IL FUNERALE DI UNA PACE IMMAGINATA di Andrea Fais

La pace. Che bella parola. Evoca sentimenti buoni e situazioni edificanti. Se non fosse per il fatto che ormai la ricolleghiamo, per abitudine, quasi pavlovianamente – oserei dire – alla bandiera multicolore delle associazioni arcigay occidentali, potremmo ritrovarvi uno sfondo semantico non troppo dissimile dall’armonia confuciana. Eppure questa concezione, nella Cina imperiale, aveva un significato sicuramente diverso. Nella tradizione sinica, infatti, all’equilibrio socialedel filosofo orientale, si aggiungono le memorie strategiche di Sun Tzu e di Sun Pin, due cinicigenerali realisti, molto pragmatici e per nulla intenti a ricercare un mondo ideale ed armonioso, fuori dal mondo reale, ma, invece, sempre attenti a contemplare la complessità, la contrapposizione e l’ambivalenza delle cosedella realtà, proprio come insegna il più antico principio taoista. E dunque anche la guerra, come la pace, fa parte della storia dell’uomo? Possiamo dirlo? Per la scienza moderna non esistono dogmi, ovvero non vi sono postulati universalmente validi ed identici nel tempo: nulla al mondo è in grado di garantire all’uomo che un assunto dialettico oggettivamente corrispondente alle dinamiche della realtà (legge o teorema) non possa, successivamente, essere superato o invalidato da una nuova trasformazione della quantità in qualità all’interno di quelle stesse dinamiche, come lo stesso Friedrich Engels faceva realisticamente notare nella teorizzazione del materialismo dialettico. Tuttavia, sullo sfondo persino del più “evoluzionistico” dei pensatori (da Eraclito a Darwin, per intenderci), resta un carattere costante, un sigillo che racchiude all’interno di invalicabili argini ontologici l’orizzonte del divenire, evitandone qualunque suggestiva e pericolosa deriva relativistica. Questo sigillo, immutabile nella sua più intima struttura, è un ritmo storico, un’invarianza nella varianza, una “legge di natura” confermata da quello stesso divenireche continua incessantemente a provocare: il contrasto. Non si tratta di un principio trascendentale o di un’idea fissa, anche perché, ovviamente, non esistono idee al di fuori della realtà, ed ogni idea o schema dialettico è semplicemente la risultante della trasposizione percettiva, razionale ed ordinatrice di ciò che noi osserviamo. Il contrasto è il divenire stesso, è la sua modalità storica di presentazione, è lo sconvolgimento di un ordine pre-esistente, nato a sua volta dalla risoluzione di un contrasto precedente. La storia dell’uomo e della società organizzata è in fin dei conti una storia di contrasti: scontri, oppressioni, guerre, tensioni, ostilità e cataclismi sociali hanno determinato il ritmo dell’evoluzione storica con molto più dinamismo di quanto se ne sia mai registrato nei periodi di pace. La Guerra Civile di Roma, le Guerre del Peloponneso, la resistenza di Leonida alle Termopili, le Crociate, i massacri degli “eretici”, i genocidi delle popolazioni pre-colombiane nell’America, la Rivoluzione Francese, e tanti altri episodi storici – alcuni dei quali perfino glorificati ai tempi d’oggi – non sono altro che tappe della vicenda umana, dense di odio, terrore e brutalità, su cui ogni idealizzazione morale è assolutamente impropria. Le vittime della Santa Inquisizione non avevano, in sé, nulla di diverso dai contadini massacrati nella Vandea, e chiunque scorga qualche differenza di valoretra i due avvenimenti è solo un manipolatore politico, che pretende di assoggettare la storia a proprio uso e consumo, per fini propagandistici. L’illusione che possa esistere una facile e completa via d’uscita da questo meccanismo storico è totalmente fuori luogo. Persino i maggiori epocali tentativi di individuare una soluzione per regolamentarequesta tendenza, o quanto meno per smussarne i margini più spigolosi, hanno sempre evidenziato il carattere artificiale e convenzionaledi una matrice scientifico-giuridica, che si è necessariamente imposta con ennesime prove di forza e violenza operate da una parte della società (o da una nazione) nei confronti di un’altra: il primo codicismo babilonese di Hammurabi, la struttura della polis in Grecia, il ruolo fondamentale del diritto nell’Antica Roma, il titanico compito storico assolto dal Corpus Iuris Civiliscompendiato sotto Giustiniano, l’armonia diplomaticadell’Impero Bizantino, e l’ordine geografico-politico impresso al ruolo di Mosca come Terza Roma, sono esempi evidenti della continua ed incessante ricerca di una razionalità strategica fondata su un approccio essenzialmente geometricoalla complessa questione della gestione della società. Il metro di osservazione storico-politico è dunque, in ogni caso, la forza. Non esiste altra misura che questa. Hobbes era stato chiarissimo, quando introdusse i fondamentali concetti politologici di Patto di Unionee di Patto di Soggezione, quali basi storiche dello Stato moderno, per rifuggire dalle derive dello stato di natura e della destabilizzazione. Questa dirompente concezione, giunta in piena epoca moderna, ed appena un secolo prima dell’Illuminismo, presenta due essenziali cardini realisti che distruggono qualunque idealizzazione escatologica della storia:

