IL CAPITALISMO MANAGERIALE USA
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La Seconda Rivoluzione industriale in Usa, successiva al 1870, creò un certo dualismo industriale: un area di Prima Rivoluzione Industriale di più antica formazione, con lavorazioni semplici, ed un’area di Seconda (Rivoluzione Industriale) con forte impulso innovativo (metallurgia, meccanica, chimica…), in piena espansione e con un drastico cambiamento della fabbrica come componente soltanto di una grande impresa integrata (“Strategy and Structure”), onde superare “l’egoismo proprietario”, così come andò elaborando Alfred D. Chandeler Jr. in “Dimensione e Diversificazione”. Una linea di ricerca che l’autore intese sviluppare, con analisi empiriche, rivolte ad un approfondimento sulla formazione di un Capitalismo manageriale Usa, differente dagli altri capitalismi europei (in particolare, quello “Personale” inglese e “ Manageriale Cooperativo” tedesco); un’indagine comparata riguardante sopratutto le struttura organizzativa delle imprese capitalistiche più grandi (manageriali), in un arco di tempo che comprese i primi Cinquant’anni del secolo scorso.
Una tesi, in linea con il mondo accademico occidentale europeo che puntava a confermare un piano d’indagine “in superficie” e che, attraverso una sedimentazione ideologica (effettuata indistintamente, dal liberismo al marxismo) lungo l’intero secolo del Novecento, avvalorò l’esistenza di un Capitalismo Unico; così da privilegiare il versante economicistico per entrambi gli economisti americani ed europei; un nascondimento ideologico di un dominio Usa sull’Europa, iniziato dalla Prima Guerra Mondiale e, portato a termine, come paese (più) vincitore della Seconda: una reale predominanza del Capitalismo Manageriale, nei confronti del vecchio Capitalismo Borghese europeo Ottocentesco, realizzata senza prigionieri e senza onore (delle armi) per l’insieme dei paesi alleati e vinti, compartecipi, comunque, di una stessa area capitalistica occidentale; un predominio Usa, raggiunto per gradi, sulla base di una strategia geopolitica, per arrivare ad un controllo totale e assoluto sull’Europa, con una provvidenziale implosione del mondo sovietico, segnata simbolicamente dalla “ caduta del muro di Berlino” del 1988: la fine di un mondo bipolare e l’avvio con esso di una fase ventennale di un dominio Usa “monocentrico,” e che, a tutt’oggi, si apre, a nuovi scenari internazionali, con un decisivo avvio ad una nuova fase multipluralistica.
I prodromi della formazione del Capitalismo manageriale Usa si possono far risalire (simbolicamente) alla fine della “Guerra di Secessione” (1865), allorché prevalse il Capitalismo Industriale degli stati unionisti del nord nei confronti degli stati secessionisti del Sud, la cui economia agricola era perfettamente integrata alla madre patria inglese. Il Capitalismo Manageriale si andò consolidando, dal 1870 in poi, con una formazione economica sociale del tutto particolare: uno sviluppo capitalistico irrobustito da motivazioni politiche-ideali inscritte, nella Carta Costituzionale dell’Indipendenza, del 1776, nei valori fondanti sulla eguaglianza naturale tra gli individui, sui diritti inalienabili alla vita, alla libertà, alla felicità, fino alla proprietà propugnata dai padri pellegrini, e proclamati dai giusnaturalisti illuministi; e che trovò la sua massima attuazione politica in una prassi ‘in fieri’ di uno Stato Azionista compartecipe di una organizzazione aziendale-sociale; una politica come espressione, non solo evocativa, di una reale forza espansiva dello Stato Usa che, nella forma del Capitalismo manageriale, fu in grado di diffondersi maggiormente, ed in profondità, nei confronti degli altri capitalismi borghesi europei, con una caratteristica genetica singolare che ha presieduto la sua formazione: quella di avere ricoperto le prime colonie inglesi (Nuova Inghilterra, Massachusets, Rhode Island,.. di “società (anonime) di capitali” in un numero così elevato, che non ebbe una equivalente diffusione societaria in altri paesi del mondo; ed anche un’occasione storica unica, che una costituenda formazione sociale abbia potuto radicarsi con inusitata potenza e di inserirsi e sostituirsi, in consunzione degli altri capitalismi storicamente formatisi, in tempi storici relativamente brevi, saltando tutte le stratificazioni sociali conosciute nel mondo occidentale europeo (da quelle feudali a quelle capitalistiche borghesi); e con un’indubbia vigoria capitalistica, quello di entrare direttamente in
ogni anfratto di vita civile, e permeare ogni “midollo” sociale, in una difesa ad oltranza della cosiddetta libertà economica di ciascun individuo.
