IL FATTORE CRITICO
Il tracollo dell'Unione Sovietica ha chiuso un'epoca in cui la Guerra Fredda e il ricatto nucleare incrociato hanno garantito la permanenza di una sorta di pace "calda" in Europa e di una condizione globale di bassa belligeranza, (se si prescinde da conflitti "anomali" come quello del Vietnam). Contrariamente a quanto sostenuto da molti "autorevoli" addetti ai lavori come Francis Fukuyama, all'unipolarismo a guida statunitense che è venuto instaurandosi non è corrisposto alcun consolidamento dell'auspicata "pax americana" che avrebbe sancito la "fine della storia" e il trionfo mondiale ed inesorabile della democrazia. Quella che ha avuto luogo è una vera e propria escalation di conflitti scatenati dagli Stati Uniti in giro per il mondo, finalizzati a puntellare il predominio americano sul resto del pianeta. In quasi tutti gli interventi militari in questione l'energia ha ricoperto un ruolo fondamentale, in qualità di principale fattore scatenante. Gli Stati Uniti sono stati infatti i principali produttori di petrolio per un lunghissimo periodo e fino alla metà degli anni Cinquanta hanno coperto almeno la metà della domanda internazionale. Ma dal 1970, anno in cui la loro capacità di estrazione raggiunse il picco, la produzione di petrolio subì un lento ma costante declino. Ciò determinò un proporzionale aumento delle importazioni, causato dall'elevato consumo interno, che a sua volta incise pesantemente sul deficit statunitense in virtù del peso rilevante assunto dal petrolio all'interno della bilancia commerciale. Attualmente gli Stati Uniti consumano quasi il 30% del petrolio prodotto annualmente a livello globale a fronte di una popolazione che corrisponde al 5% di quella mondiale, producono il 30% circa del loro fabbisogno e sono titolari del 2% delle risorse mondiali. Se la produzione interna continuerà a calare a ritmi tanto elevati (più del 15% dal 1990) e i consumi rimarranno gli stessi, gli Stati Uniti esauriranno definitivamente le proprie riserve nell'arco di pochi anni e la loro dipendenza dalle importazioni diverrà totale. Il delinearsi di uno scenario simile rese così indispensabile individuare un valido metodo di stima in grado di fornire dati sufficientemente precisi in relazione alla durata e alla capacità estrattiva delle risorse petrolifere. Il più efficace di questi è un particolare sistema matematico incardinato sul concetto di "curva a campana", ideato dal geologo statunitense King Hubbert. Costui intuì che la produzione petrolifera segue una specifica legge matematica esprimibile all'interno di un grafico mediante una "curva" che dal basso cresce costantemente e sempre più rapidamente fino a un culmine massimo, raggiunto il quale inizia un'altrettanto costante e repentina decrescita verso il basso. In altre parole, la produzione di ogni giacimento cresce costantemente fino a raggiungere un picco che corrisponde allo sfruttamento di metà delle riserve; raggiunto questo picco inizia il declino. Questo metodo consenti ad Hubbert di profetizzare con largo anticipo (1956) e nel generale scetticismo che la produzione petrolifera statunitense sarebbe iniziata a declinare attorno alla fine degli anni Settanta, in virtù del fatto che il picco di produzione era stato raggiunto attorno alla metà degli anni Cinquanta. La validità di tale metodo non è più stata messa in discussione da quel momento in poi, e infatti é facendo ricorso ad esso che la maggior parte degli esperti interpellati in materia ha potuto calcolare che il picco della produzione mondiale di petrolio verrà raggiunto entro il 2020. Altri esperti "in minoranza" tendono invece a collocare il picco più avanti nel tempo, confidando nel poderoso sviluppo delle nuove tecnologie. Queste ultime consentirebbero a loro avviso di accelerare il processo di progressiva sostituzione del petrolio con fonti alternative come il gas naturale e l'atomo, o rinnovabili come l'eolica e la fotovoltaica. Pie illusioni che al momento trovano scarsissimi riscontri nella realtà, anche in virtù del fatto che anche l'estrazione del gas naturale dovrebbe raggiungere il proprio picco in tempi non troppo lontani. L'imminenza dei picchi della produzione di petrolio e di gas naturale ha sortito e continuerà a sortire pesantissime ripercussioni sull'assetto geopolitico globale. L'ingresso massiccio delle forze armate americane in Iraq ha spianato la strada per l'accesso di Exxon Mobil, British Petroleum ed Halliburon agli ingenti giacimenti petroliferi dell'in gran parte inesplorato sottosuolo iracheno. Cosa che, sommata alla partnership privilegiata con l'Arabia Saudita, metterà gli USA di attestarsi su posizioni di forza. La Russia, dal canto suo, ha spezzato la pericolosa e tragica inerzia innescatasi sotto l'egida di Boris El'cin con l'elezione di Vladimir Putin, uomo di ferro che ha spazzato via i parassitari e mafiosi oligarchi e rimesso le aziende che si occupano di energia nelle mani dello stato. Ciò ha posto la Russia nelle condizioni di beneficiare dei recenti vertiginosi rincari del prezzo del greggio ottenendo proventi mediante i quali è stato quasi interamente saldato il debito con i paesi esteri e di utilizzare le proprie ingenti risorse di petrolio (secondo produttore mondiale) e gas (primo produttore mondiale) come un'arma di ricatto verso i paesi consumatori. Il rapporto d'interdipendenza con essi – in specie con quelli europei – è però troppo stretto per poter effettivamente agitare, come hanno fatto noti e ben remunerati commentatori, lo spettro dell'egemonia russa