IL CAPITALISMO CINESE VISTO DA RONALD COASE E NING WANG
Sul Sole 24 ore (del 23.09.2012) è apparsa la recensione di un libro scritto da Ronald Coase (1) e Ning Wang: How China Became Capitalist uscito recentemente nel Regno Unito. Alla bella età di 101 anni (è nato nel dicembre 1910) Coase, premio Nobel nel 1991 e autore dei due celeberrimi saggi su Il problema del costo sociale (1960) e La natura dell’impresa (1937) si è cimentato , assieme ad un collega che insegna negli Usa, in una importante ricostruzione dell’ascesa economica del paese che ha più caratterizzato l’ultima fase della crescita (e sviluppo) globale. Tutto ebbe inizio, come è noto, il 9 settembre 1976 con la morte di Mao Zedong a cui seguì l’ascesa dell’erede designato Hua Guofeng che divenne presidente del Partito Comunista Cinese e della Commissione militare centrale. Il 21 ottobre, la “banda dei quattro” fu arrestata con l’accusa di stare orchestrando un colpo di Stato e Hua dichiarò conclusa l’esperienza della “prima” Rivoluzione Culturale. Nel 1977, l’XI Congresso del Partito Comunista Cinese lo riconfermò al potere e l’Assemblea Nazionale del Popolo lo elesse primo ministro effettivo. Nello stesso anno, Hua richiamò l’antico rivale Deng Xiaoping. A partire dal 1978 Deng riuscì ad imporre la sua linea politico-economica e la sua fazione prese, gradualmente, il controllo del paese. Nel 1980, Hua fu rimpiazzato come premier da Zhao Ziyang e nel 1981, anno in cui Deng ottenne la completa vittoria, lasciò la presidenza del Partito a Hu Yaobang. Il primo importante provvedimento di Deng si rivolse verso l’istituzione che aveva rappresentato il pilastro della Rivoluzione Culturale: nel 1979 fu deciso lo smantellamento definitivo delle “Comuni Popolari”, introducendo il sistema della responsabilità individuale nella produzione (baogan daohu), e favorendo lo sviluppo della proprietà collettiva e individuale allo scopo di sprigionare nuove energie produttive. Per il settore industriale l’attenzione venne concentrata sull’autonomia delle imprese che riguardava non solo la gestione della pianificazione, ma anche quella delle forniture dei materiali e delle attrezzature, della vendita delle produzioni e di tutte le altre operazioni. Venne applicata la suddivisione e la specializzazione del lavoro per abbattere le barriere amministrative e stabilire collegamenti più stretti fra imprese locali, statali e collettive. Modifiche importanti furono introdotte anche nel sistema bancario e in quello fiscale: alla “Banca del Popolo” (Zhongguo renmin yinhang) erano stati attribuiti i poteri propri della banca centrale; le attività di credito ordinario, già esercitate dalla citata banca, erano state trasferite a un’altra di apposita creazione: la “Banca cinese per l’industria e il commercio” (Zhongguo gongshan yinhang) . Per quanto riguarda il fisco nel 1983, venne introdotto il sistema ligaishui, che letteralmente significa “cambiare il profitto in tassa”. Questo sistema prevedeva che le imprese invece di versare interamente i loro ricavi allo Stato sotto forma di profitti e imposte, ne potessero trattenere una parte. L’azienda pagava un’imposta progressiva sul profitto realizzato e, della parte rimanente, una fetta andava alle casse dello Stato, in quanto proprietario dell’impresa, e il resto andava a costituire i fondi propri dell’azienda gestiti in autonomia. Le imprese di piccole dimensioni invece dovevano versare otto aliquote progressive. Ma per permettere un vero e proprio “decollo” dello sviluppo economico, Deng aveva la piena convinzione che fosse necessario introdurre veri e propri “elementi di capitalismo” all’interno della formazione sociale cinese. La sua idea era quella di favorire l’applicazione delle tecnologie avanzate dai Paesi economicamente più industrializzati, e l’introduzione di “piccole” forme di capitalismo per aiutare il progresso economico della Cina . La sua attenzione era concentrata sulle zone economiche speciali, dove venivano concessi incentivi agli investimenti stranieri e la gestione delle imprese era, in sostanza, capitalista. Deng aveva promosso l’istituzione di queste zone, situate in posizioni strategiche, cioè ai confini con Taiwan, Macao e Hong Kong. Di queste, Shenzhen, al confine con Hong Kong, era la più importante. Quando il 26 gennaio 1984 Deng vi si era recato, aveva visto la Cina che egli sognava: moderna, industriosa, efficente e volta verso il commercio estero. Egli era convinto che le zone economiche speciali costituissero per la Cina modelli da imitare . Bisognava puntare sull’esportazione, ma per farlo era necessario migliorare la qualità dei prodotti cinesi per renderli competitivi sul mercato estero. In questo grande progetto l’iniziativa privata (getihu) aveva un’importanza cruciale e quindi andava incentivata. A questo scopo Deng aveva lanciato il motto propagandistico dell’“arricchirsi non è un male” per promuovere l’iniziativa imprenditoriale privata. Termino qui questa piccola digressione su alcune delle scelte politiche ed economiche portate avanti nei primi anni del denghismo per ritornare alla recensione scritta da Alberto Mingardi sul libro di Coase e Wang. Mingardi scrive che
<<l’immensa estensione territoriale della Cina la rende naturalmente impervia a esperimenti di ingegneria sociale>>
e che lo stesso Mao, nelle sue riflessioni teoriche sembrava consapevole della difficoltà di
<<immaginare un socialismo realizzabile in un Paese tanto vasto, diverso, e naturalmente decentrato>>.
