IL CAPITALE FINANZIARIO ITALIANO: TRA SOCIALISMO FINANZIARIO E FASCISMO


Il Fascismo interpretato come “Una tara di origine” ha indotto storici ed economisti, in particolare “ Pietro Grifone” nel suo “Il Capitale Finanziario in Italia,” a considerare il Capitalismo italiano come tara organica dello sviluppo insufficiente, ed il Fascismo, come un elemento sempre presente nella società italiana: un processo storico e non un accidente della storia. Conseguenza, l’intento di Grifone è stato quello di descrivere lo sviluppo del Capitale Finanziario come elemento di coesione della borghesia Italiana durante il periodo fascista. Questa tesi del 1940, scritta per i confinati antifascisti di Ventotene, è successiva al “Capitale Finanziario” di Hilferding del 1910; quest’ultimo, lo collocava in un mercato finanziario esteso e socializzato e controllato da un “pool di imprese,” nel miraggio ideologico di un “Socialismo Finanziario.” Un apparentamento teorico con Lenin che, in controtendenza , definisce il Capitale Finanziario soltanto come aspetto della concentrazione monopolistica nei suoi prolungamenti conflittuali tra aree geografiche delle Politiche Imperialiste, dove per Finanziario si intendeva industriale e bancario in reciproca influenza.
Già in Marx, troviamo nel concetto del Credito, non solo la forma generale con cui si può disporre della proprietà e del capitale altrui, ma anche “l’immenso meccanismo sociale destinato a centralizzare i capitali”, come “un sistema di virtuale esproprio… si hanno pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura… gruppi di pochi che sfruttano la ricchezza sociale” e dominano sia la società per azioni che il sistema creditizio. Lo Hilferding identifica lo sviluppo del sistema capitalistico nella fase matura e marciscente del Capitalismo Finanziario nell’assoggettamento di tutti gli aspetti della vita economica ad una cerchia ristretta di Banche che controllano a loro volta tutto il sistema industriale, come del resto avvenne nella Repubblica di Weimar, e che fece auspicare e sollecitare al marxista tedesco, la creazione di strumenti tali da consentire al movimento socialista al governo il controllo del sistema Bancario e Finanziario e attraverso questi, di tutto il sistema economico; gli esiti di questa proposta, sono noti nell’avvento del regime Nazista. L’equivoco creatosi nello strumento del controllo Finanziario come controllo dello sviluppo capitalistico, fu duro a morire per il perdurare, da parte marxista, delle scorciatoie deterministiche della “Socializzazione Finanziaria” dei partiti comunisti del Novecento, fino al periodo picìista degli anni Sessanta con l’ideologia della “Programmazione Democratica; dalla fine degli anni Settanta in poi, l’abbandono graduale del “Controllo Democratico” del “rigore berlingueriano” e subito dopo “mani pulite”, si arrivò all’idea truffaldina degli eredi picìisti, maturata nei comitati d’affari, per tagliarsi una fetta di mercato finanziario gestito da banche proprie; si consumò così la fine della “Grande Illusione” picìista, coltivata nei periodi meno sospetti delle grandi battaglie e delle conquiste sociali dei ceti popolari. Rimaneva “in nuce” l’equivoco di fondo del Capitalismo Finanziario come forma “autocratica di sviluppo” della concentrazione e centralizzazione dei capitali in coincidenza allo sviluppo della struttura monopolistica; il pendolo della storia circa la prevalenza dell’aspetto finanziario del capitale su quello industriale, mette in ombra l’aspetto essenziale dello sviluppo economico della componente produttiva-industriale. L’equivoco storico sopravvissuto alla tradizione, nelle pratiche delle politiche picìiste, fu la gestione del Capitalismo di Stato attraverso l’ “Elemento Finanziario” dove, il controllo di quest’ultimo rappresentò, dapprima, il governo dell’economia del paese nella ”Programmazione Democratica,” e negli ultimi 20 anni la miserabile ossessione del Controllo delle Banche: dalla “classe operaia che si fa Stato,” al “Comitato d’Affari della sinistra al governo delle Banche”.
In un parallelo storico ed in concomitanza al “Socialismo Finanziario” auspicato dalla socialdemocrazia tedesca nel controllo diretto delle Banche prima dell’avvento del Nazismo, si è definito il Fascismo come “Dittatura del Capitale Finanziario” da parte dei partiti comunisti degli anni Trenta, all’incirca nello stesso periodo dell’unico testo scritto in Italia da Grifone (1940) sul Capitale finanziario; una chiave di lettura sintomatica dello sviluppo insufficiente del capitalismo come causa, ed il sorgere del Fascismo, sempre presente nella società italiana, come conseguenza.
