I NOSTRI COMPITI di G.P.
Vorrei tornare brevemente sull’ultimo articolo di Gianfranco
I segnali indicanti i possibili sviluppi della stessa devono essere inseriti nell’ambito di una prospettiva meno gretta di quella dominante, tutta racchiusa in un “fazzoletto economicistico” che ingenera uno sconforto aperto circa le capacità degli attuali gruppi dirigenti mondiali di riuscire a comprendere la gravità della fase (e mi riferisco soprattutto alle potenze sub dominanti).
Da questo punto di vista, è allora necessaria una sintesi degli elementi raccolti e di quelli appena percepiti, i quali ottengono il giusto peso solo se inseriti un’analisi teorica complessiva – indispensabile per andare al di là della visione en économiste, ancora tanto in voga – che tocchi concretamente gli sviluppi storici e il modo di funzionamento di quella che abbiamo definito come la formazione sociale (occidentale) dei funzionari privati del capitale (nell’approfondimento epocale della sua dinamica di segmentazione tra gruppi dominanti appartenenti a aree geografiche e culturali più o meno omogenee). Solo uscendo dalle quattro mura fenomeniche della sfera mercatista potremo, come nazione e come popolo (ed è quello che più ci interessa), inoltrarci lungo la via, certo tortuosa e impervia, che conduce fuori dalla decadenza, con meno danno possibile per gli assetti nazionali.
Innanzitutto, proprio per questa ragione, con molta arrabbiatura, devo sottolineare che i nostri articoli, di tenore sicuramente opposto al coro generale catastrofista – quello che di fronte ad ogni terremoto sistemico è convinto di sentir suonare le trombe per il Giudizio Universale – vengono sistematicamente snobbati dai cosiddetti siti alternativi, megafoni impazziti delle strambe visioni “crolliste”, a sicuro effetto mediatico ma a scarsissimo, se non inesistente, spessore analitico.
Per esempio, sono “secoli” che Comedonchisciotte riproduce articoli di dubbio valore teorico, amplificanti il vuoto sensazionalismo derivante dal presunto scoccare dell’ultima ora del capitalismo, guarda caso, quasi tutti provenienti da esperti professoroni d’oltre atlantico, i quali però, già in passato, hanno dovuto correggere il tiro di almeno qualche decennio, causa la solita smentita da parte dei fatti. Ciò accadrà ancora e sono pronto a scommetterci tutto. Di questi esaltati Lenin avrebbe detto con la sua solita scaltrezza: “Sono brava gente, ma futile, e vani sono i loro strepiti”. Dunque “tiremm innaz”, tanto sono convinto che l’articolarsi delle sequenze della crisi ci darà presto ragione.
L’ultimo bollettino del Leap ha evidenziato la necessità di una soluzione politica coordinata, da parte dei paesi più sviluppati, quale aspetto dirimente per risalire la china della debacle economico-finanziaria. Tuttavia, si tratta, per quanto questa visione sia meno ristretta di quella predominante, di un’invocazione politica ancora racchiusa in un involucro economicistico. Non è pensabile che la caduta del sistema economico-finanziario sia aggiustabile a tavolino, semplicemente studiando nuove regole e implementando un sistema più inclusivo atto a ricomprendere, nel consesso dei decisori internazionali, le cosiddette potenze emergenti.
Alla base della caduta degli indici economici e della produttività reale c’è proprio il cambiamento dei vecchi rapporti di forza sullo scacchiere geopolitico, nonostante tale stravolgimento non sia ancora così evidente perché coperto dalla cortina fumogena dell’inceppamento dei mercati globalizzati, finanziari e “reali”.
Da più parti si sente dire che occorre salvare la globalizzazione, ma ammesso che questo termine abbia mai definito alcunché, è proprio quest’ultima ad essere messa definitivamente in discussione. La globalizzazione, volendola interpretare nella maniera giusta, non è stata altro che una forma di coinvolgimento coestensivo, quanto fittizio, utilizzato dalla potenza uscita vincitrice dalla Guerra Fredda, per imporre alle altre nazioni, sotto forma di regole neutrali, il suo particolare ordine mondiale. Con la caduta di quest’ultimo (che non significa la caduta degli Usa tout court) verrà meno anche la sovrastruttura ideologica che su quell’ordine si era sviluppata.
Siccome non è mai pensabile un vuoto ideologico, “qualcos’altro” prenderà presto il posto delle vecchie concezioni in decadimento. Gli americani sono, come sempre, molto più avanti di tutti noi (del resto, stiamo parlando del loro ordine, quello che ha fatto di essi la potenza principale) e stanno tentando di invertire politicamente la rotta, proprio mentre i nostri governanti continuano a crogiolarsi con miseri trucchi contabili per solo tamponare ciò che non possono più gestire. Il protezionismo fattivo di Obama, preannuncia appunto questo cambiamento (esso è solo un segnale), mentre, d’altro canto, si cerca così di ottenere dalla spremitura del “limone ideologico” della vecchia situazione, ogni stilla necessaria a prendere tempo (facendolo perdere agli altri) dando, al contempo, massima copertura alle proprie intenzioni geopolitiche. L’obiettivo degli statunitensi è quello di far pagare agli alleati il prezzo più alto per la ridefinizione della loro strategia globale .
