IL CAMPIONE DEL MARKETING di F. D’Attanasio
Riporto stralci dell’intervista (ripresa da comedonchisciotte.org) che il linguista Noam Chomsky, in occasione della sua breve permanenza a Parigi su invito di Le Monde Diplomatique e del Collège de France, ha rilasciato a Al-ahram Weekly sulla situazione attuale nel Medioriente e sulla politica americana nei confronti di Israele, la Palestina e la regione intera. Il noto linguista americano, grande fustigatore, da sempre, della politica che il suo paese proietta al di là dei propri confini per scopi puramente di egemonia e supremazia, getta uno squarcio di luce “sull’effettivo cambiamento” apportato alla stessa dal presidente democratico Obama.
Tutto ciò è rivolto in maniera particolare agli ottusi di “sinistra”, i quali avendo mandato oramai il proprio cervello all’ammasso, avendo un bisogno quasi vitale di credere che esista ancora qualcosa di positivo nella propria parte politica (e che vedono di buon occhio l’attuale amministrazione americana), non hanno la minima voglia e capacità di scavare oltre la spessa coltre delle apparenze di cui Obama rappresenta un esempio lampante di abile costruttore.
Davvero significativo il fatto, come sottolinea Chomsky nell’intervista, che Obama sia stato premiato, con merito, dall’industria pubblicitaria per la miglior campagna di marketing del 2008.
Altrettanto gustosa è la notizia (che apprendo da altre fonti) secondo la quale, di fronte al disastro nel golfo del Messico, il presidente abbia rilanciato, come da par suo, con convinzione e senza alcuna titubanza, la necessità dello sviluppo delle energie rinnovabili. Ma non è stato lo stesso che poco tempo fa, smentendo ciò che aveva sostenuto precedentemente, diceva che gli USA non si potevano permettere di abbandonare la via del nucleare per la produzione dell’energia? Comunque siatene certi, quella delle energie rinnovabili sarà uno dei prossimi cavalli di battaglia del grande presidente, e di tutti i coglioni di “sinistra” che per questo lo osanneranno.
Eccovi di seguito, dunque, alcune domande e le relative risposte del professore del M.I.T.
Nel suo discorso di Giugno al Cairo, il presidente Obama ha detto che avrebbe fatto cambiare l’atteggiamento della politica americana nei confronti del Medioriente e del mondo musulmano. Lei vede qualche segno di queste parole?
Ci sono sottili differenze. Ma prima di tutto ci sono differenze tra le due presidenze Bush. La prima era estremamente arrogante, caustica e aggressiva. Gli Stati Uniti sono andati alle Nazioni Unite dicendo apertamente “o fate quel che diciamo noi o non contate nulla”. E questo ha creato molta avversione, anche tra gli alleati. Alla gente non piace sentirsi insultare in faccia. Questo portò a un forte criticismo e il prestigio degli Stati Uniti decadde a uno dei livelli più bassi nei sondaggi internazionali e si contavano anche parecchie proteste interne, perfino dell’establishment, perché stava intaccando gli interessi statunitensi. Il secondo mandato Bush è stato più accomodante, è rientrato nella norma e ha goduto dell’appoggio centrista. Obama sta seguendo quella linea, è una continuazione del secondo mandato di Bush. La retorica è più moderata e ha un atteggiamento più amichevole, ma le politiche sono cambiate poco. Prendiamo il discorso del Cairo. Il fatto essenziale è che il suo discorso aveva ben pochi contenuti: ha detto solo qualcosa come “amiamoci a vicenda”. Ma nel percorso verso il Cairo aveva dato una conferenza stampa e un giornalista gli aveva chiesto: “Lei dirà qualcosa sul regime autoritario di Mubarak in Egitto?” E lui aveva risposto con queste parole: “Non mi piace attaccare etichette alla gente. Lui è bravo e sta facendo cose buone, per questo lo considero un amico”. Ora, non è necessario che io le dica qual è la situazione dei diritti umani in Egitto, ma se la gente nel Medioriente fosse stata attenta, si sarebbe accorta che nulla sarebbe cambiato. Lo stesso si può dire sulla sua politica nei confronti di Israele. Le sue politiche sono anche più dure di quelle dei mandati dei due Bush. Proprio in questo momento, c'è per esempio, una controversia sull’espansione delle colonie. È molto simile a quella che scoppiò 20 anni fa sotto la presidenza Bush primo, con James Baker come segretario