I fondamenti dell’idea di nazione a partire dal punto di vista del pensiero liberale e del decisionismo giuridico.
Bozza preparatoria per l’intervento al seminario di Bologna rielaborata con alcune aggiunte.
La tradizione del liberalismo continentale europeo trova nella conferenza su La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni di Benjamin Constant, tenuta nel 1819 all’Ateneo di Parigi il suo manifesto classico fondativo. Per quanto riguarda l’aspetto concernente la tematica della nazione e quindi gli elementi storico-genetici che connettono le idee liberali alla tradizione del costituzionalismo giuridico un ruolo altrettanto decisivo è svolto dal testo della conferenza di Ernest Renan alla Sorbona, del 1882, dal titolo Qu’est-ce qu’une nation? All’inizio Renan elenca le varie tipologie di formazioni storico-politiche a partire dai “grandi agglomerati” come gli antichi imperi orientali caratterizzati da una centralizzazione dispotica; seguono i “gruppi tribali” come gli Ebrei e gli Arabi, le città-stato (polis), gli imperi plurinazionali, le comunità religiose e quelle etno-linguistiche ed infine gli Stati-nazione moderni con le varianti delle loro aggregazioni in federazioni e confederazioni. Il punto di partenza del suo discorso si basa sull’affermazione che l’etnia, intesa come ethnos e come “razza”, non definisce quell’entità coesa determinata territorialmente come insieme di individui (popolazione) che chiamiamo nazione. I gruppi etnico-linguistici non si identificano con i “popoli realmente esistenti”. Il periodo antico e medioevale europeo caratterizzato dalle scansioni che, a partire dalla caduta dell’Impero romano d’occidente, hanno poi visto la “restaurazione” di Giustiniano e l’ascesa e il declino del Sacro Romano Impero carolingio trova la sua risoluzione con l’avvento delle monarchie nazionali assolute agli albori della modernità. A quel punto
<<l’Europa occidentale (e poi anche il resto d’Europa) appare divisa in nazioni [Stati-nazione].>>
Questo tipo di formazione politica appare, quindi, a Renan come un fatto sostanzialmente nuovo, a partire dal quale si è creato un contesto nel quale ogni struttura sovrana territoriale-popolare ha stabilito relazioni conflittuali con le altre, senza che nessuna di esse fosse in grado di assumere una stabile supremazia. Gli imperi asiatici – tra i quali, a partire da Hegel, poteva essere incluso anche l’antico Egitto e la civiltà degli Incas – erano invece
<<greggi guidate da un Figlio del Sole o da un Figlio del Cielo (nel caso della Cina)>>.
In queste società secondo lo schema hegeliano “uno solo era libero” anche se l’assoluta “trascendenza” dell’Imperatore era importante prevalentemente a livello simbolico per garantire e mantenere l’unità del corpo politico e l’assoluta centralizzazione della comunità “organica” così costituita. In questa struttura avevano, infatti, un ruolo fondamentale i funzionari amministrativi (scribi e sacerdoti) ed esecutivi (nobili e guerrieri) attraverso i quali si pianificavano le attività economico-produttive e la redistribuzione dei beni prodotti. Nell’antichità classica greco-romana la partecipazione dei cittadini (individui liberi) alle faccende politiche, secondo Renan, aveva portato alla sostanziale mancanza di uno stabile apparato amministrativo fino all’avvento delle istituzioni imperiali a Roma. In precedenza le repubbliche e monarchie municipali e le confederazioni di repubbliche locali avevano garantito la più grande partecipazione del popolo agli affari pubblici ma anche una debole coesione dell’apparato amministrativo-burocratico. Prima dell’Impero romano l’Europa occidentale era formata da “agglomerati di popolazioni, spesso coalizzate tra loro, prive di istituzioni centrali e dinastie”. Solo con l’Impero di Roma ci si avvicinò alla formazione di qualcosa che poteva essere definita “patria”. La “dominazione romana” portò così, dopo le guerre di conquista, a
<<una grande associazione, sinonimo di ordine, pace e libertà. Con essa si stabilì la Pax romana che si contrapponeva alla minaccia esterna dei popoli nomadi (i Barbari)>>.
