IL CARNEVALE AMERICANO di Francesco Mazzuoli

La grande carnevalata delle elezioni americane è finita.

Vediamo di fare qualche analisi leggermente al di sopra dello stupidario che si è letto ovunque, dai media ufficiali all’ultima catacomba di internet.

L’aborto per alcuni è una conquista, ma la madre degli imbecilli non vi ricorre mai a sufficienza.

In quest’articolo, ragionerò soprattutto di propaganda, spiegando come funzioni l’inganno dei vetrini colorati (sostituiti oggi da tanti schermi diversi che dicono la stessa cosa, da tante illusorie opzioni di scelta), ammanniti al selvaggio moderno, che, purtroppo, si ritiene civilizzato.

Nella parte di globo cosiddetto “occidentale” –si noti bene come con l’onnicomprensivo termine occidentale non si faccia a bella posta differenza tra America e d Europa – ci è stata propinata una copertura giornalistica delle elezioni d’oltreoceano che non ha precedenti, considerate “l’evento” per antonomasia, da cui dipenderebbero le sorti del pianeta.

L’importanza assoluta conferita alla vicenda, seguita per mesi e mesi, è data per scontata e nessuno ha riflettuto per un solo attimo che tale rilievo mostra in modo marchiano la sudditanza europea e che l’Europa non sia altro che un agglomerato di colonie americane.

Il fondo, more solito, si è toccato nel nostro Paese, dove abbiamo assistito ad una ostentazione di servilismo che credo non abbia eguali al mondo: il programma di Bruno Vespa, in prima serata, si è aperto con l’inno americano suonato in studio da una banda militare in grande spolvero, mentre scorrevano, con effetto mitizzante, le immagini del nuovo imperatore e del suo primo discorso. L’ ex uomo – fino a qualche ora prima considerato un palazzinaro arricchito con il vizio delle puttane (con in più il torto di aver detto l’unica verità dell’intera campagna: che anche le puttane hanno il vizio dei palazzinari)- si è trasformato immediatamente in un semidio; persino il tanto vituperato ciuffo di capelli è stato riabilitato da vile toupet a miracolosa ricrescita.

È seguita una gara di atti di genuflessione e immediate dichiarazioni di lealtà da parte di politici e rappresentanti del governo “italiano” presenti in studio.

Mi piacerebbe che i miei compatrioti capissero la tragica portata di questa sottomissione, indegna dell’ultima repubblica delle banane, e chi è che comanda davvero. Ma non mi illudo.

La sedicente “informazione” si è schierata univocamente per Hillary Clinton. È stata una mobilitazione scatenata, totale. Questo dispiegamento a senso unico ha rivelato con limpidezza un altro fenomeno macroscopico: non esiste informazione, ma soltanto propaganda.

Non si commetta, però, l’errore di pensare che la propaganda riguardi semplicemente la cosiddetta “informazione”: è, bensì, un sistema integrato e ubiquitario, che, anzi, colpisce la vittima soprattutto nell’intrattenimento, quando è più indifesa.

C’è una verità che sfugge: nel sistema mediatico, ci sono soltanto propaganda e rumore. Ma anche il rumore è propaganda.

Prova di quanto affermo è che i sondaggi, come nel caso del referendum sul Brexit, sono stati ancora una volta manipolati. Non è un caso che se ne faccia questo uso così massiccio: generalmente, le elezioni si vincono convincendo gli indecisi. Gli indecisi votano secondo la maggiornaza, quindi, mostrare in vantaggio il politico o l’opzione che il sistema vuole favorire è un modo per inluenzare il risultato finale nella direzione voluta.

Chi blatera di “sondaggi che sbagliano”, non capisce nulla, o, alle solite, è in malafede e non può denunciare l’ennesimo inganno dell’elettore.

Eppure, nonostante questo battage pubblicitario senza precedenti, la Clinton ha perso.

La strategia di marketing clintoniana – perché un presidente si vende come qualunque altro prodotto o idea – ha puntato sul primo presidente donna, unico punto di forza della campagna.

E per dare più risalto, per contrasto, a questa caratteristica, lo sfidante Trump è stato raffigurato come “sessista”.

Dall’altra parte, siccome il punto più debole della Clinton era la percepita vicinanza a Wall Street, gli strateghi di Trump hanno rafforzato l’immagine di uomo anti- establishment, di uomo solo contro tutti (il mito dell’eroe solitario tanto caro al western americano).

Dal punto di vista della capacità comunicativa, non c’era gara. Trump, uomo d’affari e di televisione, istrione e grande venditore di sè stesso e di sogni, può ricordare a noi italiani Silvio Berlusconi – che non a caso echeggiava nelle sue convention la spettacolarizzazione politica americana.