di stato. Ogni volta che Baker veniva a Gerusalemme il primo ministro israeliano Yitzhak Shamir ne approfittava per annunciare una nuova colonia ed era come un insulto per Baker – che era persona di buone maniere e non amava essere insultato da Israele – di fatto Bush penalizzò leggermente Israele. Impose piccole sanzioni sotto forma di restrizioni sulle garanzie dei crediti che dovevano coprire le spese delle colonie, ma furono sufficienti per far cambiare velocemente la politica a Israele. Bene, è precisamente quello che sta accadendo oggi, con una differenza. Obama ha detto che non imporrà alcuna sanzione e che le sue proteste sono puramente simboliche – lo ha detto il suo portavoce in risposta a una domanda. A parte questo, tutte le chiacchiere sugli insediamenti sono solo una nota, il problema sono gli insediamenti, non la loro espansione. La posizione di Obama ha ricalcato quella di George W. Bush e segue le indicazioni della Road Map, cioè che l’espansione deve fermarsi, anche quella dovuta a una crescita naturale. Lui lo ha reiterato ma in modo da far capire che comunque vadano lui non interverrà, e lo stesso vale per altre questioni.In occasione della nomina di George Mitchell, Obama ha fatto un discorso sul Medioriente. In pratica ha detto che “ci sono buone speranza per la pace e un piano costruttivo sul tavolo” e poi rivolgendosi ai paesi arabi ha detto che dovrebbero dar seguito alle loro promesse e quindi normalizzare le relazioni con Israele. Lui sa perfettamente che la proposta non era quella. Essa in realtà consisteva nello stabilire l’accordo di due stati e in quel contesto muoversi verso la normalizzazione; così lui ha scientemente ignorato il contenuto della proposta e si è concentrato sul corollario, che è un modo come un altro per dire noi non cambieremo la nostra posizione e non ci uniremo al resto del mondo nel richiedere l’accordo dei due stati e così è da sempre.
Al tempo delle elezioni, la gente aveva speranza nel nuovo presidente americano, soprattutto dopo 8 anni di George Bush. Nel suo nuovo libro lei descrive Obama come un foglio in bianco su cui la gente può scrivere quel che vuole. Che considerazione ha di Obama?
In realtà ne ho scritto prima delle elezioni, perfino prima delle primarie e non cambierei una parola di quel che ho detto. Se diamo un’occhiata al suo programma, ci troviamo davanti il classico centrista democratico con retorica piacevole e un buon venditore. In realtà come forse lei sa, lui ha avuto un premio dall’industria pubblicitaria per la miglior campagna di marketing del 2008, e se lo è meritato. È colto, intelligente, sa costruire una frase con senso, è affabile e si comporta come se gli piacesse la gente. Ma in cosa consisteva il cambiamento di cui parlava? In niente. Un foglio in bianco, ecco cosa era: ognuno può scriverci quel che più gli piace. Non ha mai detto in cosa consisteva il cambiamento o la speranza. “Ci sarà un cambiamento”, tutto qui. In
verità McCain recitava gli stessi slogan, il perché è ovvio. Le elezioni negli Stati Uniti sono essenzialmente gestite dall’industria pubblicitaria, e i dirigenti dei partiti leggono i sondaggi e da questi sanno che l’80% della popolazione pensava che il paese stava percorrendo una strada sbagliata. Di riflesso la campagna è stata all’insegna de “la speranza e il cambiamento”, e questo è Obama. E lui ha fatto tutto molto bene, ha infuso nelle persone energie ed emozioni, ma di fatto se lui è stato eletto è grazie al supporto delle istituzioni finanziarie. Hanno preferito lui a McCain, l’hanno finanziato e questo ha portato alla sua elezione. Contava sull’appoggio popolare ma soprattutto su quello della finanza che si aspettava di essere ripagata – così funziona la politica – ed è stata ripagata. Ci sono stati notevoli riscatti di banche e le grandi banche ora sono più ricche e potenti di prima, ma quando finalmente lui ha inziato a parlare di “banchieri ingordi” e cose del genere, loro gli hanno subito risposto “sei uscito dalla linea” e hanno spostato i finanziamenti verso i repubblicani. Ora la maggior parte delle sovvenzioni da parte delle istituzioni finanziarie va ai repubblicani che sono ancora più a favore del big business dello stesso Obama. Ma è questa la natura della politica statunitense.