Ma un impero esteso come quello romano non poteva portate alla formazione di uno Stato, nel senso moderno del termine. Il vero cambiamento ebbe inizio a partire dalle invasioni germaniche che stabilirono i due fondamentali pilastri del sistema dinastico e del predominio di una aristocrazia militare. Il sistema feudale, con lo spezzettamento del territorio in piccole unità economico-politiche quasi autonome, impedì lo stabilizzarsi delle prime formazioni statali. La Francia, la Burgundia, la Lombardia, la Normandia e poi l’Impero franco-carolingio vissero perciò, nell’Alto Medioevo, una persistente situazione di instabilità e di crisi. Ma piano piano, attraverso questo travagliato processo, presero forma i primi embrionali coaguli che avrebbero portato agli Stati-nazione assoluti di Francia, Inghilterra e Spagna e successivamente – con il superamento della Respublica Christiana e il declino dell’Impero e della Chiesa come entità almeno formalmente sovra ordinate agli Stati – anche all’unificazione di Germania e Italia. Renan poi contrappone il processo che caratterizzò l’Impero turco-ottomano – in cui convivevano Turchi, Slavi, Greci, Armeni, Arabi, Siriani e Curdi e in cui non si realizzò mai una autentica integrazione perché le identità linguistiche e religiose mantennero sempre la loro autonomia seppure, in alcuni periodi, in un clima di sostanziale reciproca tolleranza – a quello che si manifestò nell’occidente cristiano. In occidente, infatti, i vincitori, per lo più, adottarono la religione dei vinti: il cristianesimo. I conquistatori spesso rinunciarono anche alla loro identità linguistica così che in Italia, Francia e Spagna adottarono un “idioma romanzo”. Tra i barbari conquistatori le donne erano in netta minoranza e alla lunga questo risultò un fattore importante di integrazione. In Inghilterra, viceversa, i matrimoni misti risultarono meno necessari e anche il latino non si diffuse molto tra i popoli invasori. Renan ritiene che in Francia nel periodo successivo al regno di Ugo Capeto le differenze etniche avessero perso quasi tutta la loro importanza e i “francesi” si differenziassero prevalentemente in verticale con i due estremi rappresentati dai nobili e dalla plebe rurale. Anche nelle zone oggetto delle conquiste normanne si verificarono fenomeni di rapida integrazione etnica sotto la guida di un ceto nobiliare particolarmente portato alla guerra e ad enfatizzare il patriottismo. La progressiva diffusione di una mentalità che giustificava ed accettava come necessari i fatti di violenza, i conflitti e le guerre che erano stati alla base della fondazione dei nuovi Stati portarono progressivamente alla formazione di una cultura nazionale con la relativa mitizzazione degli eventi fondativi. In maniera realistica bisogna riconoscere che la tirannia e la giustizia sono entrambe necessarie per la nascita e la durata degli stati. Viceversa l’enfatizzazione delle identità religiose come nel caso dell’Impero turco-ottomano ha portato alla rovina del Medio Oriente. L’impero asburgico, invece, bastione di frontiera tra l’occidente e l’islam, ha mostrato la sua debolezza nella persistenza di tradizioni, linguaggi e costumi (ethnos e ethos) diversificati tra le sue varie nazionalità: tedesca, boema, ceca, magiara, slava e austriaca. Comunque all’origine della creazione delle varie identità nazionali sono risultate decisive dinamiche politico-militari del tutto contingenti mentre nei casi in cui è prevalsa la disgregazione è stata la frammentazione etnica, linguistica e religiosa che ha determinato il fallimento di quel processo che avrebbe portato alla costituzione di un blocco nazionale coeso. Ma in definitiva
<<in che cosa il principio delle nazionalità differisce dal principio delle razze (etnico) ? >>
Alcuni teorici della politica affermavano che
<<una nazione è innanzitutto una dinastia, alle cui spalle sta una antica conquista prima accettata e poi dimenticata dalla massa del popolo.>>