Coase e Wang rileggono
<<gli spostamenti dalle campagne alle città, il relativo grado di autonomia riconosciuto alle imprese pubbliche, la de-collettivizzazione del settore primario, lo sviluppo delle zone economiche speciali, […] come passaggi chiave nel progressivo affrancamento dell’economia dallo Stato>>.
Gli autori del libro, secondo Mingardi, vedono in Deng Xiaoping una tempra di autentico “liberale” (?) fautore di un socialismo come «sistema aperto», che doveva «costruire sui successi di tutte le culture, incluse quelle dei Paesi capitalisti sviluppati». Insomma, per il recensore, il
Deng di Coase è un leader disponibile a consentire nuovi esperimenti istituzionali, non solo e non tanto per il pragmatico desiderio che «il gatto acchiappi il topo», ma per una genuina antipatia verso il rifiuto dell’inaspettato così tipico delle economie pianificate>>.
L’introduzione del capitalismo in Cina sarebbe, comunque, avvenuto attraverso una serie di
«rivoluzioni marginali che reintrodussero nell’economia l’impresa privata, […]la residua dedizione al socialismo delle autorità cinesi all’inizio delle riforme operò a loro vantaggio. La fedeltà al socialismo fu la causa di una strategia di riforme che ne conservò il nucleo essenziale (le imprese di proprietà statale) permettendo al contempo lo sviluppo di rivoluzioni marginali in Cina». (Coase e Wang)
Mingardi confronta, poi, questo tipo di processo con le privatizzazioni avvenute in altri Paesi a pianificazione centralizzata (nell’Est Europa, per esempio). Questi, con alterno successo, hanno riportato pezzi di imprenditoria presidiati dal pubblico, nel non-Stato. Ma ciò è avvenuto prima che avesse avuto modo di riformarsi un settore privato in grado di avere un ruolo non residuale.
Al contrario, in Cina, le scelte consapevoli del partito – in un contesto che continuava e continua a definirsi “socialista” – hanno posto le condizioni per permettere il progressivo radicamento di un settore privato autonomo e indipendente dal potere politico. Scrive ancora Mingardi che anche
<<la migliore delle privatizzazioni implica un certo grado di costruttivismo: disegnando le regole per cui una certa azienda pubblica viene restituita al mercato, si influenza la struttura proprietaria che essa andrà ad assumere. Non è così nel caso di uno spontaneo e progressivo emergere dal basso di forze imprenditoriali vive. È in questo che risiede il successo del capitalismo cinese: non è stata una “transizione”, è stata una “mutazione”>>.
Naturalmente l’articolo deve per forza concludersi trattando delle tematiche poste dalla persistenza di un sistema politico “autoritario” in Cina e delle conseguenze negative in riferimento ad un ulteriore sviluppo economico e socioculturale. In modo apparentemente conciliante Coase e Wang elogiano, però, quanto è stato fatto in Cina e sembrano, implicitamente, mostrare fiducia su una evoluzione graduale verso forme politiche e culturali “democratiche”:
«Eliminando il monopolio occidentale sul capitalismo, la Cina contribuisce a globalizzare il capitalismo stesso e rafforza l’ordine globale di mercato ampliando il milieu culturale del capitalismo stesso e aumentandone la diversità culturale. Un ordinamento liberale globale risulterà decisamente più resistente e sostenibile se il capitalismo crescerà anche oltre i confini occidentali e fiorirà nei più diversi contesti culturali e sistemi politici».
Il dibattito sulle varie forme di capitalismo nella formazione sociale globale ci pare ancora ai suoi inizi ma ci sembra che la strada giusta sia quella di intrecciare l’analisi storica con la riflessione teorica perché in una tematica come questa nessuno dei due approcci preso isolatamente può veramente produrre dei risultati soddisfacenti.
(1)Ronald Harry Coase (Willesden, 29 dicembre 1910) è un economista inglese, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1991, «per la scoperta e la spiegazione dell’importanza che i costi di transazione e i diritti di proprietà hanno nella struttura istituzionale e nel funzionamento dell’economia».Nel 1937 Coase scrive un saggio destinato a una lunga fortuna e a far nascere l’approccio neo-istituzionalista alla teoria dell’impresa, cui ha contributo anche Oliver E. Williamson.
Mauro T. 23.09.2012