IL CROUPIER NON C’E’ PIU’… OGNUNO FACCIA IL SUO GIOCO di Andrea Fais
Oramai si gioca a carte scoperte. Anche qualche organo della macro-informazione ha cominciato finalmente a fare il nome pesantissimo, che sta dietro ai più imponenti mutamenti geopolitici di mezzo mondo (anzi, di tre quarti del mondo) da oltre trent’anni, e che sta apertamente proteggendo il figliol prodigo della disinformazione sistematizzata e funzionale (parallela alla geopolitica del caos di Washington), Assange.
L’attacco concentrico contro Berlusconi risponde in realtà ad un ben più grande schema di aggressione contro l’Eni, contro l’Enel e contro Finmeccanica, originato proprio da quelle stanze occidentali del potere che il PDL, per sua impostazione storica e culturale, considera fidi alleati atlantici. È per questo che il teatrino deve andare avanti, fingendo scenari “destra-sinistra” o “Berlusconi VS Comunisti”, che non esistono assolutamente, se non nelle ultime residuali dosi di propaganda simil-reaganiana del Presidente del Consiglio.
È una novella che piace agli scudieri come Emilio Fede o come Sandro Bondi, e che fa sbrodolare migliaia di “piccoli anticomunisti” cresciuti all’ombra di Arcore, tra una battuta di Ezio Greggio e un cine-panettone: ma è un racconto di pura fantasia. Ed è effettivamente comico notare come il passato nel KGB di Vladimir Putin, la mai sopita indole sovietica del leader bielorusso Aleksandr Lukashenko, il vecchio ruolo di Segretario del Partito Comunista della RSS del Kazakistan di Nursultan Nazarbayev, l’appartenenza al Partito Comunista Cinese del Primo Ministro Wen Jiabao, la fiera provenienza dal Partito Comunista della Repubblica Socialista del Vietnam del Primo Ministro Nguyen Tan Dung o il Libretto Verde del vecchio rivoluzionario socialista panarabista Gheddafi, vengano magicamente fatti sparire dalle cronache televisive, allorquando la mano di Silvio Berlusconi stringe appassionatamente le mani di tutti questi importanti leader politici mondiali.
D'altronde si sa … la parola “comunisti” in Italia evoca (ahi noi) ben altri episodi e ben altri volti, e dunque tutto fa brodo nella pia opera di traduzione della realtà, dalla complessità della trama internazionale alla semplificazione della mediocrità e della bassezza culturale cui la più recente televisione (ivi comprese molte trasmissioni delle reti di Berlusconi) ci ha ridotto. Nessuno aveva bisogno di sintonizzarsi con l’inopportuno salotto televisivo di tale Signorini per sapere che D’Alema, Fassino e Veltroni fossero “comunisti al cachemire”, specie perché “comunisti veri” non lo sono mai stati in tutta la vita. Dalla dirigenza di quel PCI, infatti, erano già germogliate tutte le peggiori piante rampicanti dell’intellettualismo insulso, del tradimento pro-Nato, del consociativismo istituzionale e del clientelismo politico, fino all’ignominiosa campagna ulivista in favore di un semi-ignoto emissario della Goldman-Sachs, tirato fuori dalle viscere di un ambiente finanziario oscuro e misterioso che di “socialista” non aveva nemmeno la parvenza.
A distanza di diciotto anni dall’assalto all’economia pubblica o partecipata italiana e dell’assalto allo SME, il nome che fa tremare l’Italia è ancora una volta quello di George Soros, speculatore, magnate, filantropo (se lo dice da sé, ovviamente), un personaggio che, con le sue fondazioni liberal e “progressiste” sparpagliate nel mondo, sta devastando da decenni la stabilità e la sovranità nazionale di numerosi Paesi europei ed asiatici. La Società Aperta, cui il rampante apologeta popperiano si ispira, è in realtà un putrido acquitrino di giochetti finanziari astrusi e incomprensibili (leggasi i regolamenti dei derivati, che lo stesso ex Ministro Siniscalco disse di non essere riuscito a capire in anni di studi e analisi), di magnifiche e progressive “libertà individuali” (ma non collettive) e di oceaniche masse ammaliate da centri commerciali e american way of life. Un premio stuzzicante per individui deboli e immaturi, privi di una coscienza sociale e di una capacità critica forte e solida, pronti, perciò, a vendere la sovranità nazionale e la potenzialità industriale dei propri rispettivi Paesi a Washington, in cambio di luccicanti promesse di ricchezza.