In molti casi, afferma Renan, il vincolo che mantenne uniti per un periodo più o meno lungo vincitori e vinti risultò essere quello dinastico ovverosia, specifichiamo noi, una egemonia connessa al prestigio di una élite dominante detentrice di strumenti di coercizione militare. Ma non sempre è così: Svizzera e Stati Uniti che si sono formate come agglomerazione di aggiunte successive non “hanno alcuna base dinastica” e comunque gli Stati-nazione consolidati ed economicamente e culturalmente coesi riescono, per lo più, a sopravvivere alle crisi “dinastiche”. Con il XVIII secolo, poi, la patria e la cittadinanza, in se stesse, divengono elementi decisivi di identificazione e coesione nazionale: il diritto “dinastico” lascia progressivamente posto al principio nazionale. Su che cosa risulta fondato allora il principio e il diritto nazionale? Sappiamo bene che spesso si è messo in primo piano il “criterio etnico”. Il principio etnico può portare a guerre di conquista verso territori abitati da “consanguinei” ma, osserva lo studioso francese, “il diritto primordiale delle razze è un errore gravissimo”. E difatti già con l’Impero romano il principio etnocentrico era stato falsificato: fondata dalla violenza, mantenuta dall’interesse, la Pax romana era diventata una unione di cittadini e stranieri tenuti assieme da un ordinamento giuridico universalistico. Ad esso si aggiunse il cristianesimo con il principio della eguale dignità e “personalità” di tutti gli esseri umani di fronte a Dio. Neanche le invasioni barbariche né Carlo Magno seguirono il principio etnico. Queste formazioni pre-statuali erano basate sui rapporti di forza e infatti la Francia dei capetingi e altre grandi nazioni si sono sviluppate proprio negando le identità dei numerosi gruppi etnici che le avevano originariamente popolate. Ogni gruppo etnico, tra l’altro, è una famiglia ben distinta nella specie umana che, però, si costruisce effettivamente solo nella storia, come unità culturale e linguistica. Rispetto a questa il rapporto stabilito dal legame biologico (fisiologico, genetico) appare incerto e sostanzialmente indecifrabile.
<<La razza come la intendiamo noi altri storici è dunque qualcosa che si fa e si disfa e per questo non può essere applicata in politica visto il prevalere nei gruppi sociali del “sangue misto”.>>
Anche la “lingua” comune invita ma non forza ad unirsi, come nel caso dell’America Latina e della Spagna oppure di Stati Uniti ed Inghilterra, mentre in alcuni Stati, tipo la Svizzera, possono coesistere anche tre o quattro idiomi. La volontà, la volontà “di stare insieme”, è superiore alla “lingua” a patto che non vengano prese iniziative che mirino ad una unità linguistica forzata. Le “lingue” non stanno in corrispondenza diretta con le etnie: “le lingue sono formazioni storiche che non c’entrano con l’unità di sangue”. Così scrive Renan:
<<Non abbandoniamo questo principio fondamentale: che l’uomo è un essere ragionevole e morale prima di essere racchiuso in questa o quella lingua o essere membro di questa o quella razza e partecipe di questa o quella cultura>>.
L’approccio universalistico liberale-borghese si esprime nella convinzione che prima della cultura nazionale c’è la “cultura umana”. Per quanto riguarda le religioni e i riti essi all’inizio erano legati alla famiglia, poi alla città e allo Stato; a Roma la religione di Stato divenne un problema politico e chi la attaccava veniva perseguito e perseguitato. A partire dalla modernità e dalla Riforma la religione è diventata una “questione personale, riguarda la coscienza di ognuno”. La comunanza di interessi non costituisce una nazione e lo Stato che ne comprende una o più d’una (comunità), se è un vero Stato, non è, quindi, soltanto una unione commerciale. Nemmeno la geografia e i confini naturali stabiliscono un criterio fondante per la costituzione di una realtà nazionale ma essi vengono, a volte, usati come una scusa per intraprendere azioni politiche e militari determinate da strategie che hanno lo scopo di accrescere la potenza.
<<Una nazione, un popolo, è un principio “spirituale”, prodotto dalle profonde complicazioni della storia, una famiglia “spirituale” e non un gruppo determinato dalla configurazione del suolo>>.
Il principio “spirituale” che si chiama nazione sussiste perché è presente una comune
<<eredità di ricordi e il desiderio di vivere insieme, la volontà di mantenere indivisa l’eredità ricevuta e le glorie del passato da prolungare nel futuro>>.
