostanze. Ci sono due errori da non commettere. Il primo riguarda gli impropri paragoni storici, sostenendo che quella a stelle e strisce è da valutarsi come una sconfitta simile a quella subita in Vietnam (ammesso che anche quest’ultima sia stata davvero tale). Il secondo, sicuramente madornale, è quello di classificare i talebani quali delinquenti assetati di sangue o, persino, fascisti col pakol al posto del fez. I decerebrati che prendono queste cantonate non meritano alcuna attenzione e i loro piagnistei sui diritti umani sono merce avariata. In un’analisi politica i buoni finti (o anche veri) sentimenti sono la via più facile per cadere in confusione o indurla negli altri. Noi non siamo strateghi militari o esperti geopolitici ma crediamo che in questo frangente anche i cosiddetti competenti vadano a tentoni. I più ottimisti sostengono che la mossa americana si dimostrerà una trappola per i suoi avversari diretti, cinesi e russi. I più catastrofisti (ma la catastrofe è solo nel loro cuore servile) si stracciano le vesti per l’opportunità che l’Occidente sta offrendo alla Cina di prendersi il mondo. Non basta un singolo avvenimento per spostare l’asse dello strapotere mondiale, soprattutto se le considerazioni sul sopravanzamento cinese sono di livello economicistico e non politico-militare. Stiamo parlando di un Paese periferico come l’Afghanistan che assume importanza strategica solo nel “riposizionamento” in corso tra grandi potenze, le quali cercano di sfruttare qualsiasi spazio per indebolire il nemico. L’Afghanistan non è il motore della geopolitica mondiale, come qualcuno vorrebbe farci credere, così come il pepe non era la chiave economica dell’era preindustriale, nonostante abbiamo letto questa sciocchezza tante volte sui libri di storia. Ovviamente, i fatti afghani ci segnalano un’ulteriore accelerazione delle criticità che accompagnano l’epoca multipolare in cui esiste ancora un egemone, allegro ma non troppo! Ovverosia, per una situazione oggettiva di sbilanciamento delle forze tra aree di paesi o paesi-area, chi prima dettava legge sull’orbe non è più in grado di farlo senza scontrarsi con effettive e consistenti resistenze altrui, o persino per propri limiti intrinseci relativi alla sua politica interna. Oggi sul Corriere un “certo” Kissinger scrive: “Gli Stati Uniti si sono rivelati inadeguati nelle azioni di contrasto agli insorti a causa della loro incapacità nel definire quali fossero gli obiettivi raggiungibili e di collegarli tra loro in modo tale da ricevere l’appoggio delle istituzioni politiche americane”. Diciamo la verità, non c’erano obiettivi raggiungibili perché in una fase come quella attuale prefissarsi uno scopo preciso significa condannarsi a mancare il bersaglio. Sono diventate troppe le variabili che impediscono la certazione degli interessi di tutti i giocatori, nonché le energie che vanno sprigionandosi trasformando gli scenari mondiali.
Kissinger ha ancora scritto: “Ci siamo persuasi che l’unico modo per impedire il ritorno delle basi terroristiche nel Paese era quello di trasformare l’Afghanistan in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche e di un governo insediato su base costituzionale. Una tale impresa non poteva prevedere un calendario”. E no! Se gli americani avessero mai avuto un simile nobile proposito avrebbero consentito ai sovietici di far entrare l’Afghanistan nel XX secolo anziché finanziare tribù e islamisti in funzione antirussa quando volevano indebolire l’URSS. Voler esportare la democrazia nel 1442 dall’Egira è stata solo ipocrita finzione. Avrebbero potuto lasciare ai russi il gravoso compito di deruralizzare l’Afghanistan nei tempi in cui quest’ultimo ruotava nella sfera d’influenza di Mosca. Certamente, all’epoca avevano in mente un pericolo più grande del fantomatico terrorismo e così finirono per finanziare i combattenti islamici, senza dolersi della democrazia. Oggi, lasciano il governo afghano nuovamente in mano ai terroristi perché hanno in testa preoccupazioni più grandi della democrazia. Tutto torna, ma diverso.