sull' Europa. L'Europa ha tanto bisogno di importare idrocarburi quanto la Russia di esportarne. La linea politica seguita da Putin si colloca inoltre in forte opposizione rispetto a quella promossa a suo tempo da Mikhail Gorbaciov, che aveva sguaiatamente ceduto alle pressioni di Ronald Reagan rinunciando progressivamente alla fondamentale Ucraina, al Caucaso e all'Asia centrale. Ciò ha destato forti preoccupazioni nel pasoliniano "palazzo" di Washington, e spinto i facinorosi strateghi del Pentagono ad escogitare contromisure efficaci. Per comprendere a fondo ciò che accadde in Ucraina alla fine del 2004 è sufficiente prestare attenzione a poche righe scritte nel non lontano 1997 (nel saggio "La grande scacchiera") da Zbigniew Brzezinski al riguardo: "L'Ucraina, nuovo e importante spazio nella scacchiera eurasiatica, è un pilastro geopolitico perché la sua stessa esistenza come paese indipendente consente di trasformare la Russia. Senza l'Ucraina la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. Quest'ultima senza l'Ucraina può ancora battersi per la sua situazione imperiale, ma diverrà un impero sostanzialmente asiatico, probabilmente trascinato in conflitti usuranti con le nazioni dell'Asia centrale che sarebbero sostenute dagli stati islamici loro amici nel sud (…). Ma se Mosca riconquista il controllo dell'Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e grandi risorse naturali, oltreché l'accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente riconquisterà le condizioni che ne fanno un potente stato imperiale esteso fra Asia ed Europa". Ecco spiegate, in poche e sintetiche righe, l'essenza e le motivazioni che determinarono la cosiddetta "rivoluzione arancione" che coronò l'ascesa al potere del filoccidentale Viktor Yushenko. Costui &egr
ave; stato il principale responsabile della commedia degli equivoci legata agli esorbitanti rincari delle royalties sul transito del gas russo destinato ai paesi europei attraverso il territorio ucraino. L'estenuante braccio di ferro tra Yushenko e Putin si è pesantemente ripercosso sull'economia ucraina, decretato il sostanziale fallimento del primo e il corrispettivo trionfo della linea oltranzista adottata dal secondo. La vittoria del filorusso Viktor Yanukovich alle ultime elezioni ucraine ne è una prova inequivocabile. La lezione ucraina si è rivelata propedeutica a quella georgiana, nel condurre la quale Putin ha reagito risolutamente con una massiccia dimostrazione di forza agli assurdi deliri di onnipotenza del presidente Mikheil Saakashvili, salito al potere grazie alla sedicente "rivoluzione delle rose"; un putsch architettato a tavolino con le ben note metodologie suggerite dal manuale Sharp già viste in occasione della "rivoluzione arancione". Una volta regolata la questione georgiana, le attenzioni di Mosca si sono concentrate verso quei paesi strategicamente fondamentali, come Azerbaigian ed Armenia, ai fini del trasporto del gas e del petrolio dalle ricche aree del Caspio fino ai terminali europei. Putin non ha mai nascosto i propri sentimenti filoeuropei (soprattutto in occasione del discorso di Monaco del 2007) e ha coerentemente fatto il possibile per garantire approvigionamenti energetici ai paesi del Vecchio Continente, sobbarcandosi buona parte dei costi legati alla realizzazione dei due gasdotti North Stream – la cui presidenza è stata significativamente offerta all'ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder, che ha accettato – e South Stream – la cui presidenza è stata offerta a Romano Prodi, che ha declinato – finalizzati a sganciare la dipendenza del normale flusso dei rifornimenti dalle endemiche turbolenze ucraine. Ciò ha attirato i paesi europei attorno all'orbita russa, e spinto Pechino, letteralmente affamata di idrocarburi, a mettere da parte gli antichi dissidi per riavvicinarsi a Mosca, in specie mediante l'ambizioso progetto di integrazione continentale meglio noto come Organizzazione per la Cooperazione di Shangai. L'imminenza del picco della produzione di petrolio e gas naturale assegna quindi alla Russia un ruolo primario, e ai paesi dell'Asia centrale, a quelli del Vicino e Medio Oriente e più in generale a tutti i produttori di idrocarburi il ruoli secondari ma assolutamente influenti all'interno del "grande gioco". La lotta per accaparrarsi gli idrocarburi è già iniziata e al momento vede i grandi giganti asiatici, ovvero Cina ed India, tendere la mano alla Russia e acquisire numerose posizioni di vantaggio rispetto ai paesi storicamente legati agli Stati Uniti, come il Giappone e quelli europei, che si ritrovano immersi fino al collo in una crisi economica di cui non si intravede ancora la fine. Le proiezioni più credibili sulla domanda globale di petrolio rivelano che entro il 2020 la domanda mondiale ammonterà a 120 milioni di barili al giorno, con un aumento del 50% nell'arco di un ventennio. Ovviamente si tratta di proiezioni, ovvero di calcoli matematici che applicano i parametri di oggi al domani, ignorando incognite e variabili. Essi non vanno presi per oro colato, poiché la Storia non segue un processo lineare di tappe forzate sempre prevedibili. Ma sono indice di un realtà che prima o poi si materializzerà inesorabilmente. Il che significa che assai difficilmente ci sarà posto per tutti, e quindi che la crescente domanda dei paesi in via di sviluppo e di quelli in fase di industrializzazione farà probabilmente dell'energia il principale fattore di scontro all'interno del confronto geopolitico nei prossimi anni a venire.