IDEOLOGIA, STATO, GEOPOLITICA
Il diffondersi di un degrado generalizzato a livello della sfera politica italiana, determinato, sopra ogni cosa, dallo sfaldamento delle basi materiali ed economiche della formazione sociale espressione del nostro sistema capitalistico (sempre più anello debole tra i paesi dell’UE) trascina con sé un imbarbarimento ed una omologazione culturale che sfocia in massicci tentativi revisionistici. Tale riscrittura di fatti, eventi e di vite che hanno percorso a testa alta le vie della Storia risponde all’esigenza primaria di dare una giustificazione ideologica allo “stato di cose presente” e di proteggere l’azione dei gruppi dominanti parassitari (a livello economico-finanziario e politico) attraverso l’opera degli agenti strategici che “abitano” la sfera ideologico-culturale. Gli agenti dominanti della sfera economica sono ormai completamente incapaci di imboccare la strada dello sviluppo e della “distruzione creatrice”, necessaria al conseguimento di standard superiori di innovazione tecnologica per l’implementazione dei nuovi settori, in quanto concentrati a preservare i propri privilegi all’ombra del predominio statunitense.
La suddetta plutocrazia di poteri finanziario-industriali, abbarbicata ai propri appannaggi castali, segna la resistenza delle produzioni più vetuste del sistema-paese – quelle lasciate indietro dalla “terza” e “quarta” rivoluzione tecnologica – alla maggiore concorrenzialità dei comparti innovativi delle nanotecnologie, della robotica, della ricerca nel settore energetico (dove invece eccellono gli americani) con pochi attori di primo piano, come l’Eni o la Finmeccanica, ancora capaci di penetrare i mercati internazionali pur contando su appoggi politici limitati. Possiamo dire che si tratta dell’esito nefasto di un’assuefazione dei nostri gruppi subdominanti decotti alla supremazia incontrastata della potenza centrale predominante (gli USA) la quale continua a sospingere l’industria dello “stivale” nelle sezioni di nicchia di mercati ormai saturi (dove vige una concorrenza spietata con i paesi di recente industrializzazione che si servono di produzioni a bassa composizione organica di capitale, con impiego preponderante del fattore lavoro a costi irrisori) “distraendo”, altresì, gli impieghi della finanza nostrana verso la mera speculazione di borsa.
La rinuncia all’elaborazione di una strategia economica (e politica) autonoma da parte dell’Italia sta determinando: 1) l’obsolescenza del nostro apparato (privato) industriale, il quale deve necessariamente appoggiarsi allo Stato per evitare il fallimento, 2) il deterioramento delle infrastrutture pubbliche (trasporti, reti telefoniche ecc.ecc.)svendute da una classe politica complice del sacco delle risorse nazionali a presunti “capitani coraggiosi” e all’onnivoro sistema bancario 3) una eccessiva “diversione” speculativa del sistema finanziario medesimo incapace di sostenere il “rischio” imprenditoriale, fondamentale per incunearsi nei settori merceologici con le maggiori potenzialità di crescita.
Diciamo pure che tutta l’Europa, con piccole differenze tra le varie nazioni, è
sottoposta alla “cura dimagrante” di Washington che stringe in un abbraccio mortale
il vecchio continente al fine di scaricare su di esso le sue politiche di aggressività egemonica, riducendolo ad un cuscinetto protettivo nei confronti dell’area euroasiatica in ribollimento. In una fase in cui il monocentrismo americano è messo in discussione dal risveglio militare ed economico di formazioni sociali di tipo capitalistico (anche se solo parzialmente assimilabili alla occidentale formazione dei funzionari privati del capitale: Russia in testa, ma anche Cina e India) l’Italia e l’Europa si accontentano delle forme d’accattonaggio filo-imperiale, rinunciando a qualsiasi progetto di autonomia.
In questo contesto di deperimento generalizzato delle strutture della società italiana, ridotta a provincia d’appendice dell’impero americano, il controllo della sfera culturale viene affidato a “precettori” ben retribuiti ed ad uno stuolo d’intellettuali tanto più “decorati” quanto più si prostrano in manifestazioni di smaccato codinismo. Questi innumerevoli maitre-a-penser della banalizzazione concettuale, ad uso e consumo delle classi dominanti e delle plebi sciocche e identitarie – primieramente formatisi alla scuola del movimentismo studentesco degli anni ’60 – diffondono le teoresi più bizzarre, intrise di psicologismo e sociologismo da quattro soldi, per distogliere l’attenzione dalle contraddizioni sociali, geopolitiche, economiche più impellenti. Tuttavia, il loro compito precipuo, oltre all’indagine sullo spaesamento individuale e collettivo di fronte all’incedere della post-modernità (in realtà un’ennesima modernizzazione capitalistica a livello ideologico, proprio come la globalizzazione, da intendersi quale rimodulazione del mondo capitalistico verso una piena omologazione alla formazione sociale americana) è quello, da un lato, di generare “dissimulazioni ideali” e falsi dilemmi per coprire la natura dello scontro in atto tra gli agenti strategici, mentre, dall’altro, essi puntano a disinnescare e dirimere l’irriducibile carica oppositiva degli interessi contrapposti emergenti nella società divisa in classi.