Una coesione culturale, di mentalità (ideologia) e modi di vita è quella che costituisce la nazione in senso etico-politico mentre solo in un secondo tempo si può valutare l’importanza di dogane in comune, frontiere conformi ai principi strategici, “razza, “lingua”. Una autentica nazione si fonda sulla solidarietà per i sacrifici compiuti e per quelli da compiere e sul consenso per mantenere questi impegni e restare uniti. Ma i gruppi esterni o esterni allo Stato rimangono uniti o vengono attratti da esso solo se gli abitanti di un territorio, mediante un voto, manifestano la loro volontà in questo senso. Renan pensava che gli Stati-nazione europei potessero evolvere verso una forma confederale ma, con una sorta di preveggenza, nutriva forti dubbi sul valore e sui risultati di simili iniziative. Gli Stati-nazione devono tutelarsi contro i propositi di secessione arbitrari; in questo senso, mi sembra, egli ritiene che essi debbano risultare legittimi, ovverosia conformi a norme universali di diritto e quindi non sottoposti a decisioni che, seppure prese legalmente, sulla base di iniziative della maggioranza della popolazione, vengano determinate da umori contingenti di forze sociali manipolate e manipolabili. Enfatizzando l’elemento etico Renan ripete:
<<La Nazione è una grande aggregazione di uomini, sana di spirito e generosa di cuore, con una forte coscienza morale>>.
Essa è, pur tuttavia, anche identificabile tramite una popolazione che risiede permanentemente in un determinato territorio così che l’appartenenza di un suolo ad un determinato popolo, per tradizione, sarebbe un fattore determinante dell’identità nazionale.
Secondo il filosofo e studioso Mario Albertini la nazionalità si fonda sulla fedeltà e sulla “identificazione” degli individui con essa. Esisterebbe una “nazionalità naturale” legata al territorio e alla “lingua” e una “nazionalità artificiale” basata sull’attaccamento al territorio, alla lingua e alle origini comuni e fondamentalmente tesa a svilupparsi in un area più vasta della prima. Albertini partiva da una ideologia di tipo federalista che ipotizzava una “supernazionalità” spontanea dei popoli a partire dalla Respublica Christiana del medioevo e dalla successiva cosiddetta “repubblica europea dei letterati”. In realtà il principio federale e confederale è sempre subordinato a quello statuale: esso ha valore soltanto quando è inserito in una formazione politica coesa capace di esercitare egemonia, “ordine” e “sicurezza” all’interno e forza espansiva verso l’esterno.
Mises osserva che, in Renan, Nazione e Stato risultano praticamente sinonimi. La nazione nasce dalla volontà degli uomini di vivere insieme in uno “stato” comune, ovvero dal diritto inalienabile delle popolazioni di decidere autonomamente del proprio destino. Ma il diritto all’autodeterminazione di cui parla Renan non è un diritto all’autodeterminazione delle comunità linguistiche bensì degli individui. In ossequio ai fondamenti del liberalismo Renan non dà peso alle minoranze e alle migrazioni nazionali, ma, piuttosto, alla volontà di un popolo, che pur risultando delimitato da una autorità statuale, può essere inteso sempre e solo come una somma di “liberi individui”.
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Nel suo saggio Appropriazione/Divisione/Produzione del 1953 Carl Schmitt inizia con alcune precisazione etimologiche e terminologiche. Le parole tedesche Nehmen e Teilen hanno il significato rispettivamente, a partire dal fatto dell’appropriazione, di “prendere” e “divisione” con riferimento al concetto di “partecipazione”. Weilen, invece, rimanda all’idea di “produzione”, a partire del significato arcaico di “pascolare”, con allusione ad un originaria economia nomade riferita alla tradizione germanica antica. Il termine greco Nomos si riferisce normalmente alla nozione di “legge”, come legge scritta oppure come costume e/o consuetudine; la parola si oppone anche a Physis in quanto caratterizzante ciò che ha “valore”. In quanto derivata dal verbo Nemein la parola Nomos ha, però, le sue radici in un concetto almeno apparentemente molto diverso come “prendere”, “conquistare” e da qui il suo collegamento con il termine tedesco Nehmen. L’associazione del verbo Nemein e di Nomos, secondo Schmitt, può essere collegata, per analogia, a Legein e Logos, con i loro corrispettivi tedeschi Sprechen e Sprache, i cui significati sono traducibili sostanzialmente con “parlare” e “lingua”. Il Nomos sembra possa essere letto, perciò, come la “parola” che sanziona e stabilisce formalmente il momento dell’appropriazione e della conquista. Così Schmitt afferma:
<<Nomos significa, quindi, prima di tutto l’appropriazione (Nahme)>>.