Durante la presidenza Bush abbiamo visto che gli Stati Uniti ricorrono alla tortura in Iraq, alle extraordinary rendition e all’uso della forza in affari internazionali, mettendo al margine l’ONU nonostante le proteste internazionali. Gli Stati Uniti cercheranno di restaurare la propria immagine visti i deludenti risultati ottenuti finora da Obama?
Oltre questo non si è fatto quasi nulla e in realtà, sotto alcuni aspetti, è peggio di Bush. È un punto che discuto in dettaglio nel mio libro. C'è stato un caso alla Corte Suprema nel quale questa ha deciso che i prigionieri di Guantanamo avevano diritto all’habeas corpus, l’amministrazione Bush l’ha accettato ma ha ribattuto che esso non era valido nel caso di Bagram. La cosa è andata a finire in tribunale e un giudice di prima istanza nominato da Bush, un giudice di destra di un tribunale di prima istanza ha invece ritenuto che era valido anche per Bagram. Il dipartimento di Giustizia di Obama sta cercando di ribaltare questa sentenza e di non farla applicare a Bagram. In questo senso, Obama sta andando oltre Bush. Se fossi un avvocato dell’amministrazione Bush, farei notare che le accuse contro Bush sulla tortura non reggono nel quadro legale statunitense. Quasi tutto quello che Bush ha autorizzato rientra nell’ambito della legge americana. Gli Stati Uniti non hanno firmato la Convenzione Contro la Tortura o l’ha firmata ma con riserve. È stata riscritta molto attentamente per escludere i metodi di tortura sviluppati e inseriti dalla CIA nei loro manuali. La si indica come “tortura che non lascia tracce”, tortura psicologica e tortura mentale. La CIA le ha riprese dai manuali del KGB ed è risultato che il modo più efficace per rendere un individuo come un vegetale è la tortura psicologica, il confinamento solitario, l’umiliazione e cose del genere. Abu Ghraib e Guantanamo sono la messa in pratica di questi manuali. Meglio la “tortura psicologica” che gli elettrodi nei genitali. Così possono obiettare che hanno operato proprio entro i margini della legge americana. In effetti probabilmente l’unica differenza tra l’amministrazione Bush e quelle precedenti è che nel caso di Bush la tortura veniva operata da americani. Di solito gli Stati Uniti la commissionano ad altri: ai sudvietnamiti, ai guatemaltechi o agli egiziani. Ecco cos’è la extraordinary rendition. La si invia ad altri paesi che porteranno a termine la tortura. Ma in questo caso è stata realizzata proprio a Guantanamo. In realtà, l’unica rivelazione interessante nelle relazioni sulla tortura e che non è stata riportata ampiamente, è che gli interrogatori hanno testimoniato di aver ricevuto forti pressioni da parte di Cheney e Rumsfeld per ottenere informazioni che legassero Saddam Hussein a Al-Qaeda. E queste informazioni non c’erano perché non erano vere. Ma non riuscendo a ottenere queste informazioni, allora sono stati istruiti di usare misure più pesanti, insomma la maggior parte delle torture scaturiva da un tentativo di Cheney e Rumsfeld di ottenere una sorta di giustificazione che la loro posizione nell’invasione dell’Iraq era dovuta ai legami con Al-Qaeda, e questa era un’affermazione ridicola. Apparentemente la maggioranza delle torture nascono da questo fattore.