Chandler, nel testo sopra indicato, fu un convinto sostenitore di un’idea di grande impresa (oligopolistica) formatasi in conseguenza all’espansione dei mercati su nuove aree geografiche; una ricerca sul campo di strategie tese a proteggere lo sviluppo dell’azienda, la cui posizione di forza dipese, in primo luogo “dai potenti vantaggi competitivi generati dagli investimenti nella produzione, nel marketing e nel management, per poter utilizzare completamente le potenti economie di scala e di diversificazione; e in secondo luogo dalle capacità organizzative – le strutture e le competenze- che le imprese affinano cercando di conquistare e di conservare quote e profitti nei mercati dei nuovi beni e di nuove aree geografiche….Va ribadito ancora una volta che lo sviluppo trae origine dalle capacità organizzative create con il triplice investimento e affinate attraverso la continua competizione strategica e funzionale con gli altri first movers(2) e le aziende rivali…… L’affinamento delle capacità gestionali dei manager intermedi e dell’alta dirigenza avvenuto durante gli anni della competizione e della crescita, genera due importanti conseguenze. In primo luogo intensifica ulteriormente la separazione tra proprietà e direzione dell’impresa. Secondariamente contribuisce a rendere i settori industriali americani , così produttivi da poter reggere qualsiasi confronto a livello mondiale”.
Mi sono permesso questa lunga citazione per mettere in evidenza come l’idea di (grande) impresa competitiva fosse legata ad una organizzazione manageriale che implicò, a sua volta, una necessaria separazione tra proprietà e manager. Le stesse ramificazione delle imprese multinazionali Usa, frutto di questa prima interpretazione, poi espresse nelle loro forme organizzative multidivisionali e/o multifunzionali, rappresentarono complesse intersezioni e ramificazioni aziendali, disposte temporalmente e spazialmente, secondo logiche militari, al servizio di una strategia geopolitica Usa
Nella storia dei capitalismi, il sorgere dell’impresa proprietaria borghese intesa come combinazione tra persone e beni, fu il veicolo organizzativo di collegamento (più) lineare del rapporto di dominio, del dominante nei confronti del dominato; un proprietario unico o più proprietari nella cui figura imprenditoriale si potessero comprendere in modo inscindibile le due caratteristiche fondamentali del capitalismo borghese: la proprietà e la direzione; la seconda rivoluzione industriale, della seconda metà dell’Ottocento, rappresentò una linea di demarcazione al superamento storico delle grandi imprese borghesi, raffigurate sempre da tutti gli economisti e mai corrispondenti alla realtà, come limite al proprio sviluppo nella forme più marcescenti del monopolio.
E’ indubbio che concorse in questo, come processo immanente allo sviluppo capitalistico, la cosiddetta “Centralizzazione dei Capitali” (di Marx) e con essa la necessità di una raccolta sempre maggiore di capitali per far fronte alla concorrenza; e su quest’ultimo aspetto si produsse un’ineluttabile superamento storico della proprietà individuale borghese, con la geniale invenzione della società per azioni (corporation): la possibilità di effettuare una raccolta imponente di capitali, frazionando la proprietà del capitale sociale in una miriade di azionisti infinitesimamente proprietari: un controllo proprietario dell’impresa, nella forma della società per azioni; si diventava proprietari, possedendo una piccola frazione di capitale azionario, relativamente grande, rispetto all’insieme frammentato della proprietà diffusa.