Questo è quello che è accaduto per la dicotomia destra-sinistra – perennemente riproposta con un’enfasi mitico-mistica – dacché è stata completamente sussunta sotto precise coordinate sistemiche. In sostanza, si deve dire che tutte le forze politiche di un tempo, anche quelle che vantano una tradizione di lotta sociale, hanno accettato di spartirsi i compiti di ri/configurazione sistemica nell’ambito di uno spazio sociale capitalisticamente unificato. Da questo punto di vista il tema del confronto a due Pd-Polo delle Libertà, prossimo architrave della politica italiana, seguirà il copione di uno speculare gioco delle parti, definito dai più “arditi” politologi di regime (quelli alla Panebianco, tanto per intenderci) di cosiddetta democrazia matura; in verità, solo l’ultimo stadio supefetativo, temporalmente parlando, raggiunto dall’ “involucro” democratico che protegge la dittatura della classi dominanti in un’epoca di “monocentrismo disequilibrato”.
In questa rete restano incagliati i partiti che si portano addosso, ormai per sola comodità identificativa, denominazioni antisistemiche (poco più che un’ascendenza socialdemocratica o peggio ancora assistenzial-statalistica,) ma che già hanno fatto il salto di “qualità” accreditandosi quali forze ordinatrici degli attuali assetti capitalistici, accettandone correità e (cor)responsabilità (istituzionali e di governo).
Il quadro descritto verrà presto a completarsi laddove è ormai evidente che la diatriba tra destra e sinistra risulta sì sorretta da idee regolative che corrono lungo binari paralleli – leggi la mano invisibile del mercato per la destra e l’intervento statale nell’economia per la sinistra (vedere gli ultimi saggi di Gianfranco La Grassa pubblicati sul sito www.ripensaremarx.it, in particolare Contro le quattro ideologie e Una prima mossa) – ma entrambe sono funzionali alla riproduzione delle “piazzaforti” ideologiche del capitalismo, con trasformazione della partita politica per il governo in una questione di pura amministrazione dell’esistente.
Gli schieramenti politici sono così attestati a compiti diversi – figurativamente, si pensi al sangue nella circolazione corporea quando si divide tra arterie e vene con funzioni distinte aventi però lo scopo di garantire la sopravvivenza del medesimo organismo —– ma la loro azione è perennemente orientata a governare le contraddizioni sociali secondo un’ottica interna alla riproduzione capitalistica generale.
Occorre dire, per il momento, che la sinistra (almeno in Italia) con le sue molte anime ha il più ampio margine d’azione avendo portato a coagulazione un nefasto blocco di potere diretto da interessi plurimi: quelli finanziari (Unicredit-Intesa-Capitalia), quelli confindustriali (Fiat-Merloni-Benetton ecc.), quelli dell’apparatnik sindacale (CISLCGIL-UIL) fino ad arrivare alle alte burocrazie statali delle quali Prodi è “degno” rappresentante. La destra, oltre a fare da pungolo su questioni che tradizionalmente non sono nel patrimonio culturale della sinistra – per quanto anche quest’ultima abbia presto imparato a cavalcare le ondate populistiche securitarie e proibizionistiche – è ferma al palo sia perchè non è stata in grado di cementare tali alleanze trasversali, con relativi blocchi sociali al seguito, sia perchè il suo leader è estraneo, non per propria volontà, ai circoli del salotto buono (il piccolo establishment riunito nel patto di sindacato del gruppo editoriale RCS). Dato il profilo sociologico della destra, cioè il legame elettoralistico con i ceti intermedi (piccole e medie imprese e settori più elevati del lavoro autonomo), questa non avrebbe potuto garantire, con le stesse performance della sinistra, il “taccheggiamento” di questi gruppi sociali, secondo la ben nota politica economica confezionata dai dominanti della GFeID (Grande Finanza e Industria Decotta).
Considerato lo scenario di senescenza e di disfacimento dell’ordinamento politico italiano, la spinta gravitazionale generata dalle forze in campo sottopone il sistema a forti squilibri (la recalcitranza non ancora pienamente ricomposta delle ali estreme degli schieramenti politici, l’anomalia Berlusconi, la divisione tra le forze centriste) da risistemare con la massima rapidità pena il fallimento del progetto degli attuali gruppi dominanti. Per ora quello che è sotto gli occhi di tutti è il connubio tra elites economico-finanziarie, burocratico statali, sindacali-confindustriali, poteri costituiti (magistratura, polizia, ecc) e grandi organi d’informazione agenti a sostegno della compagine di centro-sinistra. Gli attuali assetti di potere sono figli “legittimi” di una “rivoluzione” eterodiretta (i cui fili erano tirati da “potenti mani” d’oltreoceano) che ha consentito lo sbaragliamento della vecchia classe dirigente Dc-Psi (dopo il golpe giudiziario di Tangentopoli), ormai troppo compromessa con il precedente ordine mondiale derivante dalla guerra fredda. Si tratta di quella macchina di potere messa
in piedi dagli ex-PCI, arenatasi nel ’94 a causa della discesa nell’agone politico di Silvio Berlusconi.
