IL FINANZCAPITALISMO NON ESISTE

depositphotos_51926707-Bull-and-Bear

Il caos è la cifra geopolitica della nostra epoca storica. Si tratta, ovviamente, di una definizione ancora approssimativa ma diversamente non si può dire in quanto risulta piuttosto arduo concettualizzare, in una architettura teorica collaudata, l’assenza di regolarità con cui si manifestano i vari fenomeni politici e i loro sviluppi concreti a livello sociale, in un’era di certificato trapasso.

Il ricorso alla teoria del caos è allora l’unico modo che abbiamo per segnalare impraticabilità di strade già battute in precedenza per la definizione esaustiva di tendenze che, seppur intuibili, devono ancora produrre i loro effetti sulla trama mondiale. Senza decantazione di questi processi non si può fare un’analisi più seria degli esiti possibili e delle riconfigurazioni sociali a venire. In una situazione di questo genere bisogna stare alla finestra evitando di prendere posizioni troppo nette sull’evolversi degli eventi futuri che seguiranno percorsi imprevedibili, almeno basandoci sulle nostre strumentazioni imperfette o invecchiate. Abbiamo la convinzione che una grande trasformazione sia in atto ma brancoliamo ancora nel buio circa i risvolti accertabili nel medio-lungo periodo. Ci poniamo in un’ottica descrittiva di quanto accade senza fare il passo più lungo della gamba per non incorrere in errori madornali di visione, come invece capita a figuri pseudointellettuali in vena di chiacchiere che hanno già individuato nemici e alleati del popolo, nonché le misure resistenziali da assumere per correggere il corso delle cose. Costoro sono i veri reazionari che causano la rottamazione dei cervelli, proprio quando servirebbe uno sforzo interpretativo maggiore, benché si presentino al pubblico come rivoluzionari consumati.

Gianfranco La Grassa è stato sicuramente tra i primi a pronosticare quanto si sarebbe determinato sulla scacchiera geografica, con l’ingresso in una nuova fase di conflittualità multipolare e policentrica. Quando La Grassa annunciava questi presentimenti, derivati dai suoi studi sulle formazioni sociali in ambito capitalistico, erano ancora molto in voga le grandi narrazioni sulla fine della storia, sulla globalizzazione livellatrice dei diritti e doveri collettivi, al di là delle distinzioni etniche e culturali, e sulla proficua cooperazione tra le nazioni (i cui organi statali si sarebbero dissolti nel governo mondiale), tutti elementi rassicuranti venuti a galla dopo la caduta dell’Urss e l’ingresso nella monodimensionalità Occidentale trionfante. Ma, per l’appunto, si trattava di una sintesi ideologica e coercitiva dettata dall’assoluta supremazia di “un mondo” (quello vittorioso nella Guerra Fredda) sul mondo bipolare decaduto.

Proprio il pensatore veneto, già qualche lustro fa, scrisse che la cosiddetta geopolitica del caos era stata innescata da una dinamica oggettiva di conflittualità, sempre operante sotto la crosta sociale, la quale, nonostante il teleologismo dei vincitori, avrebbe sfaldato gli equilibri (a dominanza statunitense) ritenuti ormai irreversibili dai vessilliferi dello statu quo, generando un ventaglio di scelte strategiche internazionali strutturate da questo flusso destabilizzatore, con successiva ridefinizione dei rapporti di forza tra formazioni globali e regionali. Vennero in auge nuove potenze politiche ed economiche come la Cina e riemerse dagli abissi in cui l’avevano sprofondata i traditori comunisti anche la Russia, ora principale concorrente americano per gli assetti del planisfero. Anche questo predisse La Grassa, mentre tutti puntavano su Pechino quale contraltare esclusivo di Washington. In ogni caso l’intuizione lagrassiana fu confermata nella sostanza. Il primo dato ad emergere prepotentemente con l”entrata in questa nuova fase è stato lo scoordinamento finanziario e l’avvento di un periodo di stagnazione economica quasi dappertutto. Gli economicisti hanno interpretato questo fatto come quello basilare, l’ingrediente scatenante il disordine odierno. Ma si tratta invece di una conseguenza superficiale che segue e non precede la fine del tendenziale monocentrismo Usa (1991-2001) e la crescita di potenza di paesi competitori dell’America (in particolare, ancora Russia e Cina). In proposito afferma La Grassa: “Propendo comunque per la prosecuzione, sia pure non lineare bensì con andamento a sbalzi, della tendenza al multipolarismo (attualmente ancora molto imperfetto) in direzione dell’usuale policentrismo che annuncerà un periodo di acutizzazione del conflitto per il predominio mondiale; e non certo di tipo prevalentemente economico, bensì soprattutto politico e bellico. Ed è al servizio di quest’ultimo che funzionerà, in definitiva, l’economia di vari paesi in fase di trasformazione decisamente innovativa. Si verificheranno pure, soprattutto nei paesi che si avvieranno ad essere effettive potenze, modificazioni non indifferenti delle “strutture” sociali (delle forme dei rapporti tra i diversi gruppi sociali). La crisi, nel suo aspetto più superficiale, quello economico appunto, sarà lunga e tormentosa, strisciante e priva di impennate verso alti ritmi di crescita; nel contempo, non dovrebbe nemmeno condurre a catastrofici sprofondamenti. E’ probabile qualche crac finanziario, più difficilmente bruschi e autentici crolli nei settori della produzione; almeno per alcuni anni a venire. La sfera economica sarà però investita da mutamenti intersettoriali, da avanzamento di date branche (alcune anche nuove) con arretramento di altre”.

Chi pretende di agire sugli effetti di questo cambiamento senza sforzarsi di capire la sviluppo del moto ondoso oggettivo sospingente gli eventi genera soltanto illusioni o, peggio ancora, adescamenti fuorvianti. Uno di questi specchietti per le allodole si chiama finanzcapitalismo, stadio supremo del capitalismo volatile, proprio come gli uccellatori che ce lo raccontano. Filosofastri, economastri e socio(patici)loghi lo definiscono “come quella mega-macchina sociale…[che]ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sottosistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona. Così da abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione.
Perché il finanzcapitalismo ha come motore non più la produzione di merci ma il sistema finanziario. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro. In un crescendo patologico che ci appare sempre più fuori controllo”. Nulla di più falso e di meno scientifico, fandonie allo stato puro laddove per collocare la funzione del denaro e della finanza nel sistema capitalistico occorre avere ben presente l’intero quadro delle relazioni interdominanti e l’azione dei soggetti agenti nelle varie sfere sociali, azione sospinta e informata dal flusso conflittuale soggiacente ad esso. Ciò che prende il sopravvento non è dunque la finanza ma il conflitto in ogni ambito societario, causando questo una precipitazione di apparati e rapporti di dominanza che segnalano i “frutti” di tali lotte tra attori strategici. Allora è la Politica, intesa come insieme di mosse strategiche per la supremazia, nei diversi settori in cui per comodità espositiva dividiamo la società (economico, politico, ideologico-culturale) il minimo comun denominatore del sistema. Non ci sono stadi definitivi o degenerativi sui quali discettare a capocchia. Se proprio vogliamo individuare un cerchio preminente, al momento decisivo in cui si giocano le sorti e i destini di un Paese, questo non è sicuramente quello finanziario ma il livello ben più oscuro e nascosto in seno agli Stati in cui si elaborano le direttive geopolitiche per la conquista degli spazi vitali e l’accaparramento delle risorse indispensabili alla proiezione egemonica di un certo drappello di dominanti.