Nello sviluppo capitalistico, il conflitto in/tra imprese diventava meno competitivo, se il proprietario, ‘imprenditore di se stesso’, non si convincesse di abdicare, sempre più, il comando (unico) dell’impresa, ad un proprio dirigente stipendiato, che divenne, nel prosieguo del tempo, un dirigente sempre meno dipendente dal proprietario ed in grado perciò di incarnarsi in un manager: una funzione sostanziale che presiedesse al controllo reale dei processi produttivi, una scissione definitiva tra proprietà e dirigenza e di stratificarsi, a sua volta, in livelli manageriali sempre più intermedi.
L’impresa manageriale si prospettò subito, come il ricettore più sensibile al complesso strategico capitalistico (delle frazioni dominanti), ed in grado di far vibrare maggiormente tutto il corpo sociale, nell’insieme dei processi capitalistici: una ambivalenza tra funzioni statali e imprenditoriali, e che richiamò molto l’idea dello “Stato moderno” di Max Weber, quando dichiarò (nel suo articolo “Scienza come professione”) che lo Stato dal punto di vista organizzativo ” è un impresa al pari di una fabbrica.” Tale identità sta alla base di ogni fondamento economico tra lavora separato dai mezzi di produzione dell’impresa, o dall’interno dell’organizzazione amministrativa dello Stato: l’operaio, l’impiegato, insieme al funzionario statale dipendono entrambi dal potere di disposizione dell’imprenditore insieme al detentore del potere politico; La separazione dei mezzi di produzione del lavoratore nell’impresa privata viene associata alla caratteristica comune della separazione dei mezzi materiali dell’impresa statale moderna orientata però, verso “scopi di potenza e di politica culturale e verso scopi militari, e all’economia capitalistica privata.” Lo “stato maggiore amministrativo” opera secondo una gestione autonoma della propria amministrazione, anche se in piena dipendenza al potere politico, similmente ad un consiglio di amministrazione di una società per azioni, che viene nominato dall’assemblea dei soci deve rispondere soltanto a quest’ultimo; l’obbedienza al detentore del potere politico viene osservata non in virtù di una legalità in astratto, ma in ragione di un dominio sociale; un po’ come venne a configurarsi ed affermarsi, in pieno Novecento: una ricomposizione tra le due funzioni, quella amministrativa statale e l’altra proprietaria capitalistica, in un politico-manager, che va oltre il mero manager aziendalista, un vero e proprio “funzionario capitalistico”, capace di recepire ed inserirsi in modo efficace, per guidare l’insieme dei conflitti del complesso strategico.
Una sintesi ottenuta da una ‘relazione generatrice’, che mantiene, pur nel mutare dei singoli contenuti, due situazioni separate: da un lato, la politica (Usa) e dall’altro, lo “svolgersi dell’azione” dell’impresa manageriale, in discontinuità storica, saltando il sistema di organizzazione dello Stato borghese ( una tipicità soltanto europea), così come venne a delinearsi, nella formazione economico sociale Usa del Capitalismo Manageriale; una unità (politica) tra funzioni distinte, volte essenzialmente all’occultamento ideologico della riproduzione capitalistica di un predominio Usa, reso visibile dalla complessa rete divisionale-multifunzionale dell’impresa manageriale, nel suo aspetto economico-finanziario: un nascondimento, non solo ideologico, di un occultamento del predominio geopolitico Usa sull’intera area Occidentale.
G.D. dicembre ‘09
(1)Chandeler avviò un campo di ricerca di storia comparata, nei primi Cinquant’anni del secolo scorso, cercando di spiegare le ragioni dell’affermarsi, negli Usa e nel mondo, dell’impresa “multi divisionale” e delle “funzioni direttive” (capacità manageriali) delle più grandi imprese industriali.
( 2) i first movers sono le prime imprese ad entrare in un nuovo mercato di un prodotto innovativo, ed assumere un certo “vantaggio competitivo” rispetto alle altre.