2. Il discorso sull’ideologia e sui meccanismi di distorsione degli attuali rapporti capitalistici diviene perciò stesso di fondamentale importanza per non restare ingabbiati nel solito frasario vetero-marxista o, peggio ancora, nelle tendenze modaiole accese dagli slogan dei gruppi intellettualoidi dell’ultrasinistra, quelli che nella globalizzazione (seppur dichiarata dal basso) vi vedono i germogli di un comunismo maturo nelle viscere della “vecchia” società. Ancora una volta si tratta di sottoporre a critica quei sistemi teorici che, non avendo penetrato il nucleo logico della riproduzione sistemica, si oppongono a questa semplicemente frenando la sua dinamica propulsiva (i decrescentisti) o cortocircuitandone i meccanismi circolativi e le leggi di valorizzazione (le moltitudini consumistiche). Tra queste due ideologie marginali si colloca un’ulteriore visione del mondo, dal taglio antiumanistico ma altrettanto velleitario, che analizza i fenomeni sociali evidenziandone le sole contraddizioni economiche. Quest’ultima dichiara la necessità di premere sui dispositivi ridistributivi, attraverso proposte alquanto infantili come quella del salario minimo di cittadinanza o del basic income, per costringere il capitale ad “assistere”i gruppi sociali più vessati dalla sua “progressione”. Per criticare l’inconcludenza di questi gruppi bastano le parole scritte da Marx a Sorge in una lettera del 5 novembre del 1880: “Guesde ritenne necessario imporre alcune inezie ai lavoratori francesi, come il salario minimo imposto per legge, ecc. (Gli ho detto: se il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare qualsiasi programma). Ai pii desideri dei “reucci” dell’accademia, venditori di formule matematiche con le quali si annuncia a più riprese di aver risolto il dilemma della trasformazione dei valori nei prezzi di produzione, non bisogna cedere nemmeno un’oncia di credito.
Naturalmente queste ideologie di nicchia dell’ultrasinistra, alle quali corrispondono proposte non dissimili provenienti dai gruppi dell’ultradestra (ad es. il mutuo sociale) costituiscono la parte meno incombente del problema mistificatorio odierno, in quanto i fortilizi dell’attuale elaborazione “ideale”, quelli che puntellano il dibattito politico ed editoriale ufficiale, sono il liberismo della mano invisibile, perorato dai conservatori, e lo statal-keynesismo propugnato dalla sinistra istituzionale.
I neoliberisti dichiarano, a piè sospinto, che bisogna lasciare alle capacità autoregolative del mercato l’iniziativa di stabilire qual è il punto di equilibrio più virtuoso per lo sviluppo economico di un paese. Questa legge economica “naturale” stride, tuttavia, con dichiarazioni assai poco liberali (come l’imposizione di dazi protettivi a sostegno delle merci nazionali) che ricorrono di fronte alla concorrenza sleale dei paesi di recente industrializzazione (Cina ad esempio), i quali non sembrano preoccupati di salvaguardare i diritti sindacali dei lavoratori (il buon capitalista nostrano è sdegnato da un presente nel quale rivede il suo passato e il suo futuro?). Si finge cioè di non comprendere che dietro l’apertura dei mercati secondo le regole della globalizzazione, si nasconde la longa manus dell’imperialismo americano che predica agli altri ciò che non applica a sé stesso. Il discorso è, mutatis
mutandis, molto vicino al “necessario” raddoppiamento ideologico che aveva condotto Ricardo a patrocinare con la teoria dei costi comparati, la supremazia tecnologica e industriale dell’Inghilterra nel XIX secolo. A questa visione teoretica il più prosaico List replicò con la necessità di proteggere la nascente industria tedesca a meno di non voler trasformare l’intera Europa in una smisurata campagna al seguito delle metropoli industriali inglesi.