Qui in Italia, intere masse, certe della bontà del verbo antiberlusconiano, non si rendono conto del pericolo che il nostro Paese sta correndo, proprio in una delle fasi geopoliticamente più delicate. La protesta sociale è spesso artefatta, si nutre di eventi che non hanno rilevanza sociale, evita abilmente di fondarsi su temi centrali dell’economia e sulle gravissime sacche di instabilità e di impoverimento (la difesa bipartisan di Marchionne e del suo ricatto liberista ne è un esempio), e preferisce l’attacco frontale (tra l’altro pure inutile di questi tempi) in relazione a temi formali, pretestuosi, quando non banalmente moralisti.
La politica mondiale si sta lentamente ridisegnando. Il declino lento ma inesorabile della potenza americana sta delineando scenari completamente nuovi che, nel giro di pochissimo tempo, potrebbero sconvolgere le precedenti situazioni internazionali, verso circostanze impensabili e inedite. Nel caos della nostra ridicola politica nazionale, i recenti investimenti delle nostre industrie strategiche hanno aperto un piccolissimo spiraglio di luce, che potrebbe quanto meno consentire all’Italia di transitare all’interno della nuova fase multipolare, con un tessuto produttivo ed energetico di rilevanza, evitando di essere risucchiata in un nuovo vortice di dipendenza. Le rinnovate politiche di cooperazione con Russia, Kazakistan e Libia di ENI, la sacrosanta opera di avviamento al nucleare dell’ENEL, e l’eccellenza industriale di Finmeccanica, possono ancora garantire al nostro Stato un rilevante ruolo strategico, tecnologico ed energetico, capace di resistere strenuamente ad un processo di totale privatizzazione e di liberalizzazione delle strutture, processo che da venti anni sta distruggendo le nostre residuali possibilità di autonomia rispetto al polo egemone dell’imperialismo.
Negli Anni Novanta, il sistema della nostra industria pubblica è stato divorato dalle mandrie dei nuovi manager del capitalismo globale: nel 1991 un’epoca era finita, lo schema bipolare era ormai stato annullato, e gli Stati Uniti ebbero la necessità di una totale rivisitazione dell’ordine mondiale, per cercare di garantirsi l’egemonia planetaria. Oggi, quei disegni egemonici sono evidentemente falliti e nuove (o rinnovate) realtà strategiche nel mondo stanno prendendo coscienza delle loro potenzialità. Avrebbe potuto e dovuto farlo anche l’Europa? Politicamente sì, eppure tecnicamente era assai complicato: il coinvolgimento delle nazioni europee nella Nato e nella Trilateral era troppo forte e gli orientamenti strategici ed economici intrinseci a quelle organizzazioni hanno prevalso nelle linee di costruzione dell’Unione Europea. Oggi, l’opportunità esiste ancora e potrebbe, attraverso la moneta comune, mettere in difficoltà il dollaro, proprio come nel 1971, allorquando Washington fu costretta ad annullare gli accordi di Bretton Woods, reinventandosi altre forme di egemonia all’interno del fronte capitalistico trilaterale (Usa-Europa-Giappone). Nel nostro caso, questa rinnovata opportunità, stavolta può fare leva su Mosca che, recentemente, assieme a Pechino, ha deciso di smarcarsi dal dollaro proprio sull’interscambio commerciale e strategico bilaterale. Se Italia, Germania e Francia riuscissero a consolidare un asse con la Federazione Russa, indubbiamente sarebbe senz’altro più facile sfuggire alla morsa egemonica di un’America ormai disperata e in preda al panico, per la prima volta nella storia recente assolutamente smarrita e senza più le solide certezze di prima, tanto da dover cominciare a silurare anche alleati di vecchia data come Mubarak, Ben Alì e Hussein II. Il vecchio invecchia e non è più affidabile, meglio stare tranquilli, puntando su un rinnovamento generazionale e magari anche ideologico. Con un Mediterraneo sempre in maggioranza orientato verso l’Atlantico ma un po’ più “islamico”, sarà possibile avviare una fase più “plurale” e meno “conservatrice”, che recuperi i Paesi islamici dalle logiche dello “Scontro di Civiltà” imposte nell’era Bush, ma che soprattutto strappi Iran, Pakistan e Turchia alla trama di cooperazione della Cina.