Un altro segnale importante viene dall’aggressività con la quale gli Usa tentano di appropriarsi delle fonti di approvvigionamento e delle principali risorse energetiche del pianeta, impedendo contemporaneamente ad altri potenze in recupero di sovranità di potersene servire per mettere in discussione la loro egemonia. Nel far questo gli Usa occupano, militarmente o con azioni di dissuasione politico-militare, aree geografiche che sono vitali per i suoi interessi di prima potenza assoluta.
Solo per citare un caso tra gli altri, Obama ha affidato l’incarico di architetto della politica estera all’ex generale dei Marine James Jones, il quale, in linea con quanto dichiarato da altre teste d’uovo statunitensi, ritiene che la sicurezza nazionale passa dal controllo delle aree dove vi è maggior presenza di risorse energetiche, come il Golfo di Guinea, in Africa. Quindi l’Africa, ma anche Georgia o Ucraina, solo per citare altri paesi nell’orbita di Washington, rappresentano per gli Usa “aree di interesse vitale” che hanno a che fare direttamente con la sua “sicurezza nazionale”. Uno scrittore americano ha detto di Obama, “[Egli] è un realista duro dell’Illinois, primo produttore di carbone, spalleggiato da persone intelligenti della lobby energetico-finanziaria”. C.V.D., e per chi vuol perseverare con la bufala del grande riformatore democratico ecco come continua lo stesso scrittore: “Su Obama la gente racconta storie che non conosce, finendo per credere nelle proprie favole. L’ex senatore era relativamente sconosciuto ed è per questo che è diventato presidente. Non aveva la zavorra di Hillary e con lui è stato possibile sperare e sognare molte cose diverse”. Ma la sua diversità è solo uno specchietto per le allodole che rende appena più presentabile l’odiosa prepotenza americana.
Infine, ancora un piccolo errore d’interpretazione commesso dai ricercatori del Leap, i quali svolgono, perlomeno, ed occorre dargliene merito, un lavoro onesto sull’andamento della crisi in pieno sviluppo, senza tentare di nascondere la sua drammaticità. Lo riporto direttamente dall’articolo di
“Vi è poi, mi sembra, nel bollettino del Leap una concezione secondo cui è mancata l’azione cosciente delle autorità politiche, le quali potevano forse limitare i danni cooperando; il bollettino afferma che certe impalcature messe in piedi (e da rifare) sono “costruzioni umane, le quali sopravvivono soltanto finché l’interesse dei più è garantito”. Qui ci andrei cauto. Non vi è dubbio che la politica è decisiva, che certi apparati sono “costruzioni umane”, ma come precipitato – transitorio, spesso però di una transitorietà assai lunga a seconda dei concreti svolgimenti storici – di conflitti per interessi “propri” (“egoistici”), che si sviluppano in un campo completamente pervaso da tali flussi conflittuali. Come ho spiegato anche nel recente Il carattere di “feticcio” della merce, l’andamento della contesa – la sua comprensione, controllo, regolazione e sbocco finale – non è nella piena disponibilità degli attori in lotta. Inoltre, ho sostenuto altrove, e ribadisco, che l’azione non cooperante, ma appunto “egoistica”, non è sempre la più irrazionale. Soprattutto, è praticamente d’obbligo, malgrado le ciance dei “bene intenzionati”, quando manchi – come manca in campo internazionale – un’autorità, dura e se necessario brutale, che sappia far rispettare un dato ordine di decisioni, anche “aprendo il fuoco” su chi non si attiene ad un certo comportamento rigorosamente disciplinato.”
In sostanza, è proprio ciò che non hanno capito i gruppi decisori italiani, i quali, troppo incantati dall’ideologia dominante e senza più punti di riferimento interpretativi navigano a vista o, comunque, affidandosi a vecchie mappe ormai inservibili. Del resto, in maniera speculare, anche le forze sedicenti antagonistiche, guidate da uno stuolo di intellettuali con le arterie rinsecchite, non sanno proporre nulla di meglio delle obsolete ricette neokeynesiane o delle ancor più bizzarre teorie sul colpo di “Classe” (quale Classe?) per dare la spallata definitiva ad un capitalismo ormai morente.
Concluderei, richiamando l’attenzione sull’ultima parte del titolo dell’articolo, dal sapore leninista, utilizzato Gianfranco (“i nostri compiti”), che non credo sia casuale. Forse questi non ci sono ancora abbastanza chiari, o, per lo meno, non nella loro integralità. Stiamo per entrare in un periodo, e di questo sono fermamente convinto, in cui la storia avrà delle improvvise accelerazioni che accresceranno al massimo, in via ipotetica, la nostra possibilità di incidere su certi processi. Nella fase che si affaccerà, parafrasando Lenin, ogni giorno, ogni mese, potrebbe divenire, “nel senso dell’apprendimento degli elementi della scienza politica”, equivalente ad un’intera epoca storica. Le esperienze che accumuleremo e la nostra capacità di imparare da queste, diverranno fondamentali per riuscire a muoverci efficacemente nella congiuntura, per forgiare le nostre armi politiche e ideali. In quel momento, vedremo anche che l’impazienza sciocca dei nostri frivoli rivoluzionari utopisti, i quali raccolgono oggi così tanto clamore, si trasformerà in tentennamento (e in tradimento) e solo le forze che avranno saputo leggere criticamente i primi passaggi della crisi saranno pronti per l’azione politica e sociale di trasformazione.