L’ideologia opposta a quella liberista della quale si fa, invece, promotrice la c.d. sinistra è, un’altrettanto pessima traslazione delle ricette keynesiane, seppur aggiornate, nell’attuale periodo monocentrico a dominanza statunitense. Se possibile, qui l’abbaglio è anche più grande. In primo luogo è cambiato il contesto internazionale nel quale l’azione dello Stato, per ragioni di contesa tra il modello capitalistico e quello socialistico, dispiegava le sue funzioni cosiddette sociali. Nel mondo bi-polarizzato della guerra fredda esisteva un concorrente diretto che si dichiarava portatore di un sistema alternativo al modo di produzione capitalistico. Oggi che il socialismo dell’URSS si è “de-realizzato” il capitalismo occidentale ha potuto liberare tutta la sua capacità di penetrazione, incorporando una zona del mondo che sfuggiva al suo dominio. Persino la Cina comunista ha lentamente abbandonato i dettami della pianificazione, per quanto lo Stato non abbia mai abdicato alla direzione economica delle imprese strategiche, in favore di un sistema di mercato (definito ossimoricamente ancora socialistico) che ha dato vita ad una formazione sociale molto particolare, da indagare per il futuro con maggiore accuratezza. In questo nuovo contesto, l’azione svolta dallo Stato è profondamente mutata ed è da sciocchi credere di poter ripristinare forme di assistenzialismo (con le quali seguire i cittadini dalla “culla alla tomba”) e automatismi redistributivi verso il basso. Tanto meno è perorabile la riattivazione pedissequa di politiche a sostegno della domanda, come era avvenuto per la fase storica precedente, poiché, oggi, è la spinta dell’offerta (di nuovi prodotti, per l’apertura di nuovi mercati) che determina la ricchezza e il potere delle nazioni.
Infine, i sinistri dimenticano o camuffano volutamente il ruolo specifico dello Stato nell’ambito della società capitalistica. Questo viene descritto quale strumento neutrale (non dipendente da rapporti di classe a dominanza) volto ad armonizzare corpi e attività sociali. Secondo tale impostazione, in contraddizione con la concezione marxiana dello Stato, lo stesso avrebbe un ruolo di redistribuzione della ricchezza prodotta, funzionale ad un calmieramento dell’anarchia dei mercati esito della competizione intercapitalistica. Ma cosa accade quando alcune forze sociali mettono in discussione l’accumulazione, la ri-produzione, la distribuzione sociale dei prodotti del lavoro oppure contestano l’ordine internazionale del quale lo Stato è parte integrante? Succede che lo Stato libera la sua capacità coercitiva, e invia la polizia, i carabinieri, gli eserciti, i cosiddetti “corpi” speciali di uomini in armi per ristabilire l’ordine, si tratti degli operai che scioperano per aumenti salariali o delle resistenze popolari di paesi non allineati che rifiutano la sottomissione alle regole democratiche occidentali.
Per questo bisogna sgombrare il campo dalle incrostazioni ideologiche che edulcorano il ruolo dello Stato nell’ambito dell’attuale formazione sociale capitalistica.
Certo, non è più possibile sostenere che lo Stato rappresenti il “comitato d’affari” della borghesia, secondo un’errata concezione che tendeva ad omogeneizzare ciò che omogeneo non era e mai lo sarà. Lo Stato si divide in apparati differenziati, in quanto precipitato di una lotta “di potere tra poteri” la cui granulosità è conseguenza precipua dello scontro tra agenti strategici in tale sfera; tanto meno si può credere perciò alla favola di ente super partes aduso al contemperamento virtuoso e alla ricomposizione degli interessi tra le classi sociali.
Lo Stato può essere definito l’armatura e la spada delle classi dominanti. Il grande capitale necessita, per affermare il proprio completo predominio, di un’articolazione differenziata di apparati coercitivi pronti ad attivarsi quando l’ideologia non basta a ricomporre il malcontento generale. Il capitale, in quanto rapporto sociale che riproduce costantemente subordinazione e sottomissione, si serve all’evenienza, dei “distaccamenti (o corpi) speciali di uomini in armi” che hanno il compito basilare di sorvegliare sulla costante riproduzione di detti rapporti di forza.
La funzione coercitiva dello Stato non è immediatamente indirizzata alla violenza ricompositiva delle contraddizioni, essa deve generare innanzitutto appartenenza e condivisione (la gramsciana “egemonia corazzata di coercizione”), ma tale azione è tanto più efficace quanto più forti ed equipaggiati sono gli eserciti, la polizia, e i corpi armati pronti ad intervenire dove il conflitto si fa cruento ed è a repentaglio l’ordine costituito.