Davvero sorprendenti le interpretazioni indicate, in una sincrasia di giudizi sulle possibilità degli sbocchi storici: se non si realizzava il controllo del Capitale Finanziario da parte della classe operaia, lo stesso finiva sotto il tallone del Nazismo o del Fascismo. Il libro di Grifone che trovò alimento ed ispirazione da questo “humus” politico-culturale, può aprirsi a due chiavi interpretative: una prima versione, quella ufficiale, nello sbocco naturale del fascismo, in quanto conseguenza principale dell’insufficienza dello sviluppo economico del capitalismo italiano; una seconda, legata alla prima, in una sorta di afasia storica, ci dà un quadro diverso circa la descrizione degli intenti delle classi politiche ed economiche del Ventennio Fascista. Per quest’ultima, la lettura degli avvenimenti messi in filigrana, ci descrive in modo grossolano, due periodi storici del “Ventennio:” il primo, dall’avvento del fascismo fino alla crisi internazionale del ’29 ed il secondo fino all’anno ’40, all’inizio della seconda guerra mondiale.
L’avvento del fascismo è caratterizzato dalla costruzione di un apparato statale forte rafforzando tutti gli organi dell’esecutivo e della burocrazia, svuotando i pieni poteri delle assemblee legislative con una energica compressione di ogni manifestazione di dissenso. Tale fase di accentramento burocratico, veniva accompagnata da una politica economica liberista, con sgravi fiscali nell’abolizione di tutte le imposte introdotte durante la prima guerra mondiale, abolizione delle tasse di successione, della nomitività dei titoli…, con effetti favorevoli del credito a buon mercato ed una ripresa dell’economia in seguito ad una liberalizzazione dell’impresa sempre maggiore accompagnata a sua volta dall’aumento di imposte indirette sul commercio, un aumento dei salari ed, in corrispondenza, una crescita della domanda dei consumi seguita da aumenti della produzione e delle esportazioni (triennio 1922-25). Al produttivismo dell’Olivetti si accompagnano concentrazioni dell’Elettrico, Minerario, Chimico, Siderurgico, Cantieri Navali…. con forte aumento delle esportazioni. La corsa al rialzo dei titoli azionari, dovuta ai rapidi progressi della produzione industriale, favorì un boom speculativo sulla lira ed un conseguente brusco capovolgimento di indirizzo programmatico del decreto governativo di De Stefani (Ministro dell’Economia) che inibì nel marzo del 1925, tutte le contrattazioni azionarie di borsa (a breve termine) abbandonando la tendenza liberista verso un deciso intervento dello Stato nell’economia. Gli interessi colpiti dalla politica filoliberista di De Stefani furono quelli degli agrari e degli zuccherieri che ebbero facile gioco nel farlo sostituire con il nuovo ministro Volpi, anche per l’alleanza che si era creata con gli esponenti del capitale finanziario. Infatti, il primo atto di Volpi fu la reintroduzione del dazio sul grano che sanzionò concretamente l’inizio della “battaglia del grano, destinata a divenire un cardine fondamentale della politica agraria del regime. Battaglia politica ispirata ad interessi di carattere generale, comuni cioè a tutta la classe dominante (autonomia alimentare)…” Il crak finanziario speculativo di marzo(1925) fece rifluire i capitali negli investimenti delle obbligazioni pubbliche ed il ministro dell’Economia Volpi dichiarò: “Il Governo è oggi il banchiere in cui il paese più crede.”