1)      introducendo la premessa che l’uomo sia per natura egoistaed opportunista, il filosofo inglese smonta qualunque concezione moralmente volta a fantasticare un’intrinseca natura benevola umana, fissando la necessità di un organismo sociale definitivo ed irreversibile, pur internamente modificabile attraverso scelte logiche e calcoli razionali.

2)      introducendo la figura del Sovrano(da interpretare nel senso dell’ordine costituito in generale, sia esso monarchico o repubblicano) quale necessario depositario delle limitazioni alla libertà individuale dei singoli uomini, disintegra tutte le contemporanee e posteriori idealizzazioni libertarie ed autonomistiche della società umana (dall’utopia di Thomas More alle farneticazioni anarcoidi di Max Stirner).

Esiste una concezione di “pace” nella tendenza realista del diritto internazionale? Ovviamente sì, ed è lo stato presentemaggiormente auspicabile, perché durante un largo periodo di stabilità è possibile fare tutto ciò che soddisfi gli interessi dei singoli e delle nazi
oni, e delle loro attività sociali, politiche ed economiche. Tuttavia, la pace, fin’ora, è sempre stata relativa a precisi contesti geografici e storici, e non è mai stato possibile considerare il mondo
universalmente in pace. Avrebbero potuto considerarsi in pacei cittadini inglesi sul finire del XIX secolo, contemporaneamente (e malgrado) la conquista britannica dell’India, un gigantesco territorio lontano, inoffensivo, povero e semi-sconosciuto. Ma gli irlandesi, che in quegli anni vivevano la stessa oppressione britannica subita dagli indiani, cosa avrebbero potuto pensare? Per loro la pace era terminata già da secoli, ed anche i momenti di tregua erano comunque soltanto concessioni unilaterali, sotto lo sacco inglese. Ed oggi, proprio quando la pace è costantemente tenuta sotto scacco da un imperialismo non più a macchie, come quello coloniale, ma globale come questo odierno – un imperialismo che non guarda in faccia a nessuno, e trascina con sé tutto ciò che riesce a coinvolgere, sia sul piano economico sia sul piano interventistico – tanto più non possiamo considerarci in un’autentica situazione di pace, anche qualora le sempre più rapide contrapposizioni belliche siano terminate. Per questo, allo stato attuale, non esiste alcuna pace da difendere, al punto che non può esservi spazio per posizioni neutrali, chiaramente prive di fondamento storico ed esclusivamente strutturate su aspetti morali ed essenzialmente sovrastrutturali.

