IL DENARO IN MARX di G. La Grassa
Continua il discorso teorico di Gianfranco
Come avevo detto in occasione della presentazione di quel saggio, la novità sulla quale si sta lavorando è quella di un necessario “spostamento” di paradigma interpretativo, con il quale dare avvio ad una analisi innovativa delle formazioni sociali capitalistiche.
L’obiettivo è di quelli ambiziosi ma ugualmente ineludibile se si vuole restituire all’indagine critica sul modo di funzionamento delle odierne società, un più performativo habitus scientifico, alla stessa stregua di quanto fatto da Marx con le sue ipotesi teoriche, in un’altra fase storica.
Il saggio che vi proponiamo oggi sul sito (Il denaro in Marx) si colloca proprio in questa prospettiva (l’affermazione di un nuovo “passaggio teorico”) ed è un ulteriore tentativo per chiarificare, in primo luogo a noi stessi, lo spessore di tale decalage, restituendo alla teoria marxiana i suoi reali meriti; legittimandone, al contempo, il superamento a partire da tutto ciò che essa non ha saputo o potuto cogliere (in quanto teoria legata ad un’epoca storica determinata), circa le trasformazioni avvenute nella formazione sociale capitalistica globale, così come rilevate da
La sostituzione e l’implementazione di un modello interpretativo con un altro che si ritiene più adeguato, avviene pur sempre prendendo come punto di partenza le categorie marxiane che restano un trampolino imprescindibile per l’elaborazione di una teoria anticapitalistica più funzionale alla fase storica.
Marx ha creduto, prendendo come punto di riferimento il capitalismo di matrice inglese del suo tempo, che la funzione predominante, nell’ambito di tale sistema, fosse quella proprietaria. Insieme a questa funzione l’imprenditore svolgeva (almeno fino ad un dato momento della sua storia), anche il compito di organizzare la produzione, contribuendo “direttamente” alla creazione di quello che poi estorceva, agli operai salariati (pluslavoro nella forma di plusvalore). Qui si colloca la prima confusione, perché Marx aveva ipotizzato che, con lo sviluppo del modo di produzione in argomento, la funzione proprietaria sarebbe divenuta predominante, fino a trasformarsi in pura attività finanziaria (attraverso i processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali), con l’organizzazione della produzione che sarebbe passata in capo agli specialisti salariati di più alto livello tecnico. I capitalisti, ormai distanti dai processi produttivi, al pari di signori semi-feudali, avrebbero allora operato sottraendo, senza grandi schermature, i profitti alla produzione per alimentare le proprie scorribande borsistiche. Ma per la stessa ragione, all’interno del processo produttivo, gli organizzatori della produzione (ingegneri e tecnici) avrebbero preso coscienza del parassitismo delle classi dominanti, fino a stringersi, in naturale alleanza, con i salariati delle funzioni esecutive più basse. Sarebbe così venuto a consolidamento quel soggetto rivoluzionario (il lavoratore collettivo operativo) che, in virtù dell’acquisito controllo sui mezzi di produzione, avrebbe definitivamente mandato in frantumi i vecchi rapporti di produzione non più corrispondenti all’effettivo dispiegamento delle forze produttive (dando seguito, pertanto, alla inevitabile espropriazione degli espropriatori, ormai ridottisi di numero, con un’azione di forza contro quest’ultimi nemmeno troppo violenta).
Come abbiamo detto altrove, Marx considerava questo processo di ri-appropriazione da parte dei dominati sui dominatori relativamente rapido, se confrontato con quello che aveva portato dalla produzione mercantile semplice al modo di produzione capitalistico pienamente sviluppato.
Oggi che questa impostazione ha invece mostrato la sua incapacità di spiegare i processi dinamici del capitale, dobbiamo inevitabilmente riformulare la nostra ipotesi scientifica, partendo proprio da quella funzione che Marx mise in secondo piano. Infatti, i capitalisti non solo non si sono disinteressati della produzione ma, al contrario, continuano a servirsi di questa per ottenere i mezzi economici indispensabili attraverso i quali dare appropriatezza alle strategie del conflitto per la conquista della supremazia.
Qui lo scenario assume dei contorni differenti e molto meno angusti di quelli precedenti. Di fatti se si dà preminenza all’aspetto puramente proprietario, la sfera economica diviene effettivamente quella determinante in ultima istanza per sceverare le dinamiche del capitale. La concorrenza tra capitalisti che mirano ad aumentare i propri profitti per espungere dal mercato i concorrenti ci tiene costantemente sulla superficie del problema (una superficie sempre più simile ad un miraggio) impedendoci di comprendere, al fondo, la natura del flusso conflittuale che anima tale sistema. Non a caso le leggi della competizione economica vengono ipertroficamente estese ad ogni ambito sociale, al fine di coprire, con questo velo ideologico, le azioni strategiche che sono alla base dell’allargamento e della riproduzione dei principali rapporti sociali capitalistici. Ma è l’agente strategico, quello che agisce a livello della sfera politica, il vero funzionario del capitale, “colui che allarga i suoi orizzonti all’insieme della formazione sociale”. Detto agente non è direttamente implicato nella produzione materiale e tanto meno in quel mondo di superficie (il mercato) dove avviene lo scambio tra equivalenti, per quanto la sua azione debba restare costantemente celata sotto una coltre di “scambi economici egualitari”. Del resto, l’agente strategico non può fare a meno di quest’ultimi dato che le strategie, per essere efficaci, necessitano dell’uso di uomini e mezzi, i quali nel sistema capitalistico (fondato appunto sul mercato e sull’impresa) assumono la forma di merci e del loro corrispondente generale, il denaro.
Il capitalismo, nella concezione lagrassiana non si riduce al conflitto, nella sfera produttiva, tra salariati e oppressori, tra Capitale e Lavoro, secondo la versione en economiste di un certo marxismo d’antan che sta ancora attendendo l’avvento della “Grande Ostetrica” (
Buona lettura.