Dal verbo greco Nemein – e dalle parole tedesche Nehmen, Nahme – nel senso di cui sopra proviene, in secondo luogo, lo “spartire”, il “dividere” (Teilen) e da questo anche il “distribuire” e, in ultima istanza, il “giudizio” come “fatto” sociale (Ur-Teil) ed il suo risultato. Schmitt introduce, poi, una lunga citazione da il Leviatano di Hobbes:
<<La nutrizione di uno Stato consiste nell’abbondanza e nella distribuzione delle materie che servono alla vita. Diritto e proprietà sono una conseguenza di questa distribuzione – e questo ben conoscevano gli antichi, i quali chiamavano Nomos, cioè distribuzione (Verteilung, distribution), quello che noi chiamiamo diritto (law) e definivano come giustizia (justice) il distribuire ad ognuno il proprio Nomos e quindi il diritto e la proprietà, cioè la parte di ciascuno ai beni della vita>>.
Ma, in terzo luogo, da Nemein deriva ancora la nozione del coltivare/produrre (Weiden), del lavoro produttivo fondato sulla proprietà personale. La giustizia commutativa (l’acquisto, lo scambio) e quindi l’eguaglianza formale degli attori nel mercato presuppone una proprietà che nasce, secondo uno schema che rimanda al diritto naturale, da una divisione “primitiva” coordinata con una corrispondente produzione. Da Nemein “derivano”, quindi, i fenomeni economico-sociali del coltivare, dell’agire economicamente, dell’utilizzare, del produrre così che si può dire che in ogni ordine giuridico e sociale organizzato politicamente si è preso, diviso e prodotto. Questi atti sociali sono il fondamento – in un approccio, diverso da quello schmittiano, denominato comunemente col termine “istituzionalismo” – di quell’agglomerato di istituzioni reali ed effettive che vengono tenute assieme dal potere statuale e che sono caratterizzate da un corpo sociale, da una organizzazione gerarchica e da un sistema normativo disciplinante il funzionamento delle istituzioni stesse. Comunque, a questo punto, Schmitt si domanda:”Dove e come si svolgono gli atti del prendere, dividere e produrre?” Fino al XVIII secolo e alla Rivoluzione Industriale si pensava che l’appropriazione dovesse precedere la “divisione” e la produzione. L’appropriazione veniva intesa come un atto eminentemente politico: essa si presentava come guerra verso l’esterno e come messa al bando, privazione di diritti, spoliazione nei conflitti interni ai vari corpi politici statuali. Essa si presentava come una serie di azioni esercitate tramite la forza coercitiva e, quindi, come un processo non particolarmente differente da quello che caratterizzava l’accumulazione originaria vista all’interno della teorizzazione marxiana. Successivamente, secondo Schmitt, tutti gli ordinamenti e i rapporti giuridici concreti che conseguivano all’acquisizione della terra “sorgono solo dalla divisione, dal mio e il tuo delle stirpi, tribù, gruppi e individui”. Nell’antichità e nel medioevo anche la “divisione” si presenta come un atto di forza, nella forma di guerre e conquiste spesso determinate nel loro risultato dalla “sorte” e culminanti in un ideale “giudizio di dio”. A proposito del colonialismo e dell’imperialismo Schmitt riferisce che per Chamberlain essi rappresentavano la soluzione della questione sociale mentre in Lenin l’appropriazione così intesa doveva essere considerata come un atto di predazione e usurpazione. In maniera corrispondente il socialismo viene qui inteso, non del tutto scorrettamente dal suo punto di vista, secondo una formula pseudo-leniniana che l’interpretava come “sviluppo delle forze produttive, pianificazione ed elettrificazione”. Liberalismo e socialismo darebbero il primato, entrambi, alla produzione e alla distribuzione. Lo sviluppo delle forze produttive “libere”, o “centralizzate”, comporterebbe un aumento tale della produzione, e quindi della massa dei beni di consumo, che porrebbe termine ai conflitti “violenti” per l’appropriazione e al problema dell’equità della “divisione”. In questa ottica, liberale e socialista ad un tempo secondo Schmitt, lo sterminato aumento della produzione mediante la tecnica – ma sarebbe meglio parlare di tecnoscienza – relegherebbe l’”appropriazione” a una sorta di residuo atavico del diritto primordiale di preda, retaggio di una età di miseria. Nel liberalismo, tramite l’aumento delle produzione e del consumo, si risolverebbe la questione sociale mentre nel comunismo, come compimento del socialismo, il telos sarebbe rappresentato dall’aspirazione ad una giusta divisione e distribuzione, ad una redistribuzione che può essere resa possibile solo da una sovrabbondanza di beni. Al di là delle utopie sulla