Chiunque vuole che questo pluridecennale organismo criminogeno chiamato “Nato” non allarghi ulteriormente il suo raggio d’azione e la sua sfera di influenza, deve necessariamente prendere le difese dei legittimi Stati sovrani aggrediti e dei loro eserciti regolari: che i loro leader si chiamino Milosevic, Saddam o Gheddafi, poco importa. La vera e più autentica battaglia riguarda esclusivamente i principi di sovranità, non-ingerenzae reciproco contenimento, affermatisi nei secoli e a vari livelli teorici e pratici, attraverso la civiltà del dirittoe del progresso tecnologico(in generale, ma soprattutto in campo militare), ossia la sola concreta civiltà che l’uomo – incessante protagonistaermeneuticodella lezione e della testimonianza storica dei più illustri autori del panorama filosofico e scientifico euro-mediterraneo ed euro-asiatico (in questo caso, da non confondere con “eurasiatico”) – abbia potuto conoscere.

Il preteso diritto cosmopolitico kantiano, in sostanza, non ha alcun fondamento storico, né tanto meno di natura, e quelli che dalla metà degli Anni Settanta (1975: Final Actdella Conferenza di Helsinki, 1978: fondazione di Helsinki Watch, diventata, dieci anni dopo, Human Rights Watch) vengono indicati quali i “diritti universali dell’essere umano”, costituiscono un breviario moralistico e puramente ideologico, privo di senso, anzitutto perché definiti unilateralmente dal mondo occidentale, ma soprattutto perché ampiamente disattesi dalle stesse nazioni promotrici (Stati Uniti e Gran Bretagna in primis) ed imposti, come una vergognosa arma di ricatto ideologica, mediatica e propagandistica, ai Paesi del Patto di Varsavia e all’Unione Sovietica in particolare, e, più tardi, a tutti gli altri Paesi che si fossero posti in contrasto con le mire egemoniche atlantiche.

Chi, ancor’oggi, nel nome di questi fasulli dogmi ideologici, sventola la bandiera neutrale e pacifista di una fantomatica “terza-posizione”, si ritrova inconsapevolmente (o meno) nel campo dell’anti-storia, nel grottesco tentativo di tenere due piedi in una scarpa. Chi fino a pochi giorni fa inneggiava alla “caduta del dittatore” e all’intervento dell’Onu, dalle sicure mura domestiche o in una tranquilla piazza italiana, oggi è stato servito e ampiamente ricompensato. Forse, fra questa gentaglia, chi ora si rammarica di fronte alle immagini delle centinaia di testate cruisepiombate sulla Libia, chi si copre le orecchie mentre uno stormo di cacciabombardieri F-16 statunitensi sorvola i nostri cieli per andare a sganciare quintali di artiglieria pesante su Tripoli, pensava che, votata la no-fly-zone, il generale Mullen sarebbe andato cautamente a bussare alla porta del Rais, portandogli un mazzo di fiori ed invitandolo cortesemente ad andarsene? Bé, la guerra non funziona così. La guerra è uno scontro terribilmente reale. Qualcuno dovrebbe ricordare loro che vivere uno stato mentale immaginando che dei soldati possano improvvisamente mettere “dei fiori nei loro cannoni”, non modifica e non altera la realtà dei fatti. Le bandiere della pace non hanno senso, se la pace non esiste, così come non esisteva nemmeno prima della decisione di opporre una forza militare alla Libia di Gheddafi, e come non esisteva prima della guerra in Iraq o prima di quella in Afghanistan. Il mondo, dopo il 1918 e dopo il rapido tramonto del vecchio ordine coloniale, in favore della progressiva ascesa della nuova potenza dominante e delle sue differenti e mutevoli strategie internazionali, è diventato un campo di battaglia globale, dove ogni attore strategico via, via comparso sulla scena è stato costretto a misurarsi con le regole di un gioco cinico e senza esclusione di colpi. Per fermarlo, vale la parafrasi di un noto principio della meccanica: ci vuole una risposta eguale e contraria.