Se si pensa, ad esempio, al socialismo di Stato in URSS, il mantenimento e il rafforzamento degli apparati coercitivi statali aveva risposto a due esigenze principali. Innanzitutto, in una prima fase, esisteva la necessità di valersi delle forze armate contro le borghesie internazionali e contro la reazione delle classi dominanti sconfitte dalla rivoluzione. Successivamente, quando questa urgenza è venuta meno, la conservazione dell’organismo statale ha risposto ad ben altre contraddizioni di classe. A causa delle divisione della società sovietica in gruppi e strati sociali, il mantenimento degli apparati coercitivi, giustificati dal partito sulla base del solo pericolo esterno, dava sponda, in realtà, a precise esigenze di controllo sociale interno. Anzi, i rapporti sociali inegualitari producevano un surplus ideologico tipico dell’azione degli elementi borghesi che avevano infiltrato Stato e partito. Innanzitutto, dopo la morte di Lenin (il quale aveva più volte messo in guardia il partito bolscevico anche solo dal parlare di Stato operaio per non accentuare il conflitto di classe con i contadini) le contraddizioni nelle campagne tra serednjaki, bednjaki e lavoratori industriali si allargheranno notevolmente mandando in fumo quell’alleanza sulla quale Lenin aveva invece puntato per dare il colpo di grazia ai vecchi rapporti di produzione. Ciò condusse i contadini sotto l’influenza dei Kulaki determinando un approfondimento dei contrasti con gli operai delle città. Inoltre, l’ostinazione del partito a non prendere coscienza di un antagonismo di classe concreto, derubricato per decreto politico a mera contraddizione non antagonistica, finì per aggravare la situazione.
Da questo punto di vista, aveva ragione Engels quando affermava che lo Stato si rafforza laddove la società si trova divisa da antagonismi di cui non riesce a liberarsi: “il potere pubblico si rafforza a misura che si aggravano gli antagonismi di classe nell’interno dello Stato (…) ”. Questo significa, ovviamente, che il partito bolscevico, soprattutto dopo la scomparsa del suo leader più rappresentativo, affronterà nella maniera sbagliata le evidenti contraddizioni della sua struttura sociale.
I dirigenti bolscevichi avevano già manifestato la loro larga incomprensione delle antinomie appena descritte sin da quando Lenin era in vita, tanto che qualcuno tra essi, come Pobrazensky, era giunto all’assurdità di proporre uno scioglimento del partito i cui compiti di direzione delle masse erano ormai del tutto assimilati dall’apparato statale.
In verità, in Stato e Rivoluzione Lenin aveva già riservato il trattamento adeguato a quei marxisti che sotto copertura dell’opportunismo borghese, come lo fu Kaustky, lasciarono la porta aperta a concezioni deformanti della visione marxiana dello Stato. Per esempio, Kautsky aveva sostenuto: “(…)In via di eccezione, vi sono però periodi in cui le classi in lotta raggiungono un equilibrio di forze tale che il potere statale acquista momentaneamente una certa indipendenza di fronte a queste classi e appare come una specie di arbitro tra esse”.
A questa affermazione kautskyana che travisava il pensiero marxiano Lenin oppone la parola definitiva di Engels sull’ argomento: “( …) Il primo atto con il quale lo Stato agirà come il vero rappresentante di tutta la società – la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società – sarà il suo ultimo atto indipendente come Stato. L’intervento del potere statale nei rapporti sociali a poco a poco diventerà superfluo, e si assopirà di per sé. Invece del governo sugli uomini si avrà l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi di produzione. Lo Stato non si abolisce, lo Stato si estingue (…). ”
Solo se mettiamo bene a fuoco tali concezioni possiamo cogliere quali infauste sirene si celino dietro l’attuale funambolismo della sinistra straparlante di interessi sociali garantiti dall’intervento pubblico.
3. Dedico l’ultima parte di questo breve articolo alla riconfigurazione geopolitica del globo poiché il nostro discorso precedente può essere pienamente compreso se vengono affrontate alcune questioni essenziali sulla conformazione assunta dallo “scacchiere internazionale” dopo la conclusione della Guerra Fredda.
Innanzitutto vorrei chiarire quello che io penso sia la geopolitica. Intendo quest’ultima come l’insieme dei flussi politici, economici, militari attraversanti gli spazi e le aree geografiche. Gli stessi flussi compenetrandosi e intrecciandosi incidono sugli assetti delle diverse formazioni sociali, intese come singoli paesi (interi) o come aree omogenee di più paesi. Tali fasci di flussi non possono essere interpretati asetticamente in quanto sono l’esito di una precisa spinta direzionale che porta impressa la propensione egemonista dei vari attori in gioco.
Detto ciò non si può assolutamente condividere l’opinione di Carlo Jean in
Geopolitica del Caos, Franco Angeli 2007, secondo la quale l’intersecazione dei vari
elementi (politici, economici, militari) darebbe luogo a processi di
deterritorializzazione e di dematerializzazione, con definitivo superamento della c.d. geopolitica degli spazi. Innanzitutto, esistono ancora molti territori contesi tra diversi paesi, in aree particolarmente strategiche e in aperto guerreggiamento: in medioriente, con le dispute territoriali tra israeliani, siriani, palestinesi e libanesi; tra India e Pakistan, per province strategiche o ricche di risorse energetiche (Kashmir), o ancora, in aree regionali e subregionali dove si assiste ai tentativi di autonomizzazione dei piccoli Stati, dapprima finiti nell’orbita dei blocchi contrapposti ed oggi invischiati nel turbine policentrico delle nazioni che puntano ad espandersi (Cina-Tibet, Russia-Cecenia, ecc. ecc) senza rinunciare a “diritti” precedentemente acquisiti. Oltre a queste rivendicazioni dirette esistono inoltre fette territoriali sottratte alla potestà giuridico-amministrativa degli ordinamenti statali di appartenenza. Stiamo ovviamente parlando delle zone detenute dal governo americano o da organismi transnazionali ad egemonia USA, dove sono istallate basi militari (in Italia ce ne sono 113 tra basi Nato e basi Usa), che messe insieme fanno un’altra nazione (vedere la cartina che segue, fonte www.diploweb.com)
Senza trascurare situazioni ataviche di popolazioni, come quella kurda o palestinese, che sono ancora alla ricerca di una sovranità statale riconosciuta.