George Soros è stato chiaro nel suo ultimo editoriale sul Washington Post dello scorso 3 Febbraio. Non esiste amicizia con Israele che tenga: gli interessi degli Stati Uniti vengono prima di tutto, anche a costo di mettere a repentaglio (pericolo remoto in ogni caso) la sicurezza interna dello storico partner mediorientale, su cui milioni di “antagonisti” nel mondo continuano a puntare l’attenzione, a sproposito, alimentando la mitologia di USRAEL, un mostro a due teste, in realtà inesistente, che ha portato non di rado a distorcere i parametri d’analisi della situazione mediorientale e internazionale in genere, assegnando – per contrapposizione e in base all’inutile assunto di opposta polarizzazione – ai Paesi Arabi e Islamici un ruolo assolutamente superiore alle loro reali affidabilità politiche e potenzialità militari. Se è stato proprio l’Islam a fornire, anche negli anni della Guerra Fredda, un sicuro sostegno agli Stati Uniti – Patto di Bagdad (e la conseguente alleanza del Patto CENTO del 1959 tra Usa, Gran Bretagna, Iran, Pakistan e Turchia), Guerra del Golfo (appoggio di Kuwait e, indirettamente, Iran), Guerra Sovietico-Afghana (sostegno ai mujaheddin islamici), il ruolo dei Fratelli Islamici nell’opposizione a Nasser proprio nell’Egitto – è evidente che la logica sionismo – antisionismo presenta evidenti limiti nella potenzialità di analisi e lettura della situazione internazionale.
Cosa sta accadendo? Come al solito, l’ideologizzazione e l’idealizzazione della politica internazionale sta conducendo molti sprovveduti a simpatizzare per le rivolte nell’area del Mediterraneo che, invece, confermano ancora una volta la totale estraneità del fattore “culturale” (se non come risvolto di contorno o come parametro di osservazione, ma non come elemento determinante) allo svolgimento degli eventi. Tunisia, Yemen, Algeria, Egitto, Albania e Giordania hanno in comune ben poco sul piano storico ed etnico, eppure tutti questi Paesi stanno esplodendo come polveriere impazzite, dopo anni di totale silenzio politico e di completa accondiscendenza occidentale nei confronti delle rispettive leadership. I rapporti e gli interessi in queste regioni di Russia e Cina fanno paura più di qualunque estremismo politico o fondamentalismo, e tutto torna utile per rimescolare le carte in tavola, anche i Fratelli Musulmani. Gravissima e pericolosa è anche l’immaturità mostrata da Tehran ed Ankara che, malgrado analoghe vicissitudini recenti vissute dalle due rispettive leadership (golpe e rivolte colorate, orchestrati ad orologeria, ma, per fortuna, immediatamente repressi e bloccati), tentano di stare al gioco e di esortare ed indirizzare a proprio favore le proteste, esponendo così l’intera regione ad un pericoloso azzardo, anziché usare il proprio grande ruolo carismatico di Paesi-guida del Medio Oriente, per spiegare alle masse inconsapevoli quali sono i pericoli e i retroscena di certe operazioni.
Se l’atteggiamento turco è comprensibilmente ambiguo (Ankara rimane tutt’ora nella Nato, dunque non ci si illuda troppo su Erdogan e Davutoglu, malgrado le loro eccellenti capacità internazionali), quello di Tehran non ha spiegazioni, e dimostra che la Repubblica Islamica è ancora molto lontana da quella ponderazione e da quella capacità diplomatica che si addicono ad una seria potenza (seppur regionale), preferendo l’urlo dalla terrazza, lo schiamazzo populista e lo slogan demagogico in pieno stile sudamericano. Ci vorrà ancora del tempo, e tutto sta nell’avanzamento della sfera di complessità di questi Stati potenzialmente forti, ma ancora incapaci di misurare, capire e gestire la propria condizione di potenza. Per le masse occidentali che inneggiano alla presunta rivoluzione popolare dalla poltrona di casa, con la propria copia di Repubblica in mano, invece, non c’è più alcun appello. Si può solo sperare in un forte ritorno dell’Europa al settore primario e alla fatica delle braccia.