fine della “scarsità” rimane comunque da affrontare un reale problema di divisione e redistribuzione che mette in gioco anche la possibilità di limitazioni e regolazioni dei diritti dei privati alla proprietà, in senso egualitario, partendo da processi politici “democratici” in cui la partecipazione della maggioranza dei cittadini – compresi i membri di gruppi normalmente “esclusi” – alle decisioni politiche avrebbe un ruolo decisivo. Schmitt inizia poi un breve excursus descrivendo alcuni aspetti dei movimenti socialisti a partire dai cosiddetti “utopisti”. Fourier vede la possibilità della realizzazione di una società di giusti e eguali per mezzo di una organizzazione (falansteri) che permetterebbe la realizzazione di una produzione illimitata fondata su uno sviluppo tecnoscientifico incessante. In Proudhon, viceversa, prevale il moralismo, così che la giustizia troverebbe la sua realizzazione in una redistribuzione della proprietà in piccole quote permettendo, perciò, ai lavoratori di rimanere autonomi come liberi produttori – nell’illusoria ipotesi che la piccola produzione mercantile possa permanere indefinitivamente – premiando per l’appunto la laboriosità a detrimento degli oziosi parassiti e dei rentier. Di fronte a questi cosiddetti utopisti si pone Marx che porterebbe avanti la tesi dell’irrazionale tendenza del capitalismo a non redistribuire beni e servizi nonostante che i rapporti di proprietà siano ormai divenuti obsoleti a causa dell’aumento rapido e continuo della produzione. In Marx sarebbe presente, però, anche l’idea dell’appropriazione che si presenta, in effetti, nella forma della riappropriazione a spese dei rentier parassitari. A questo rivoluzionamento seguirebbe una “divisione” e una produzione adeguata e conforme. Così in Marx il momento decisivo è rappresentato dalla “espropriazione degli espropriatori” ovvero dalla “appropriazione industriale” e dalla riconquista del possesso dei mezzi di produzione da parte della massa dei lavoratori. In maniera molto acuta Schmitt pone, poi, un problema che è stato sviluppato in maniera notevole da La Grassa nella sua rivisitazione critica del pensiero di Marx:
<<Tuttavia, tutti i sistemi economici e sociali costruiti sulla base della mera produzione contengono in sé qualcosa di utopico. Se davvero non vi sono altro che problemi di produzione e la semplice produzione dà origine ad una tale ricchezza e a possibilità di consumo così estese che né l’appropriazione né la divisione costituiscono più alcun problema, in tal caso vien meno la stessa attività economica come tale, poiché quest’ultima presuppone sempre una certa scarsità>>.
Un’ altra tesi errata già considerata dal giurista tedesco e che viene in qualche modo riproposta anche nel nostro periodo storico, in quanto caratterizzato dalla mondializzazione e dalla globalizzazione – anche se dominate in questa fase da conflitti multipolari che dimostrano la debolezza della lettura liberale e “cosmopolitica” dei fenomeni suddetti – concerne l’idea che l’”appropriazione” perda d’importanza con l’espansione globale delle relazioni capitalistiche che porterebbero, nell’ottica della retorica liberale classica, a sviluppare una “cooperazione competitiva” in un “sistema commerciale universale” . Nel marxismo questa tesi era, in certo qual modo, esemplificata negli scritti di Rosa Luxemburg ma più in generale essa appare alimentata da una visione che interpreta il conflitto per la supremazia come un effetto di relazioni estrinseche tra forze separate e irrelate che solo casualmente entrano in contrasto. Lo squilibrio incessante, come afferma La Grassa, caratterizza invece tutte le dinamiche di lotta che vengono a generarsi tra gruppi e comunità di individui, statuali o sub-statuali che siano, così che il momento del Nomos – come legittimazione ad intraprendere un azione di ostilità nei confronti dell’avversario per la supremazia economica, territoriale e politica – viene a fondersi con l’agire “politico” in quanto momento che stabilisce la distinzione tra il nemico privato (inimicus) e quello pubblico (hostis). Nel primo tipo di conflitto, quello “privato”, viene a svilupparsi una competizione per quote di mercato, in un ambito solidale di accettazione di regole (e violazione implicite delle stesse) comuni, che vede la centralizzazione dei capitali come risultato di una dinamica impersonale nella quale i soggetti giocano una partita in cui anche gli sconfitti accettano le regole del gioco. All’interno degli Stati-nazione succede però, in determinate congiunture, che quelli che erano soltanto dei nemici privati, a seguito