In secondo luogo, il controllo geopolitico di un’area può avvenire anche tramite manovre destabilizzanti senza la pretesa di annessioni dirette (oggi improponibili), attraverso occupazioni militari, imposizioni politiche (la forma di governo, la scelta dei rappresentanti politici, ecc. ecc.) ed economiche. E’ emblematico, in questo senso, quello che sta accadendo in Iraq dove gli americani hanno dislocato nuove basi militari per poter controllare tutta l’area mediorientale (Siria, Libano, Iran ecc.ecc.) appropriandosi, attraverso l’opera delle sue imprese estrattive, delle risorse energetiche di quel paese grazie alla connivenza di un governo fantoccio. Sotto questo punta di vista, alla stessa logica risponde l’occupazione dell’Afghanistan, snodo strategico dal quale tenere sotto controllo il Pakistan (una vera e propria polveriera dove si giocano i destini geostrategici del mondo) a propria volta bastione avanzato dal quale assediare i giganti demografici e militari che in questo momento mettono a dura prova la supremazia unipolare statunitense (Russia, Cina e India).
La geopolitica appare molto simile, dunque, ad una partita a scacchi dove la posta in palio è il controllo degli assetti politici, economici, energetici e militari di intere aree geografiche. Come ogni buon giocatore sa, l’avversario non va necessariamente preso frontalmente ma deve essere indotto a scoprirsi per essere sottoposto a scacco. Le manovre di irritazione del nemico divengono allora fondamentali, costui deve essere continuamente provocato su di un lato per essere infilato sull’altro. In questo dipanarsi di molteplici tattiche legate ad un disegno strategico più o meno definito (poiché nel raggiungimento graduale degli obiettivi intermedi viene a modificarsi anche la strategia complessiva senza che per questo essa debba snaturarsi) è insito l’uso degli strumenti di soft power e di hard power.
Nei confronti della Russia di Putin, oggi primo avversario geopolitico degli Usa, gli americani hanno alternato l’ hard power (intervento militare in Serbia in quanto zona di fratellanza russa) con il soft power (la sponsorizzazione delle “rivoluzioni colorate” nelle ex-repubbliche sovietiche centro-orientali), tentando di avviare una manovra di accerchiamento del gigante russo, e concentrandosi, altresì, sulla possibilità di destabilizzare i paesi tradizionalmente posti sotto l’egemonia di Mosca. Certo gli americani non sono ancora preparati ad affrontare de visu una potenza nucleare come la Russia (a colpire per primi azzerando la possibile risposta nucleare di questa) ma complottano per circoscrivere le sue zone d’influenza e per isolarla da possibili alleati.
Il progetto di scudo spaziale americano va precisamente in questa direzione, si tratta per gli Usa di affermare la propria influenza alle porte della Russia, al fine di depotenziarne i movimenti geopolitici. In ragione di ciò anche la creazione di un clima ideologico favorevole permette alla nazione predominante di agire con più libertà. E’ questa la direttrice della forte propaganda Usa che serve a far metabolizzare, a governi e cittadini, provocazioni in piena regola, come la pretesa di attivare lo scudo spaziale a fronte di un’inesistente pericolo nucleare iraniano.
Dopo il colpo di mano dell’ubriacone El’cin l’ex Unione Sovietica era stata trasformata in un territorio di conquista e di spartizione per oligarchi e mafiosi allevati nella burocrazia comunista; a tal uopo la copertura statunitense è stata fondamentale per sovvertire un intero sistema politico-economico e decretarne lo
smembramento territoriale e militare. La penetrazione statunitense ed occidentale in Russia ha segnato la fine dell’economia statizzata e l’introduzione della rapina capitalistica (sotto forma di ricette iperliberistiche elaborate da organismi come la Banca Mondiale e il FMI) che ha distrutto il tessuto sociale di quel paese facendolo piombare in un nuovo medioevo. Questi piani si sono però bruscamente interrotti grazie alle politiche putiniane che hanno arginato la corruzione interna costringendo i poteri oligarchici a lasciare il paese. Tuttavia, Putin ha legato oltremisura la rinascita russa al potere economico dell’ “oro blu” con il quale può fare pressione sui bisogni energetici dell’Europa e su quelli ex-repubbliche sovietiche passate sotto l’ala protettiva della Nato. Questa strategia non è ovviamente sufficiente per sperare di arginare la bellicosità americana, la Russia dovrà puntare ad un migliore coordinamento della sua azione antiegemonica con altri paesi (Cina? India?). Purtroppo non contiamo molto su un possibile mutamento di rotta dell’Europa per quanto sia oggi divenuta fortemente auspicabile una partnership (militare, economica, politica) multilaterale con le potenze emergenti che si stanno smarcando da Washington.