Inoltre, per l’elettore d’oltreoceano, Trump non è semplicemente un modo per contestare l’establishment: egli incarna il sempiterno sogno a stelle e strisce dell’uomo che si è fatto da sè e si è arricchito a dismisura.

Le immagini diffuse degli arrivi con il suo aereo personale, l’etichettarlo come “miliardario”, non hanno sortito l’effetto di allontanarlo dalla gente, ma, al contrario e in linea con lo slogan “Make USA great again”, hanno provocato identificazione e proiezione: l’uomo comune, attraverso di lui, ha pensato di poter tornare a vivere e a realizzare il sogno americano.

Non solo, ma ha vinto perché uomo, perché il potere è storicamente un attributo maschile e un gruppo o un popolo in difficoltà non si affida ad una donna per risollevare le proprie sorti. La donna al potere – come Ida Magli ha spiegato a più riprese – desacralizza e depotenzia il potere stesso.

Ha vinto anche perché ha infranto il politicamente corretto e attaccato una donna, ristabilendo, almeno per un attimo, il predominio dell’uomo e quindi il vecchio ordine costituito, quello degli anni della prosperità, cioè un elemento di ordine nella disgregazione e caos scatenati dalle politiche liberistiche da cui l’uomo della classe media si sente schiacciato e devastato.

Trump ha vinto perché è parso tornare indietro, ristabilire dei punti di riferimento.

La contesa elettorale ha mostrato le sue caratteristiche di spettacolo e ha raggiunto il suo culmine nel faccia a faccia televisivo tra i due candidati.

Lo scambio di contumelie, l’esibizione di improperi, hanno ricordato un incontro di catch, altrettanto volgare e fasullo, con attori mascherati.

La dicotomia, l’opposizione sono stati patentemente esagerati perché è un modello incistato nella mente americana, in cui lo scontro e la lotta sono sempre presenti e la divisione manichea tra buono e cattivo irrinunciabile parte del copione, riproposto fino alla nausea dalla propaganda filmica holliwoodiana.

Nella foto in apertura, ho scelto il momento più significativo delle elezioni americane: Trump può mostrare indifferentemente sè stesso o la maschera gomma, perché non vi è alcuna differenza.

La verità è che non è stato uno scontro tra un supposto difensore della classe media – la cui rabbia è stata strumentalizzata così come il colore della pelle quando si è proposto un ex ragazzo immagine nero – e una rappresentante della finanza predona. Quella è soltanto la messinscena: si tratta di uno scontro interno all’élite imperiale.

È stata, soprattutto, l’ennesima recita dell’illusione democratica: due attori che si sfidano nel ruolo di candidati, mentre i veri poteri manovrano sotto copertura e chi decide davvero non mostrerà mai il suo volto al pubblico.

Fa sorridere, quando non è malafede, l’ingenuità di coloro che vedono in Trump il nuovo Salvatore – ma si sa, questo schema cristiano è operante sottotraccia in modo automatico.

Non ci possono essere outsider, nè uomini soli al comando di un impero, e la politica americana non può certo cambiare per la volontà di una singola persona, per potente che sia. Tuttavia, è essenziale farlo credere per continuare a captare la fiducia della gente verso un sistema, che se smascherato fino in fondo, mostrerebbe tutto il proprio intollerabile orrore: l’assoluta mancanza di controllo dei governati sul proprio destino.

Il cinico utilizzo dei bisogni e della sofferenza degli esseri umani può avvenire solo grazie a questa fiducia. Scriveva Antoine de Rivarol, nel ‘700:

“Ci sono due verità che non bisogna mai separare, in questo mondo: la prima è che la sovranità risiede nel popolo; la seconda che il popolo non deve mai esercitarla.”

Nel delirio di stupidaggini della prima ora – i commenti di politici, politicanti, giornalisti e lacché variamente assortititi – l’unico lucido è stato Gennady Zyuganov, leader del Partito Comunista russo: «Non mi aspetto cambiamenti nella politica americana» ha detto, «la strategia degli Usa non cambia mai: espansionismo e affermazione degli interessi nazionali. Ciò che è successo dimostra la crisi profonda della classe dirigente occidentale e della sua profonda scissione sociale».

Spentosi i riflettori sul palco dello show, che cosa resta?

L’impressione di triste squallore, di irrimediabile degrado che lascia questo

circo ributtante.

L’amarezza di vedere la credulità collettiva, l’idiozia imperante, la quantità di teste non pensanti, che sproloquiano di palingenesi del mondo sulla base di fasulle e contraddittorie promesse elettorali.

Dopo questo deprimente spettacolo, resta, in ultimo, una domanda: è questo il “faro della civiltà” cui dobbiamo rimanere assoggettati?

Se la risposta è affermativa, la nostra fine non è soltanto certa, ma soprattutto meritata.