di varie coalizioni tra loro, e successivamente all’acutizzazione di svariate tipologie di conflitti si trasformino l’uno rispetto all’altro in “nemici pubblici”, in nemici dal punto di vista “politico”. I gruppi sociali dominanti all’interno di una formazione sociale particolare difficilmente sono individuabili nelle loro interrelazioni, che implicano schieramenti potenzialmente conflittuali, sino a quando non si faccia avanti una situazione di antagonismo estremo. Solo quando si entra nella situazione in cui il contrasto diventa quasi una “guerra civile” (quella che Agamben analizza a partire dalla parola greca stasis) i gruppi e le coalizioni sociali assumono una forma e una visibilità politica e gli attori del conflitto, che prima si potevano stimare solo in “potenza”, diventano protagonisti dell’atto “politico” decisivo (per la supremazia). Riassumendo, di passaggio, alcune osservazioni tratte da una recensione al suo saggio, intitolato Stasis. La guerra civile come paradigma politico, ricordiamo che il termine stasis, secondo la lettura di Agamben, risulta all’inizio particolarmente ambiguo perché va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “–sta” del verbo greco hìstemi [N.d.R. Da internet:<<Lo “stare contro”(contrasto) nei significati di opporsi e resistere ha nel verbo latino sto, stĕti, stătum, stāre, stare ritto in piedi, essere al proprio posto, e nel greco ίστεμι histemi sto, mi trovo.., una interessante chiave di lettura>>]. Agamben arguisce però che nel suo secondo senso, il lemma ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24). In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Schmitt comunque ribadisce che le costituzioni politiche, e quindi lo stesso potere costituente, si intrecciano e derivano dall’appropriazione in quanto fenomeno “primario” per cui lo stesso divenire storico non sarebbe altro che il progresso nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione. Lo stesso Stato amministrativo – uno dei quattro tipi ideali di Stato secondo il pensatore tedesco – rispetto al quale lo “Stato sociale” rappresenterebbe solo una specificazione, presuppone l’appropriazione di ciò che, poi, viene redistribuito. La relazione e il legame tra il “politico” e il Nomos, intesi nel senso di cui sopra, si oppone al modello dello Stato legislativo inteso come Stato di diritto nella tradizione liberale classica. La legalità, considerata come mera procedura e forma, nel momento in cui surdetermina l’atto politico in quanto creatore ed effetto, ad un tempo, di ogni ordinamento legittimo, impedirebbe l’affermarsi della democrazia “sostanziale” la quale presuppone che il popolo-nazione si presenti come una entità omogenea. La democrazia “identitaria” così intesa, quando si “realizza”, promana da una autorità che “trascende” le singole volontà individuali – in quanto transustanziazione mistica della nazione “una” e “unica” – e tale da risultare, a tutti gli effetti, un potere legittimo che si afferma come indiscusso e indiscutibile agli occhi delle masse. Ma nell’epoca della fine della filosofia, e in particolare della filosofia politica, il politico, inteso come “guerra” per la supremazia e il potere, ha spazzato via ogni ricerca problematizzante di senso legata a considerazioni razionali sul valore dei vari regimi politici ritenuti possibili e/o auspicabili. La politica, come scienza, deve ormai partire dalla contrapposizione tra gruppi sociali alleati tra loro che rappresentano l’antagonista nella modalità del nemico “pubblico” (hostis). Il sistema globale capitalistico a predominanza Usa ha ancora bisogno, però, dell’enorme copertura ideologica in cui viene affermato come dogma la presunta congruenza e armonia prestabilita tra diritto e legge, giustizia e legalità, contenuto e procedura. Questo “corpus” dogmatico viene portato avanti dal pensiero giuridico dominante e dagli estensori e cultori del sistema internazionale dei diritti umani “sacri e inviolabili”. Per concludere e riallacciandomi alla parte iniziale di questo discorso proponiamo la tesi che la nazione – all’interno di uno Stato con gruppi sociali diversi per cultura, lingua, etnia, ecc. – si coagula e costituisce divenendo un popolo solo quando una maggioranza, formatasi storicamente, della popolazione, stabilisce che la minoranza rappresenta, rispetto a essa, il “nemico pubblico” (hostis). Il popolo diviene “nazione” nel momento in cui si identifica, per opposizione, rispetto ad una minoranza che nei casi estremi deve essere “scacciata”, “schiacciata” o comunque “esclusa”, cioè ridotta a un livello di estrema sudditanza.