Dicevamo che la politica di potenza americana si staglia su più livelli, ed è polivalente a seconda dei contesti nei quali si dispiega. Nell’ambito del soft power americano possiamo far rientrare sia la penetrazione culturale atta a fornire modelli d’imitazione con i quali instillare l’american way of life in ambienti sociali a tradizione arcaica (si pensi agli studenti iraniani grandi consumatori di stili occidentali), sia la pressione esercitata sulle classi dirigenti di paesi economicamente dipendenti, le quali sono costrette a cedere ai ricatti del governo Usa e a quelli degli organismi monetari da questi controllati, sia, ancora, la minaccia di sanzioni dirette allorché non vi è una conformazione di tali Stati agli obiettivi perseguiti dalle teste d’uovo statunitensi a livello globale.
Un discorso a parte meritano invece i paesi organici al modello occidentale ricalcante quella che La Grassa definisce la società dei funzionari(privati) del capitale nata negli Usa ed estesasi all’Europa, come modello guida, subito dopo il disfacimento dell’egemonia inglese. Anche nei confronti di tali paesi gli Usa utilizzano una forma di soft power in senso lato. In questo caso però la supremazia americana si esprime sotto forma di regole alla concorrenza e al mercato (ovviamente volte a non intaccare gli interessi delle imprese americane) con pressioni esercitate sui contesti economici autoctoni per indirizzarli verso produzioni aggregate a quelle USA. Le imprese statunitensi debbono in ogni caso fungere da snodo centrale per l’ “indotto” deterritorializzato dei paesi alleati. Si tratta, logicamente, di un fatto tendenziale che non deve essere assolutizzato, ma basta guardare al comportamento delle imprese italiane per trarne le dovute conseguenze. Questa egemonia esercitata dal paese centrale sulla finanza e sull’industria europea appare vieppiù lampante durante i periodi di crisi, con gli organismi internazionali di governo dell’economia che scaricano sulle popolazioni del vecchio continente il deficit commerciale e i gli eccessivi consumi degli Usa (si parla di 700-800 mld all’anno di crediti concessi agli Usa da parte del mondo intero, Geopolitica del Caos op.cit.). Indicativo è quello che accade in questi giorni con la crisi dei mutui subprime e dei prodotti derivati. Mentre
la Federal Riserve fa calare i tassi d’interesse per dare maggiore liquidità alle proprie banche, la BCE ammortizza la crisi altrui optando per la stretta sull’euro. Così la speculazione da parte americana può continuare mentre l’economia europea è costretta stringere costantemente la cinghia, mettendo una pezza a danni per i quali non è del tutto responsabile. Rebus sic stantibus, l’Europa, data la forte dipendenza dagli USA, è costantemente in tensione poiché una debacle dei circuiti economico-finanziari d’oltreatlantico può causare un terremoto di proporzioni ben più vaste sulle sue strutture commerciali, creditizie, imprenditoriali, ecc. ecc.
Infine, essendo il ruolo dell’Europa legato a doppio filo a quello degli Usa ogni qual volta questa s’imbarca in operazioni militari contro presunti rogue states, noi europei siamo costretti ad andare al seguito con i nostri eserciti, mettendo a loro disposizione postazioni logistiche e basi militari dislocate sul nostro territorio. Come spiegare, ad esempio, ad un paese bombardato con aerei che partono da una base americana in Italia che il nostro paese non c’entra con tale o talaltra guerra? Indubbiamente, a tutto questo c’è una via d’uscita sebbene i tempi di percorrenza della stessa possano apparire lunghi e di difficile concretizzazione. L’Europa dovrebbe finalmente puntare ad una maggiore autonomia politica ed economica coordinandosi con le potenze che hanno già lanciato segnali d’insofferenza verso lo strapotere USA. Non si tratta certo di scatenare il caos geopolitico (come dice Jean) ma di prepararsi all’entrata in un inevitabile fase di policentrismo. Sarebbe un male se dal tumulto geopolitico il mondo venisse fuori più equilibrato e meno succube dai voleri di una sola potenza? Riprendendo il discorso sull’hard power dobbiamo dire che sicuramente la data dell’ 11 settembre 2001 costituisce uno spartiacque indiscutibile per i destini del mondo intero. Sono tra quelli che non crede assolutamente al complotto interno tuttavia è indubitabile che a partire da questo evento gli americani abbiano potuto dare una brusca accelerazione alla loro strategia per un New American Century. La guerra al terrore islamico, avviata con pretesti di ogni genere, prelude al tentativo degli Usa di imporre la propria pax in ogni angolo del globo. Senza l’ 11 settembre il processo sarebbe stato molto più lungo e tortuoso, anche perchè l’opera di convincimento dell’opinione pubblica interna ed internazionale avrebbe incontrato maggiori difficoltà, prontamente superate con la messa sul piatto della storia di 5mila vittime, quelle delle Twin Towers. Ma l’uso della forza militare, per la risoluzione delle controversie internazionali, è solo una delle tante opzioni, e nemmeno la migliore, previste dalla strategia egemonica americana. Non bisogna infatti dimenticare che le guerre costano e, soprattutto, possono generare movimenti di contestazione laddove le menzogne imperiali non reggono al flusso contro-informativo (così, prima, durante e dopo ogni conflitto, viene attivato un surplus ideologico pro-egemonista da parte dei mezzi d’informazione sempre più asserviti) che ormai avvolge il pianeta.