Con una Borsa in declino per la riduzione degli investimenti privati, le uniche fonti finanziarie degli industriali sono il Capitale dello Stato (Prestiti Obbligazionari) ed i Capitali stranieri. Ma per garantirsi queste fonti finanziarie si impone una stabilizzazione monetaria, perché i capitali stranieri riprendano ad investire in Italia. Il primo passo fu la “sistemazione dei debiti di guerra (prima guerra mondiale) con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che sono i principali fornitori di capitali.” Questo fu il motivo per cui Volpi si recò in America e nel novembre del 1925 firmò l’accordo con gli Usa per la sistemazione dei debiti di guerra, nello stesso periodo, la Banca d’Affari Privata Usa “Morgan” concede un prestito consistente al Governo Fascista (1925) di circa 60 milioni di dollari seguito dai prestiti in valuta straniera concessi da banche estere (con garanzia Usa), richiesti sui mercati internazionali dai complessi industriali italiani più importanti (Edison, Sip, Fiat) a seguito di una contrazione della produzione dovuta ad una diminuzione della domanda dei beni di consumi. Nel gennaio del 1926 si sistemano i debiti di guerra con l’Inghilterra e sulla piazza di Londra vengono collocati prestiti per l’industria italiana. Malgrado ciò la situazione generale dell’economia italiana nei primi mesi del 1926, tende a peggiorare; sorgono difficoltà nelle esportazioni e nelle importazioni; maggiori onerosità dei pagamenti in oro e tensioni sui cambi. La speculazione estera
sulla lira diventa sempre più forte, la bilancia dei pagamenti con l’estero, sempre attiva diventa passiva; rifluiscono i titoli in prestiti italiani collocati sui mercati internazionali. Il Ministero del Tesoro italiano fece fronte (bruciando) parte del prestito ricevuto dalla Morgan e accentrando gli istituti di emissione sotto il controllo diretto della Banca d’Italia; si tentò una stabilizzazione monetaria attraverso una “deflazione” ed un consolidamento del debito pubblico per ridare fiducia alla lira. Al declino delle esportazioni alla fine degli anni Venti fece seguito un grande processo di concentrazione industriale e finanziario, prologo alla Grande Crisi economica-finanziaria internazionale culminata nel crollo di Wall-Street. Il Fascismo andò all’appuntamento della crisi internazionale, serrando le fila ai fini di una difesa del mercato interno e degli sbocchi internazionali, attraverso “L’intervento dello Stato come supremo regolatore dell’attività economica nazionale….Il protagonista, la trasformazione dell’economia in economia monopolistica di Stato è il capitale finanziario.”
Il crack borsistico di New York si riflesse immediatamente sull’Europa in particolare in Germania e Austria e fu così dirompente da far chiudere nel 1931 tutte le banche tedesche. Un crollo così grave da far intervenire il governo Usa (Hoover) nel concedere una moratoria dei debiti alla Germania e per questa via tentare un risanamento dell’ Europa. L’epicentro della crisi si sposta dall’Europa Centrale all’Inghilterra, la cui bilancia dei pagamenti subisce un grave deficit dovuto all’insolvenza dei paesi Sudamericani. Il 21 settembre 1931, la sterlina viene disancorata dall’oro con la conseguente rottura dell’equilibrio monetario internazionale, costituitosi nell’intero decennio precedente. L’effetto più importante sull’economia italiana fu dovuto al crollo della sterlina ed al conseguente rapido ritiro dei crediti a breve termine concesso dalle banche estere (Usa e inglesi) nei confronti delle banche italiane, generando una grave crisi di liquidità dell’economia italiana. Ai primi di novembre dello stesso anno si realizzò un grande piano di salvataggio nei confronti delle più grandi banche italiane, a causa degli ingenti immobilizzi finanziari creatisi, e si cominciò a tracciare le linee di sviluppo economico del capitalismo italiano durante la crisi, dando inizio all’edificio protezionista statale con provvedimenti d’urgenza che durarono per tutto il 1932. Da qui partirono i provvedimenti principali della concentrazione industriale e finanziaria conclusi con la creazione dell’Iri nel 1933, avviando un programma autarchico dell’ economia attraverso il controllo delle industrie-chiavi che diventarono inevitabilmente industrie di guerra. Tale intervento trova una completa legalizzazione nelle corporazioni, cioè la possibilità di controllare per il tramite dello Stato il complesso delle attività produttive (private) al fine di dirigerle “nel senso più confacente agli interessi della nazione.”
Qualche riflessione si impone: anzitutto il ferreo controllo finanziario Usa sull’Europa nei tentativi continui di scaricare le sue crisi economiche, ebbe come unico effetto quello dell’avvio di politiche protezionistiche a difesa delle strutture industriali che si trasformarono in industrie belliche, laddove il Capitalismo Usa (ed Inglese) aveva allungato i suoi tentacoli finanziari impedendo ogni sviluppo industriale. Il Fascismo suggellò, nell’economia del Capitalismo Monopolistico di Stato, lo sviluppo dell’industria civile seguita poi, nella fase autarchia, dalla sua trasformazione in una economia di guerra, che rafforzò la bardatura economica della centralizzazione finanziaria, atta a tenere unite le classi dirigenti che gestivano le risorse del paese.
G.D. 06/07/07