Possiamo affermare che i perni principali attorno ai quali ruota l’attuale strategia americana sono la guerra ideologica e militare al terrorismo (con operazioni volte a colpire chirurgicamente i gruppi che sfuggono al controllo dei loro paesi o che ottengono dai loro governi una tacita copertura), l’attacco preventivo (nei confronti di paesi e governi irriducibili ai diktat americani in quanto ricadenti in altre sfere
d’influenza o a metà strada tra più sfere) e il multilateralismo à la carte (cioè la collaborazione per “contingenza” e solo con la certezza che la guida USA non sarà messa in discussione da alcun partner).
Come giustamente sostiene Carlo Jean “Tale programma è già espresso chiaramente nella National Security Strategy del 2002. Esso non riguarda solo la guerra al terrore, che rappresenta solo un obiettivo di breve termine [… ] Gli Usa impiegheranno tutti gli strumenti a loro disponibili – forza militare inclusa nei casi limite – per diffondere la libertà e la democrazia (come forme di copertura della propria prepotenza, ndr) [… ] Ciò costituisce una minaccia non solo per gli “Stati canaglia”, ma per tutti gli Stati “conservatori”, da quelli arabi a quelli dell’Eurasia”.
Date le circostanze descritte si comprendono le preoccupazioni crescenti della Russia e del suo governo. Quest’ultimo si trova a fronteggiare gli americani sia sul fronte interno (contro uno stuolo di organizzazioni sedicenti no profit, Ong varie ecc. ecc. che tentano di sottrarre credibilità alle sue istituzioni tacciandole di antidemocraticità) che su quello del confronto a distanza, soprattutto in termini di nuova corsa agli armamenti. Queste ragioni hanno spinto Putin a rivedere gli accordi bilaterali di non proliferazione, dando un seguito agli atti dell’Amministrazione americana la quale già nel dicembre 2001 si era slegata dal Trattato sui missili (Treaty on the Limitation of Anti-Ballistic Missiles, Abm), in vigore dal 1972, che obbligava russi e americani a rinunciare alla costruzione di sistemi di difesa contro i missili balistici.
A causa di queste provocazioni reiterate, alle quali si è aggiunta la sfida dello scudo spaziale, la Duma, ha infine approvato all’unanimità la sospensione del trattato sulla limitazione delle armi convenzionali in Europa (Cfe).
Per concludere vorrei dire solo due parole sull’altro gigante asiatico, il mastodonte cinese, rimandando ad altri lavori una trattazione più precisa. La Cina ha scelto di non scontrarsi apertamente con gli Usa, probabilmente perché ha ancora molti ritardi da sanare. La strategia cinese si mantiene, per il momento, su basi più economiche (anche se si stanno intensificando gli accordi militari con Russia e India) e non manca di sorprendere per la sua penetrazione in zone del mondo come l’Africa, dove gli occidentali fanno fatica a addentrarsi per motivi storici (colonialismo) o perché frenati dai regimi dittatoriali autoctoni.
La Cina sembra non essere troppo preoccupata per la democrazia e per il rispetto dei diritti umani e non chiede patenti di moralità prima di concludere i suoi accordi commerciali. Qualcuno potrà pure rabbrividire di fronte a ciò ma le strade della “potenza” non sono lastricate di buoni sentimenti. L’impero di mezzo, sotto il profilo geostrategico, resta ancora una potenza regionale, benché la sua economia si sia pienamente mondializzata, ma le sue aspirazioni globali si vanno evidenziando anno dopo anno (vedere sul sito www.ripensaremarx.it l’articolo “La politica africana della Cina). Quanto ci vorrà ancora? Bella domanda, trattandosi di cinesi sarà meglio sedersi e aspettare lungo la riva del fiume…
Pubblicato dalla rivista “Comunismo e Comunità” Gennaio 2008 N. 0
www.comunitarismo.it